INDUNO, Domenico
Nacque a Milano il 14 maggio 1815, quintogenito di Marco, cuoco e credenziere presso le cucine di corte, e Giulia Somaschi. Appena ragazzo, l'I. fu mandato a bottega dall'orafo Luigi Cossa, collaboratore della Zecca. Quest'ultimo lo convinse a iscriversi, sedicenne, all'Accademia di Brera, dove trovò maestri come Luigi Sabatelli e Pompeo Marchesi (che tanto apprezzarono le qualità del giovane artista da acquistare suoi disegni) e come Francesco Hayez, che avrebbe costituito per l'I. un punto di riferimento essenziale e duraturo.
A testimonianza di un talento rimarchevole ed evidente, sin da principio il corso di studi dell'I. fu punteggiato di riconoscimenti. Il primo anno ricevette i premi di ornato, figura, nudo e composizione; e nel 1833, quelli per la figura nel disegno e nella plastica, nonché nel disegno da rilievo. Nel 1836 riuscì a confermare i riconoscimenti per la figura nel disegno e nella plastica e fu premiato per il disegno di invenzione e per quello relativo a un tema di storia con molte figure. Nel 1838 si affermò nella categoria del soggetto storico.
Dal 1837 il pittore iniziò a esporre alle mostre annuali di Brera, presentando quell'anno, tra le altre cose, un Bruto giura di vendicare la morte di Lucrezia (ubicazione ignota). Nel 1839 espose un S. Martino che divide il suo mantello con un mendicante (ubicazione ignota) e dipinse Alessandro infermo vuota la coppa offertagli dal medico Filippo (Milano, Pinacoteca di Brera: bozzetto, nella Galleria d'arte moderna). Con quest'opera conquistò il gran premio di pittura dell'Accademia, che gli valse una medaglia d'oro, l'esenzione dal servizio militare austriaco e una prestigiosa commissione artistica. Fu infatti chiamato a realizzare una tela per Ferdinando I, raffigurante il Profeta Samuele unge re Saul (che andò ad arricchire le Gallerie imperiali di Vienna), il cui soggetto intendeva probabilmente richiamare l'idea della legittima sovranità dell'imperatore sul Regno Lombardo-Veneto. L'opera fu esposta a Brera nel 1840.
Già dalle prime realizzazioni, si manifestarono alcuni caratteri salienti della personalità artistica dell'I.: innanzitutto la sua naturale facilità esecutiva (financo eccessiva, se critici di primo piano come Pietro Estense Selvatico e Carlo Tenca ritennero per tempo di segnalarla come un possibile fattore di virtuosismo esteriore) e, inoltre, le spiccate qualità narrative, una decisa inclinazione realista, la padronanza nel disegno, il magistero compositivo, un gusto classicista, però aperto al pathos e all'epica storica del romanticismo.
Al termine dell'iter accademico fu proprio Hayez a prendere a cuore le sorti del giovane I.: in primo luogo, aiutandolo a reperire uno studio situato nei pressi della sua abitazione, in via del Monte di pietà; poi, impegnandosi a indirizzarne il talento anche verso il genere del ritratto, che, pur occupando un ruolo piuttosto marginale nel corpus induniano, presenta esiti di spiccata personalità e notevole finezza esecutiva; infine, mettendolo in contatto con il giro dei principali collezionisti e amatori d'arte di Milano, quali il marchese Girolamo D'Adda Salvaterra, Massimo d'Azeglio e soprattutto il conte Giulio Litta.
Per quest'ultimo, nel 1842, l'I. realizzò uno dei suoi primi capolavori di genere, La preghiera, esposta a Brera nello stesso anno.
