GIUNTI (Giuntalochi, Giuntalodi), Domenico
Nacque a Prato il 25 febbr. del 1505 da Giovanni, di professione ceraiuolo, e da Chiara Miniati. S'indirizzò presto alla pittura quale aiuto presso la bottega di Nicolò Soggi, pittore aretino discepolo di Pietro Vannucci, il Perugino. Del periodo di formazione, come pure del resto della sua attività pittorica, non si conoscono al momento saggi autonomi dovuti alla sua mano, ma solo scarne notizie documentarie che riguardano un ritratto eseguito nel 1526, una copia della Pietà di Sebastiano del Piombo (Sebastiano Luciani) e, più tardi, un ritratto per il Museo Giovio di Como. Tuttavia i suoi luoghi di formazione sono rintracciabili attraverso le commissioni a Soggi, dopo un primo contatto coincidente con l'incarico per l'altare maggiore di S. Maria delle Carceri a Prato. Infatti, il G. è attestato per la prima volta al fianco del pittore aretino in un documento pratese del giugno 1523; ma l'inizio del legame dovrebbe risalire all'anno precedente (Bardazzi - Castellani - Gurrieri; Baldini). Da quel momento seguì gli spostamenti del maestro nel suo raggio di operosità in Toscana, limitato all'Aretino (Monte San Savino, Arezzo e Valdichiana): in tali occasioni Soggi mostrò la sua "maniera dura" e gli imbarazzi creativi che lo portavano "a una fine quasi sempre faticosa e dispiacevole" (Vasari, p. 22). Raffigurato dallo stesso Soggi tra gli spettatori della Rivelazione della Sibilla tiburtina ad Augusto nell'Annunziata di Arezzo (1527-28), il G. decise attorno al 1530 di lasciare il vecchio maestro e di trasferirsi a Roma, guadagnandosi un giudizio d'ingratitudine da parte di Vasari.
Così come avveniva per quasi tutti i giovani artisti, la scelta appare in realtà la naturale conclusione del periodo di apprendistato sotto Soggi e l'avvio di una nuova fase formativa alla ricerca di un contesto più stimolante e di una prima autonomia professionale e artistica. Infatti, il giudizio di Vasari sul G., inserito nella vita di Soggi, presenta aspetti contraddittori: se da un canto ne loda le qualità e il "bonissimo ingegno" (p. 23), dall'altro ne tratteggia un profilo morale fortemente negativo, imputandogli malanimo e indifferenza verso il maestro. Lo stesso criterio s'impose nella valutazione di tutta l'attività successiva, segnata da una generica condanna d'ordine morale e non da un esame critico della sua attività artistica: dell'intensa opera del G. a Milano, una volta raggiunta una solida posizione sociale sotto la protezione di Ferrante Gonzaga, rimase solo l'accusa sottesa di lucrose malversazioni sui cantieri della città. Insomma, il resoconto vasariano, pur ricco di notizie sul periodo di formazione, risulta votato al tentativo di tramandare un ritratto del tutto negativo del Giunti. Proprio allo scopo di confutarla e di riscattare la memoria del concittadino prese origine l'unica altra fonte coeva a stampa, la succinta (e talvolta imprecisa) biografia del pratese Giovanni Miniati, parente del G. per parte di madre; e, in questo solco, nella seconda metà dell'Ottocento, Cesare Guasti scrisse, sulla scorta dell'epistolario del G., un commentario alla vita vasariana inserito poi nell'edizione di G. Milanesi, al fine di restituire un'immagine più ponderata del Giunti.
Tuttavia, il periodo di apprendistato non avveniva in un contesto chiuso o provinciale, bensì capace d'innestare sulla tradizionale influenza culturale fiorentina i portati più innovatori della scena artistica romana di Giulio II e Leone X, un'aspirazione avvertibile, spesso in una declinazione più rozza e semplificante, pure nell'opera di Soggi, soprattutto negli impaginati architettonici. Infatti, il G. doveva trarre insegnamento dal campo più specifico della prospettiva, nel quale il pittore aretino si esercitò con maggior profitto e al quale attese con continuità (Vasari). L'attività di prospettico non era infatti solo una tappa fondamentale nella formazione di pittore, ma costituiva l'indispensabile premessa a un futuro sviluppo di una cultura artistica più versatile, quella di pittore-architetto.
