MORA, Domenico
MORA, Domenico. – Nacque a Bologna nel 1536. La famiglia vantava ascendenze fra la nobiltà del libero stato svizzero delle Tre Leghe: egli stesso si presentò nella titolatura delle sue opere come «gentilhuomo grisone».
Mancano dettagli sulla sua formazione, ma è certo che già prima dei trent’anni entrò nel sodalizio bolognese noto con il nome di Accademia degli Storditi, che coltivava particolarmente le scienze cavalleresche. Si impegnò a fondo nello studio dell’arte militare e nel marzo 1567 pubblicò i Tre quesiti in dialogo sopra il fare batterie, fortificare una città, et ordinar battaglie quadrate (Venezia, G. Varisco).
Il libro è dedicato al duca di Firenze Cosimo de Medici, al servizio del quale Mora aveva avuto animo di entrare. L’inizio del primo dialogo (Di far batterie) coincide con la polemica affermazione della prevalenza della professione militare su quella giuridica. Mora tratta quindi di artiglierie, di balistica, di cariche esplosive, di resistenza all’urto dei proiettili. Il secondo dialogo (Del fortificare) discute della miglior forma di fortificazione. Il terzo (Di por battaglie quadrate) inizia con la considerazione su una possibile «perpetua pace». Per Mora, essa si potrebbe assicurare solo portando la guerra «in Asia, in Africa, & in molte parti dell’Europa contra gl’infideli, & i nemici di Dio» (ibid., p. 54r), tra i quali sono compresi anche quelli «della nostra fede catholica» (ibid., p. 54v).
Nel 1569 lavorava a uno scritto sulle antiche macchine belliche che però non vide la luce. Uscì invece Il soldato, dedicato al duca di Parma Ottavio Farnese.
Il primo stampatore fu Giovanni Griffio; dopo pochi mesi lo stesso titolo fu distribuito anche da Gabriele Giolito de’ Ferrari (che aggiunse una prefazione a opera di Tommaso Porcacchi) e da Vincenzo Valgrisio. Il corposo volume è distinto in quattro libri: il primo, dopo un esame sulle condizioni necessarie a rendere «giusta» una guerra, analizza in dettaglio il comando generale e l’organica degli eserciti; il secondo libro si sofferma sul dispiegamento tattico delle truppe; il terzo tratta di fortificazioni, il quarto di assedi. Discutendo delle qualità richieste al soldato, Mora ha modo di tornare alla contrapposizione tra armi e lettere: in particolare, ricorda con enfasi che l’impero romano era stato «acquistato non da Bartoli, non da Baldi, né da simili huomini, ma da Cesari, da Pompei, dagli Ottaviani, i quali per mezzo dell’arme furono imperatori di tutto il mondo, & facitori delle leggi» (Il Soldato, Venezia, G. Giolito de’ Ferrari, 1570, p. 10).
Passò nel frattempo all’esercizio attivo. Non avendo ritenuto opportuno partecipare – senza un comando – alla spedizione pontificia in Francia contro gli Ugonotti nel 1569, l’anno successivo si arruolò nelle forze armate di Venezia: fu nominato capitano di una compagnia di fanteria e inviato a Zante (Zacinto). Dopo contrasti con il comandante del presidio, il provveditore Paolo Contarini, rientrò però nello Stato della Chiesa.
Nel 1572 pubblicò il Parere sopra l’ordine di guerreggiare la potenza del Turco (Bologna, A. Benacci), dedicato a Giacomo Boncompagni, il figlio di Gregorio XIII allora prefetto di Castel S. Angelo, ma destinato l’anno seguente alla carica di comandante generale delle armi pontificie. In questa opera, senza professare entusiasmi per la recente vittoria di Lepanto, Mora critica la scelta di combattere i turchi sul mare e considera risolutiva solo la strategia di attaccarli da terra, in modo da mettere in crisi l’economia e la stabilità politico-sociale dell’impero ottomano. Allo scopo, gli sembra nondimeno necessaria una generale riforma degli ordinamenti militari degli Stati cristiani.