La tela (collezione privata: ripr. in Bietoletti, p. 38) rappresenta una sorta di manifestazione aurorale, eppur già compiuta, del gusto verista - incline all'aneddotico, propenso a un tono intimistico e a un'ambientazione pauperista - che sarebbe divenuto uno dei marchi di fabbrica dell'Induno. La Preghiera, inoltre, nella sua asciutta e dimessa monumentalità, costituisce una limpida testimonianza dell'area di interessi e di influenze che a questa data alimentavano la pittura dell'I.: la produzione di genere di Giacomo Ceruti; la tradizione settecentesca veneziana, con particolare riferimento a Giovanni Battista Piazzetta e Giambattista Tiepolo (interesse direttamente mediato da Hayez); l'opera di Giuseppe Molteni, che si era già prodotto nell'ambito della pittura di genere, esponendo a Brera i frutti di tale impegno; la cultura figurativa Biedermeier (soprattutto i dipinti di Peter Fendi, Carl Schindler e Friedrich Amerling, quest'ultimo amico di Hayez e di Molteni e, in più di una circostanza, presente nelle mostre braidensi). La Preghiera, infine, costituisce il primo di una copiosa serie di cimenti che l'artista avrebbe realizzato per Giulio Litta, all'epoca la figura di maggior spicco del collezionismo meneghino.
Il 28 febbr. 1843, l'I. prese in sposa Emilia Trezzini, sorella di Angelo, patriota convinto e garbato pittore che sarebbe divenuto allievo dell'I. e di lui fedelissimo seguace.
Le tendenze artistiche e poetiche, che erano emerse nella Preghiera, si vedono largamente confermate nell'Orfanella in preghiera (ubicazione ignota), esposta a Brera nel 1844, insieme con altre undici tele dell'Induno. Spiccavano fra di esse Un episodio del diluvio (Milano, Banca di Legnano), pure dipinta per il conte Litta, nella quale il soggetto veniva declinato in una chiave lugubre e accentuatamente sentimentale, e l'Uccellatore (ubicazione ignota).
Quest'ultimo dipinto dà conto di un'ulteriore radice dell'arte dell'I.: quella connessa alla rappresentazione di genere olandese e fiamminga del Seicento, aneddotica, minuziosamente descrittiva e attenta a illustrare le connotazioni morali degli episodi raccontati. La tela fu stimata dalla critica contemporanea come il primo inequivocabile cimento dell'I. nella pittura di genere (nel 1858, sarebbe stata scelta dalla Società promotrice di Firenze fra le opere dell'I. meritevoli di essere tradotte in incisione).
In effetti, nella seconda metà del quinto decennio divenne sempre più prevalente la rappresentanza di temi di genere fra le opere dell'I. esposte alle mostre di Brera, come testimoniano La partita a carte (commissionata dal marchese D'Adda Salvaterra: ubicazione ignota), Lo studio di pittura (ubicazione ignota), prima versione di un soggetto che l'artista avrebbe ripetuto più volte, e la Vivandiera (collezione privata: ripr. in Nicodemi, tav. 53), realizzata nel 1846 su commissione del conte Litta, prototipo di una serie di quadri in cui la tematica risorgimentale viene risolta in una chiave sorprendentemente intimistica.
L'attività dell'I. che viene delineandosi in questi anni, volta all'osservazione e alla partecipata narrazione pittorica della realtà ordinaria, s'innesta, e prende posizione, all'interno di un dibattito critico che fu particolarmente vivace negli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento e in Italia ebbe come principale protagonista Pietro Estense Selvatico. A partire dalla sempiterna riflessione intorno alla natura, i compiti e gli obiettivi della pittura, e dal confronto fra le sue funzioni etiche e civili, didattiche ed edonistiche, in quegli anni si svolse un esercizio serrato di comparazione tra pittura di storia (di tema aulico e legato al passato) e pittura di genere (di soggetto realista e moderno). Fu in quest'ultima, in certo modo ribaltando i dettami della tradizione, che Selvatico riconobbe i più importanti compiti morali e civili. La critica ottocentesca vide nella produzione dell'I. un punto di equilibrio adeguato e conveniente fra i due generi e fra i registri stilistici e contenutistici che in essi trovavano espressione.