In questo senso il successivo soggiorno romano, collocabile quasi per intero nell'arco degli anni Trenta, consolidò la formazione toscana del G., volgendola ancor di più verso interessi architettonici. Per quanto scarse le notizie al riguardo, si sa che egli entrò al servizio dell'ambasciatore portoghese don Martino dei conti Vimioso, cugino del re Giovanni III e sensibile cultore dell'umanesimo, residente a Roma dal 1525 al 1527 e dal 1532 alla fine del 1535: all'ultimo torno d'anni può essere fatta senz'altro risalire la sua prima attività romana (Deswarte-Rosa, 1988). Proprio la piccola corte lusitana venne effigiata dal G. "con forse venti ritratti di naturale", opera che suscitò l'ammirazione di don Martino, tanto "che egli teneva Domenico per lo primo pittore del mondo" (Vasari, p. 27).
Anche se non si hanno dati certi, è molto probabile che il suo debutto nel campo dell'incisione, in particolare la collaborazione con il "libraio" Antonio Salamanca, sia successivo alla partenza dell'ambasciatore portoghese da Roma. Comunque il lavoro del G. per l'editore costituì parte del primo nucleo di stampe di vedute delle antichità romane, che sarebbe andato infoltendosi per formare la celebre raccolta dello Speculum Romanae magnificentiae, a cura di Antonio Lafreri (Romae 1575).
Oltre al soggetto allegorico Il vecchio nel carruccio e a una Veduta del Colosseo (ricordati da Vasari), è ora possibile assegnare al G. altri due disegni del Pantheon e della Porta Maggiore, poi incisi da Girolamo Fagioli per Salamanca (Dewarte-Rosa, 1989). I risultati sono di grande interesse; e le vedute delle antichità proiettano il G., per il genere a metà strada tra la veduta pittorica e le convenzioni del disegno architettonico, in una posizione significativa nella storia dei modi di rappresentazione: nello spaccato prospettico del Colosseo, per esempio, sono abilmente compendiati esterno e interno dell'edificio, sezione e proiezione planimetrica, una sintesi di matrice scenografica a cui certo non dovevano essere estranee le contemporanee esperienze di architetto e scenografo di Baldassarre Peruzzi.
Egli ampliava così significativamente il ventaglio dei suoi interessi artistici, profilandosi a contatto con l'ambiente romano nel senso dell'"artista di corte", versatile e pronto a rispondere a esigenze diverse. Proprio la sua disponibilità dovette essere il tratto principale considerato da Nino Sernini, agente dei Gonzaga a Roma, quando Ferrante Gonzaga, viceré di Sicilia, chiese che gli venisse mandato un artista alle sue dipendenze. Era ancora come ritrattista e copista che il G. poteva mostrare le sue qualità poco prima della sua partenza nell'aprile 1540 alla volta della Sicilia, in particolare nella replica della Pietà di Sebastiano del Piombo di Ubeda (Siviglia, Casa di Pilato), tavola commissionata dallo stesso Gonzaga per il potente ministro di Carlo V, Francisco de los Cobos; ma, a confortare la scelta dell'artista, più di tutto era l'autorevolezza del giudizio positivo espresso nei suoi confronti dal protagonista assoluto delle vicende artistiche romane, Michelangelo Buonarroti. Prima di partire, il G. dovette pure esaudire un'ultima richiesta del viceré, che avesse cioè qualche rudimento dell'arte fortificatoria, una delle principali preoccupazioni del governo del Gonzaga in Sicilia.
Da questo punto di vista, anche sulla base della testimonianza vasariana, si è generato l'equivoco di considerare il G. quale ingegnere militare, soprattutto nella letteratura storica siciliana fino alle più recenti acritiche accettazioni (Guidoni - Marino; Guidoni Marino). L'attività complessa e multiforme dell'artista di corte scompare così per lasciar spazio all'architettura militare, campo invero marginale nella sua opera, tanto da generare altre confusioni, indicandolo quale architetto della città di Messina e scambiandolo con Domenico da Carrara, attivo negli anni Trenta-Quaranta nella città peloritana. In questo senso risulta fuorviante, rispetto all'insieme della sua attività, l'unico riscontro grafico, due piante autografe legate all'architettura militare: un tratto delle nuove mura urbane di Milano e il progetto per la "nuova" Guastalla con la cinta pentagonale. Databili al 1553-54, in realtà documentano soltanto un aspetto contingente, pure circoscritto cronologicamente (Grosso Cacopardo; Giuliana-Alajmo).