Tra il 1574 e il 1575, combatté contro gli ugonotti nel Contado Venassino, militando nell’esercito pontificio al comando di Marcantonio Martinengo. Fu nominato governatore militare della Palude (Althen les Paluds, a circa 15 km da Avignone); partecipò quindi, nel maggio 1575, alle operazioni per la riconquista di Camaret-sur-Aigues e di Beaumes-de-Venise (cadute nelle mani degli Ugonotti). Ne trattò nell’opera (di cui non sono più disponibili esemplari) Raquisto di Camereto, e Bauma, et come si deva far una Batteria, et guardare le picciol ville del Contato d’Avignone, con una Disputa fra il Trombeta, et Ugonoti intorno la loro Religione in Dialogo (Avignone, P. Rosso, 1576).
Rientrato in Italia, si trovò privo di reali prospettive di carriera. Da una lettera del patriarca di Gerusalemme Giovanni Antonio Facchinetti al duca Ottavio Farnese (Arch. di Stato di Parma, Archivio Farnesiano, Carteggio estero, Roma, b. 386, cc. n.n., 21 nov. 1579) si apprende che, «essendo al momento libero», cercava un incarico presso la corte farnesiana. Tramontata questa ipotesi, prese la via della Polonia. Entrato nell’esercito del re Stefano Bathory (in guerra con la Moscovia dal 1577, dopo l’attacco di Ivan IV contro la Livonia), giunse sul teatro delle operazioni nel 1580, raccomandato dal cardinal nipote di Gregorio XIII, Filippo Boncompagni, e dal nunzio Alberto Bolognetti. Partecipò probabilmente alla battaglia di Velikiye Luki (2 settembre 1581) e all’assedio della fortezza di Psków, atto finale del conflitto, concluso all’inizio del 1582 proprio grazie alla mediazione diplomatica pontificia.
Mora ebbe quindi il comando della piazza di Połock e vi rimase per circa un anno senza stipendio. Insoddisfatto del trattamento ricevuto, pensò di tornare in Italia: nel novembre 1582 presentò al cardinale Tolomeo Gallio (segretario del papa) un progetto di rifacimento del porto di Ancona. Nondimeno, ricevuto per intervento del nunzio Bolognetti uno stipendio mensile di 32 fiorini, rimase in Polonia.
Entrò in contatto con il gesuita Antonio Possevino, inviato dapprima in Polonia e in Moscovia come legato papale, poi trattenuto come nunzio in Polonia. Contemporaneamente a Possevino, propose una colonizzazione della Livonia mediante immigrati cattolici tedeschi o fiamminghi. I rapporti fra i due non dovevano essere però stretti: nonostante Mora avesse denunciato le opinioni «eretiche» del medico di Stefano Bathory, Niccolò Buccella, Possevino mostrò di non credere affatto che Mora aderisse in tutto ai dettami della Chiesa della Controriforma: avuta notizia delle fortificazioni che questi voleva erigere a Połock, il gesuita rimarcò al nunzio che «la maggior fortificatione la quale potrà fare in Polozco, sarà quella dell’oratione et della religione cattolica et frequenza de santi sacramenti, perciò che altrimenti evanescunt omnia» (Alberti Bolognetti ... Epistolarum et actorum ..., p. 88).
Dopo la morte di Stefano Bathory (12 dicembre 1586), mancano dettagli sul comportamento tenuto da Mora nel conflitto per la successione che si aprì. Probabilmente entrò al servizio di Sigismondo III Wåsa, assumendo il grado di colonnello nell’esercito polacco. Avviò infine la stesura di una nuova opera, iniziata nel periodo in cui era stato di stanza a Połock, e l’affidò nel 1589 allo stampatore di Vilnius Daniel da Łęczyca (peraltro noto per le sue simpatie antitrinitarie).
Il cavaliere è dedicato a Jan Zamoyski, il potente cancelliere in carica sotto Stefano Bathory e durante la prima parte del regno di Sigismondo III. Obiettivo esplicito del lavoro è quello di rispondere alle accuse portate da Girolamo Muzio, nel suo Il gentilhuomo, contro la figura dell’uomo d’armi. Ma l’opera non si limita a difendere l’onorabilità della professione militare e a ribadire la precedenza delle armi sulle lettere. Mora abbozza una teoria politica che fonda la potenza degli stati sostanzialmente sul fattore militare. La Polonia-Lituania (con la sua peculiare forma di governo, una monarchia elettiva) gli sembra un modello: era infatti popolata da una nobiltà guerriera e poteva mobilitare grandi eserciti. Il cavaliere – nel quale la critica ha notato un recupero di temi machiavelliani – dà spazio altresì a una violenta polemica antiprotestante: Mora non esita ad addentrarsi nei più aspri temi della controversistica come la reale presenza del corpo di Cristo nell’ostia consacrata.