Frattanto il fratello minore dell'I., Gerolamo, dopo avere anch'egli seguito tutto l'iter formativo accademico, nel 1845, e poi ancora nel 1846, prese a esporre le sue tele alle mostre annuali di Brera, sotto la chiara influenza e l'affettuosa protezione dell'Induno.
I due fratelli parteciparono ai moti anti-austriaci culminati, nel marzo del 1848, nelle Cinque giornate di Milano, delle quali l'I. raffigurò un episodio (Milano, collezione privata). Nell'agosto dello stesso anno furono costretti a fuggire entrambi nel Canton Ticino, dove, come molti altri patrioti italiani, soggiornarono alcuni mesi. Durante la permanenza in Svizzera, l'I. realizzò con ogni probabilità i due ritratti di Cesare Bernasconi e della moglie Virginia Bernasconi De Marchi (collezione privata: ripr. in Intorno agli Induno, pp. 182 s.), il ritratto della contessa Clara Maffei (Milano, collezione Crivelli: ripr. in Bietoletti, p. 45), e ancora, la garbatamente crepuscolare Malinconia (Trieste, Civico Museo Revoltella), nonché La suonatrice di ghironda (collezione privata: ripr. ibid., p. 43), quadro firmato e datato 1849 che, riemerso da pochi anni sul mercato antiquario, si è subito imposto come meditazione particolarmente raffinata attorno alle scene di genere di Giacomo Ceruti.
Dopo il periodo ticinese, i due fratelli ripararono a Firenze. Nel corso di questo soggiorno, l'I. ebbe modo di esporre due sue tele alla mostra annuale della Società promotrice di Firenze: La macchia d'inchiostro (ubicazione ignota) e I contrabbandieri (collezione privata: ripr. in Intorno agli Induno, p. 63).
Quest'ultima, realizzata per un tal Barboglio, fu nuovamente esibita a Brera nel 1851 e lì assai ammirata da Carlo Tenca. In essa, in effetti, l'I. riuscì ad aggirare le tentazioni del bozzettismo, grazie alla scelta di una controllata epica popolare e di un'atmosfera minacciosa dominata dal paesaggio vasto e incombente.
Sul finire del 1849 l'I. poté fare ritorno a Milano, ricominciando presto a presentare le sue opere alle mostre braidensi. Nel 1850, infatti, dipinse ed espose la Veduta del piccolo mercato di Firenze (collezione privata: ripr. in Bietoletti, p. 47), nonché altre due opere che incontrarono un particolare apprezzamento e che nel 1855, insieme con altri cinque dei suoi dipinti migliori, sarebbero state scelte per rappresentare l'I. all'Esposizione universale di Parigi. Si trattava del Rosario (Milano, Galleria d'arte moderna), austera e malinconica caratterizzazione alla maniera di Jean-Baptiste Chardin di un interno piccolo borghese; e La questua, commissionata dal marchese Crivelli, (ubicazione ignota: ripr. in Intorno agli Induno, p. 17).
Sembra che in questa tela l'I. abbia inteso fare specifico riferimento alla raccolta dei fondi in favore delle vittime di una sanguinosa repressione ordinata dal maresciallo Johann Joseph Radetzky i primi giorni del gennaio 1848, contro una manifestazione civile di dissenso antiaustriaco. Si è anche ritenuto di cogliere nella Questua un richiamo di stretta attualità al cosiddetto prestito mazziniano, un'iniziativa di finanziamento volontario dell'insurrezione patriottica, dietro rilascio di una sorta di ricevute, le cartelle, che proprio nel corso del 1850 iniziarono a essere distribuite clandestinamente a Milano.
Intorno al 1850 cominciarono a farsi più rari i dipinti che rappresentavano soggetti risorgimentali o nei quali si dessero diretti riferimenti alla situazione politica contemporanea. Vieppiù crescenti risultarono, per contro, gli episodi ambientati in interni domestici e le vicende che avevano come protagonisti poveri e derelitti.