Al servizio di Ferrante Gonzaga in Sicilia dal 1540 al 1546 il G. ampliò la gamma dell'attività sul modello di Giulio Romano, attivo a Mantova, ma pure in relazione con il viceré, al quale inviò disegni per l'argenteria e per alcuni arazzi. Accanto all'opera di pittore, di cui sono documentati nella corrispondenza i ritratti dei figli del Gonzaga e i cartoni per qualche affresco, o a incarichi particolari come l'esecuzione di copie dai busti antichi di Scipione e Annibale per Francesco I re di Francia (1545), trovava sempre più spazio l'attività di architetto, secondo le richieste della committenza e di certo fonte più redditizia, così da procurarsi "buonissime facultadi" (Miniati). Nella varietà degli impieghi s'inseriva il ruolo di disegnatore di vedute urbane o di sistemi difensivi anche al di fuori dell'isola, come per le fortificazioni del Maghreb (Bugia, Tripoli), con tutta probabilità senza recarsi sui luoghi. In questo specifico ambito il suo ruolo era solo tangente rispetto all'apparato di ingegneri militari e capimastri preposto alla sicurezza militare della Sicilia e delle piazzeforti sulle coste dell'Africa, stipendiato direttamente dalla Camera cesarea, dove spiccava il bergamasco Antonio Ferramolino nelle mansioni di progettazione e sovrintendenza.
La chiamata del G. da parte del Gonzaga rientrava in un'interpretazione peculiare dello status del viceré al di là delle funzioni politiche e sfociava in un'esaltazione autocelebrativa, imperniata su una degna cornice cortigiana. In questo senso gli sono affidati i due principali progetti residenziali, entrambi a Palermo: l'ammodernamento e l'ampliamento della sede vicereale nel castello a mare per lavori cospicui, ma imprecisabili a causa della demolizione dell'edificio, assolvevano a nuovi criteri di rappresentatività pubblica; l'edificazione, forse trasformando una costruzione preesistente, di una villa suburbana (corredata dei tipici elementi ambientali di giardini, conigliera, fontane e peschiera), di cui non rimane la benché minima traccia, corrispondeva alle esigenze di riposo e di svago del viceré e della sua famiglia.
Nel 1546 il Gonzaga venne nominato governatore dello Stato di Milano; e il G. seguì il suo protettore. Nell'ambiziosa rincorsa di uno status principesco Milano segnò il culmine della sua carriera politica; e per il G. rappresentò il capitolo fondamentale della sua ascesa artistica. Sulla falsariga dello schema di operosità sperimentato in Sicilia egli compresse ancor di più l'attività pittorica, oramai sussidiaria alle imprese architettoniche. Il suo ruolo peculiare, anche rispetto al contesto artistico milanese, emerse nella regia artistica svolta in occasione dell'entrata a Milano del figlio di Carlo V, il principe Filippo, alla fine del 1548: non solo si occupò degli addobbi decorativi e della preparazione degli archi trionfali, ma pure curò gli apparati effimeri predisposti per tornei e feste e soprattutto la scenografia di una delle due commedie allestite per l'ospite regale (L'interesse di Nicolò Secco). In connessione con l'entrata si collocano gli interventi radicali, oggi irriconoscibili per le trasformazioni successive, agli appartamenti del palazzo ducale secondo un programma di ampliamento e abbellimento della residenza governatoriale e di una parte degli uffici, di costruzione ex novo dello scalone e di riconfigurazione architettonica della "sala grande".
Il governo del Gonzaga coincise pure con una vasta opera di renovatio urbana, imperniata sulla realizzazione della nuova cinta urbana e sulla riqualificazione di alcuni spazi cittadini. Mentre per la prima si rifece all'apparato di ingegneri e tecnici della Camera, per la seconda si avvalse del suo architetto, coadiuvato dal capitano di giustizia, Nicolò Secco. Fu soprattutto interessata l'area centrale del duomo, con il proposito di creare uno spazio decoroso antistante attraverso l'eliminazione di botteghe e di altre strutture lignee, il parziale ridisegno dei confini della piazza, l'ornamentazione pittorica delle facciate e la rettifica di alcune vie. Ma pure si ramificò lungo alcuni corsi cittadini allo scopo di migliorare la viabilità fino a comprendere i borghi intra moenia nel tentativo di una loro riqualificazione urbana (allineamenti viari e pavimentazione delle strade).