Negli anni successivi lavorò a una nuova opera, che doveva concludere la trilogia iniziata con Il soldato e Il cavaliere. Rimasta inedita, un frammento di essa è forse il manoscritto conservato alla Bibliothèque Nationale de France (ms. Italien 1637), intitolato Strategiemi, et inventioni di guerra atti alla conservatione, augumento et espugnatione d’uno Imperio. In questo scritto, dedicato all’imperatore Rodolfo II, Mora riprende ampliandoli e corredandoli di illustrazioni alcuni temi già trattati ne Il soldato (come le tattiche di battaglia, la fortificazione, l’uso delle artiglierie). Il titolo Strategiemi fa riferimento a diverse invenzioni proposte da Mora: un mulino portatile, un sistema per filtrare l’acqua rendendola potabile, attrezzature meccaniche per scardinare porte corazzate.
Al 1595 risale il breve discorso Iudicium … sit necne Turcae bellum inferendum, deque eius belli gerendi ratione, cum nulla unquam amplius fides Turcis haberi debeat (Vilnius, s.n.t., 1595), dedicato al cardinale Jerzy Radzwiłł, consigliere del re Sigismondo. Mora cerca innanzitutto di dimostrare la necessità che le armi della Polonia si volgano contro il Turco in aiuto degli Asburgo. La neutralità, come mostrava la storia recente, a suo giudizio non avrebbe guadagnato alcun tipo di protezione; invece, una guerra su vasta scala portata sul territorio nemico (come già aveva pronosticato Nicolò Machiavelli nel libro IV del Principe) avrebbe aperto la strada a una definitiva sconfitta degli Ottomani. A questo scopo, un profondo disciplinamento delle truppe gli sembra essenziale: egli stesso si propone come sovrintendente all’addestramento dei soldati.
Poco dopo tornò in Italia. Del 1600 è un suo discorso Dell’inondazione del Tevere a Roma nell’anno 1598 (Roma, G. Facciotto), mediante cui intende confutare il Trattato dell’inondatione del Tevere di Giacomo Castiglione (Roma, G. Facciotto, 1599) e argomentare la sua proposta di risistemazione del letto del Tevere.
Morì poco dopo l’anno giubilare, in una data e in un luogo che non è possibile determinare.
Fonti e Bibl.: Alberti Bolognetti nuntii apostolici in Polonia Epistolarum et actorum pars I-II, a cura di E. Kuntze - Cz. Nanke, Cracovia 1923-1938, ad ind.; Bartolomeo di Galeotti (F. Bianchi), Trattato De gli Huomini illustri di Bologna..., Ferrara 1590, p. 126; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, V, Bologna 1786, pp. 99-105; C. Promis, Gl’ingegneri e gli scrittori militari bolognesi del XV e XVI secolo, Torino 1863, pp. 106-113; Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari da Trino di Monferrato stampatore in Venezia, a cura di S. Bongi, II, Roma 1895, pp. 300-304; G. Angelozzi, Cultura dell’onore, codici di comportamento nobiliari e Stato nella Bologna pontificia: un’ipotesi di lavoro, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, VIII (1982), pp. 305-324; C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Bari 1988, pp. 228-230; G.L. Betti, Scrittori politici bolognesi nell’età moderna, Genova 2000, pp. 41-63; C. Madonia, D. M., un capitano bolognese al soldo della Repubblica nobiliare polacca, in La via dell’ambra. Dal Baltico all’Alma Mater, a cura di R. C. Lewanski - E. Kanceff, Moncalieri 1995, pp. 281-294; P.F. Gehl, Military courtesy in sixteenth century Lithuania: Il cavaliere of D. M., in Archivum lithuanicum, III (2001), pp. 55-76; D. Weinstein, Crusade, chivalry, millennium and utopia. The vision of D. M., in Acta Histriae, X (2002), pp. 601-610.