Scene intime, spesso con pochi personaggi, virate in una tonalità emotiva malinconica e dimessa, talora perfino desolata, che però venivano animate pittoricamente da quella pennellata rapida e guizzante, da quel tocco mobile e brillante, che sempre più avrebbero caratterizzato lo stile dell'Induno.
Nel 1851 fu esposta a Brera la tela raffigurante Profughi da un villaggio incendiato (Milano, Galleria d'arte moderna), ancora dipinta per il conte Litta e specialmente prossima all'esempio di Peter Fendi (in particolare all'Alluvione del gennaio 1830, Historisches Museum der Stadt Wien).
La tela si guadagnò una recensione entusiastica di Carlo Tenca nel Crepuscolo del 28 settembre, che pur rilevandone una certa frammentarietà narrativa ne esaltava il patetismo, il genuino realismo, la consolante moralità del racconto, la qualità dei dettagli, costatando una nuova maturità del pittore nel controllo di una composizione decisamente complessa. Di quest'opera, l'I. esibì una seconda versione a Brera (oggi dispersa) nel 1854, in cui gli intenti edificanti venivano ulteriormente esplicitati e alla quale intese fornire l'intitolazione didascalica di Disastro e conforto.
Gli anni immediatamente successivi alla metà del secolo segnarono un periodo di notorietà, successo e benessere economico crescenti, durante il quale l'I. cominciò a esporre con continuità anche alle Promotrici di Firenze, Torino e Genova e si trasferì in uno studio più ampio, in piazza S. Giovanni in Era.
Proprio all'Esposizione promotrice di Firenze l'I. presentò, nel 1853, L'usuraio osserva i gioielli di una signora caduta in disgrazia (Firenze, Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti).
La bottega di anticaglie ove si svolge la vicenda, attraversata trasversalmente da un raggio di sole che penetra attraverso la finestra piombata posta all'estremità sinistra dell'ambiente polveroso, offre all'I. lo scenario ideale (memore dei dipinti d'interni olandesi del Seicento, oltreché della pittura Biedermeier) per dispiegare tutta la sua maestria luministica, il suo accurato gusto descrittivo e la sua capacità di definizione dei caratteri.
Ancora al 1853 dovrebbe risalire la Vivandiera commossa dinanzi a una croce (proprietà della Confederazione Elvetica, in deposito presso il Museo Vela di Ligornetto, nel Canton Ticino), che fu presentato quell'anno alla Promotrice di Torino, dove venne comprato per 250 lire dallo scultore Vincenzo Vela.
Il 1854 segnò un'altra tappa nel processo di consacrazione ufficiale dell'I.: fu infatti nominato socio d'arte dell'Accademia di Brera. Quell'anno furono sei le sue opere esposte alla mostra braidense. Erano fra queste L'ultima moneta, dipinta per il marchese Apollinare Rocca Saporiti e oggi perduta (che si conosce grazie a una replica, firmata e datata 1855, in collezione privata: ripr. in Intorno agli Induno, p. 79), e Il racconto del cacciatore (Milano, Pinacoteca di Brera), affettuoso e garbato racconto intimistico, reso con straordinaria accuratezza e brillantezza pittorica (particolarmente evidente nei brani di natura morta). Un'altra tela presente quell'anno a Brera fu Pane e lagrime (collezione privata: ripr. ibid., p. 77), che subito dopo l'esposizione venne acquistata da Francesco Hayez per la propria raccolta personale. L'opera fece anche parte del gruppo di dipinti chiamati a rappresentare l'I. all'Esposizione universale di Parigi del 1855. In quella circostanza le arrise un particolare successo, che indusse l'I., d'accordo con una prassi già da tempo entrata nelle sue consuetudini professionali, a realizzare non meno di quattro repliche variate del dipinto.
A Parigi furono presentate sette tele dell'I., scelte dallo stesso autore e tutte già precedentemente esposte a Brera. Tra esse, I contrabbandieri, Il rosario, La questua, Profughi da un villaggio incendiato e, per l'appunto, Pane e lagrime, alla quale la giuria assegnò un premio. Tutto il nucleo induniano, in effetti altamente rappresentativo, suscitò una notevole impressione, spingendo Théophile Gautier, nella sua recensione del 27 dic. 1855 sul Moniteur universel, ad annoverare l'I., e anche suo fratello Gerolamo, tra i migliori pittori attivi in Europa.
Al 1855 risale Il vecchio e il cane (Trieste, Civico Museo Revoltella), esemplare testimonianza del tocco mobile e guizzante dell'I., non meno che della sua capacità di sbozzare caratteri semplici ma eloquenti e incisivi.
L'I. aveva ormai conquistato un'autorità e un seguito cospicuo fra i pittori più giovani sia per quel che riguarda le peculiarità tecniche, sia sotto il profilo delle predilezioni tematiche.
Dall'esempio dell'I. dipese in parte un'ondata di scene di genere affettuosamente intimistiche e malinconiche, opera di pittori di secondo piano come Angelo Trezzini, Luigi Zoccoli, Domenico Scattola, Antonio Rotta. Ma anche artisti di maggiore levatura e personalità spiccata come Vincenzo Cabianca e Mosè Bianchi guardarono con particolare attenzione alla sua produzione.
Nel 1856 realizzò ed espose alla mostra di Brera una prima versione del Monte di pietà, che venne acquistata dalla Società degli artisti (ubicazione ignota). A quest'ultimo soggetto sarebbe toccata una speciale fortuna, che spinse l'I. a realizzarne diverse repliche anche a notevole distanza dal prototipo (la più tarda, datata 1872, in collezione privata: ripr. in Pittura lombarda dell'Ottocento, fig. 65). Sempre nel 1856, dipinse e presentò a Brera Il falso amico, che fu comprato dal collezionista napoletano Giovanni Vonwiller (collezione privata: ripr. in Nicodemi, tav. 92).
Il 1857 fu l'anno della Supplente della mamma (Padova, Museo civico), un dipinto carico di umori Biedermeier che l'I. dipinse su commissione del ricco commerciante Nicola Bottacin, allora residente a Trieste, amico dell'arciduca Massimiliano d'Asburgo e impegnato ad allestire un'importante collezione d'arte contemporanea. Al 1858 risale uno dei vertici della produzione dell'I., il commovente e sia pure un poco estenuato Al cader delle foglie (Milano, Soprintendenza al Patrimonio architettonico e paesaggistico), che l'anno seguente venne presentato insieme con altri sei dipinti all'esposizione di Brera (che fu la prima a tenersi dopo l'annessione di Milano allo Stato sabaudo e venne organizzata proprio dall'I.), riscuotendo unanime apprezzamento.
La vicenda della giovane in punto di morte che si dispone, ormai quasi esanime e consapevole della sua sorte ineluttabile, a rimirare un crepuscolare paesaggio d'autunno, mette effettivamente in luce, tutte insieme, le tante corde espressive di cui era ormai padrone l'I., nonché le sue virtù squisitamente pittoriche, qui, come mai prima, non estranee alle seduzioni della contemporanea pittura vittoriana inglese. Nel 1865, la tela fu acquistata dai Savoia e collocata nel palazzo reale di Milano.
Nel 1860, l'I. fu nominato accademico delle belle arti a Brera e chiamato a far parte della commissione nazionale del concorso Ricasoli di Firenze. Quell'anno realizzò probabilmente La medaglia (Milano, Galleria d'arte moderna) e il Ritratto di Antonio Silo (collezione privata: ripr. in Intorno agli Induno, p. 177), quest'ultimo un pittore poco noto, che fu presente alle mostre braidensi del 1859 e del 1860 e abitava in contrada S. Primo ove l'I. aveva il suo atelier. Nel 1860 presentò all'esposizione di Brera un bozzetto del Bollettino che annunzia la pace di Villafranca (il pittore dovrebbe averne realizzati non meno di cinque: uno di essi, forse proprio quello esposto a Brera, oggi in collezione privata, è riprodotto in Pittura lombarda dell'Ottocento, p. 37; un altro è a Roma nella Galleria nazionale d'arte moderna).
La tela rappresenta un momento intermedio di quel lento processo di elaborazione che sarebbe culminato nell'opera che costituisce, sotto tutti i profili, il punto cardinale del catalogo dell'I. (e che ne avrebbe ancora catalizzato le energie per due anni, sino al suo definitivo compimento).
Nel frattempo l'I. portò a termine due ritratti: quello di Antonio Carnevali (Milano, ospedale Maggiore), commissionato dall'ente ospedaliero in memoria di un suo generoso benefattore morto il 23 ott. 1859, e quello della Contessa Giulia Crevenna (opera recentemente trafugata dalla Galleria d'arte moderna di Milano). Nel 1861 firmò e datò Nello studio del pittore (collezione privata: ripr. ibid., fig. 67). Tra il 1860 e il 1863 dovettero essere dipinti sia La medaglia (Milano, Galleria d'arte moderna) sia La lettera (Napoli, Galleria nazionale di Capodimonte), tela che nelle sua raccolta malinconia presenta una rigorosa calibratura formale, e che potrebbe corrispondere a Una madamina dopo aver letto una lettera, esposta nel 1863 alla Società promotrice di Genova.
Gli anni immediatamente successivi furono prodighi di successi per l'I., destinandolo a una sorta di consacrazione ufficiale.
Innanzitutto, nel 1862, dapprima all'esposizione della Società promotrice di Torino e poi alla mostra di Brera, fu presentata, dopo un articolato percorso di messa a punto compositiva, la versione conclusiva del Bullettino del giorno 14 luglio 1859 che annunziava la pace di Villafranca (Milano, Soprintendenza al Patrimonio architettonico e paesaggistico, in deposito presso il Museo del Risorgimento). L'I. scelse originalmente di mettere in scena gli effetti più immediati sulla popolazione milanese della notizia dell'armistizio imposto da Napoleone III, che il 14 luglio 1859 metteva fine al conflitto tra l'esercito austriaco e quello franco-piemontese. In particolare, il pittore ambientò la scena nel microcosmo di una trattoria di campagna alle porte di Milano, eletta a ideale osservatorio da cui sondare, con spirito affatto antiretorico, le reazioni spontanee della gente comune (improntate soprattutto a perplessità e delusione) a un evento tanto significativo e controverso. La grande tela costituì il compimento più maturo e riuscito della pluridecennale esperienza dell'I. sia sul versante della scena di genere sia su quello della pittura di storia. In essa si combinavano equilibratamente impostazione monumentale e gusto realistico, respiro epico e minuta osservazione cronachistica, romanzo e satira popolare. La grande tela fu acquistata per conto di Vittorio Emanuele II, il quale, proprio in virtù di questa alta realizzazione, volle conferire all'I. il titolo di cavaliere dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro.
Ancora al 1862 risale Una ragazza che fa il conto della spesa (Genova, Galleria d'arte moderna), pure questa presente quell'anno all'esposizione braidense. L'anno dopo la tela fu esibita alla Promotrice di Genova e ivi comprata dal principe Oddone di Savoia. Quest'ultimo si spense appena ventunenne nel 1866, e subito dopo tutta la sua collezione d'arte fu donata dal padre, Vittorio Emanuele II, al Comune di Genova.
Nel 1863, l'I. fu nominato consigliere dell'Accademia di Brera, e contestualmente a tale riconoscimento decise di cessare di esporre suoi dipinti alle annuali mostre braidensi.
Intorno alla metà del settimo decennio, realizzò alcune delle sue opere più celebrate, a cominciare dalla Scuola di sartine (Milano, Galleria d'arte moderna), vivace istantanea resa con una pennellata brillante e mobilissima e una raffinata calibratura luministica. All'incirca coeva a questa, o forse un poco precedente, dovrebbe essere la tela raffigurante La modella (Milano, già Società degli artisti e patriottica: ripr. in Bietoletti, p. 95), esposta nel 1867 alla Società degli artisti.
Nel 1865 l'I. ricevette la commissione per La posa della prima pietra della galleria Vittorio Emanuele da parte della compagnia inglese che aveva ottenuto l'appalto dei lavori che avrebbero radicalmente modificato, e stravolto, l'aspetto del cuore di Milano. Anche per quest'opera impegnativa - alla quale egli non riuscì ad appassionarsi, e che anzi lo prostrò, come l'artista ebbe a rivelare all'amico Tullo Massarani - l'I. dovette produrre diversi bozzetti (uno di essi è conservato a Milano, Galleria d'arte moderna), prima di pervenire, in capo a un paio d'anni, a una redazione finale soddisfacente, ora al Museo di Milano. Di tale soggetto, l'I. dovette dipingere altre due versioni: una fu esibita all'Esposizione nazionale di Milano del 1872, e un'altra, all'Esposizione universale di Parigi del 1878 (in quest'ultima circostanza al pittore venne conferita la Legion d'onore).
Datata 1870 è La bella pensosa (collezione privata: ripr. in Intorno agli Induno, p. 107), ennesima variazione sul tema prediletto della giovane malinconica. L'anno dopo l'I. firmò e datò La lettera (collezione privata: ripr. ibid., p. 105), sontuoso esercizio virtuosistico neosettecentesco, che fu esposto nel 1872 alla mostra della Società permanente di Milano. Del 1872 è In cucina (collezione privata: ripr. ibid., p. 111), ulteriore rappresentazione di giovane donna nel pieno della sua avvenenza, colta in un attimo di evasione fantastica che interrompe i suoi impegni domestici. Nel 1873, con lo scabro Matrimonio di convenienza, altrimenti detto Dramma domestico (collezione privata: ripr. in Bietoletti, p. 107), l'I. vinse la medaglia d'oro all'Esposizione universale di Vienna.
Negli ultimi anni di vita l'I. diradò la sua attività, insistendo sulle predilette scene di genere e su un pervasivo registro malinconico che corrispondeva in qualche modo al ripiegamento, alla disillusione e quasi allo scoramento personale, che troviamo esplicitamente testimoniati dalla sua ultima lettera a Massarani del 16 ott. 1878 (Nicodemi, pp. 32 s.). Al pozzo, del 1876 (Trieste, Civico Museo Revoltella), dimostra, peraltro, che né il talento né l'ispirazione né la padronanza del mestiere erano necessariamente esauriti.
Poche settimane dopo aver chiuso lo studio di pittura, l'I. morì nella sua casa di corso Monforte, il 5 nov. 1878.
Fonti e Bibl.: Dipinti di D. e di Gerolamo Induno (catal.), Milano 1933; G. Nicodemi, D. e Gerolamo Induno, Milano 1945; Mostra dei maestri di Brera (1776-1859) (catal.), Milano 1975, pp. 264-268; E. Piceni - M. Monteverdi, Pittura lombarda dell'Ottocento, Milano 1969, pp. 34-37; F. Bellonzi, Architettura, pittura, scultura dal neoclassicismo al liberty, Roma 1978, p. 85; Il secondo '800 italiano. Le poetiche del vero (catal.), Milano 1988, pp. 323 s.; G. Ginex, in La pittura in Italia. L'Ottocento, II, Milano 1991, p. 869; S. Bietoletti, D. I., Soncino 1991; C. Maltese, Storia dell'arte in Italia 1785-1943, Torino 1991, p. 143; F. Mazzocca, D. I., Milano 1995; S. Bietoletti, L'atelier dei fratelli Induno, in Pittura e pittori dell'Ottocento italiano, I, Novara 1998, pp. 182-204; Intorno agli Induno. Pittura e scultura tra genere e storia nel Canton Ticino (catal., Rancate), a cura di M. Agliati Ruggia - S. Rebora, Milano 2002 (con bibl.); U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XVIII, pp. 588 s.