Tuttavia, l'opera più significativa del G. rimane La Gonzaga (l'attuale Simonetta nei pressi del cimitero Monumentale), documentata nella fitta corrispondenza tra architetto e governatore.
Sorse quale prestigiosa residenza suburbana del governatore inglobando una più modesta villa sforzesca, acquistata nel 1547 dai Cicogna. Il progetto giuntino è impostato su un'originale pianta a "U", formata da un blocco centrale parallelepipedo, dominato da un'imponente facciata a tre ordini sovrapposti, probabilmente memore di prototipi dell'antichità romana (Septizonium) e di esempi rinascimentali (logge vaticane), e articolata in due ali terrazzate protese verso le peschiere e il vasto giardino. La grandiosa residenza, che suscitò l'ammirazione dei contemporanei per l'architettura "altiera et magnifica" (Giovio, p. 46), è in realtà un risultato di compromesso tra vincoli della preesistenza, materiali di recupero e parti di nuova costruzione: si rivela il tentativo singolare di un abile mascheramento dell'eterogeneità costruttiva attraverso la ripetizione seriale di portici e loggiati e il largo impiego dell'architectura picta. Nell'integrazione delle decorazioni pittoriche e scultoree, affidate ad altri per l'esecuzione, è esaltata la funzione di vero e proprio regista del G., indice della radice pittorica e scenografica della sua cultura artistica. La Gonzaga ebbe pure uno strascico giudiziario, rientrando tra i capi d'accusa mossi al governatore al momento della sua rimozione dallo Stato di Milano e del processo intentatogli a Bruxelles; e se la vicenda, per quanto strumentale o capziosa, poneva la questione dei confini istituzionali dell'autorità governatoriale, pure coinvolgeva le aspirazioni del Gonzaga a una rappresentazione principesca del proprio ruolo politico. Ma nei secoli la residenza, decaduta a villa nobiliare dei Simonetta, legò il suo nome allo straordinario effetto d'eco che i visitatori vi potevano sperimentare (Kircher; Encyclopédie).
Altri due importanti edifici milanesi, le chiese di S. Paolo alle Monache (1549-51) e di S. Angelo, sono di solito legati al G., almeno stando alle attribuzioni di Baroni (1938) e Mezzanotte.
Benché tipologicamente connesse, entrambe concepite a navata unica con volta a botte e cappelle laterali, non presentano caratteri stilistici coincidenti: da questo punto di vista manca soprattutto un vero termine di paragone per riconoscervi un'autografia giuntina, non costituendolo - per i suoi tratti del tutto peculiari - La Gonzaga. Se nel caso di S. Paolo il legame sul piano documentario appare suffragato soltanto dallo stretto rapporto tra il governatore e Ludovica Torelli, fondatrice dell'Ordine delle angeliche e del complesso monastico, ben più stringente si rivela nel caso di S. Angelo, per il quale sono attestati tanto la partecipazione del G. come architetto della fabbrica quanto il diretto coinvolgimento del Gonzaga nella rifondazione della chiesa, dopo l'abbattimento dell'importante edificio per far spazio alle nuove mura bastionate. La chiesa sorse a partire dalla posa della prima pietra, 21 febbr. 1552, e venne consacrata il 23 maggio 1555; ma i lavori si trascinarono ben oltre, per cui rimane aperto il problema dell'aderenza della costruzione, soprattutto nella configurazione degli alzati interni, all'originario progetto giuntino, visto che l'architetto lasciò Milano nel corso del 1555.
Per il G. gli ultimi due anni milanesi non furono privi di difficoltà per la posizione politica sempre più precaria del Gonzaga, esautorato dalla carica di governatore nel marzo 1554. Significativamente, solo in questo frangente venne impiegato in un lavoro più costante di sovrintendenza del cantiere fortificatorio, mentre gli impegni per La Gonzaga andavano diradandosi.
Per altre opere si è avanzato il nome del G. in modi più o meno plausibili: se per il palazzo Cicogna, costruito proprio in quel torno d'anni, il nesso è quanto mai generico, limitato alla labile traccia del rapporto tra committente e governatore (Mezzanotte), più fondata è l'ipotesi di una sua consultazione per il terzo ordine della loggia di Brescia (Arslan). L'edificio che più di ogni altro gli può essere riferito con certezza fu La Senavra, la villa suburbana milanese che la moglie del governatore, Isabella di Capua, incamerò dopo la confisca ai danni del precedente proprietario G.A. Prato e che doveva rappresentare il pendant muliebre, in forma ridotta, della Gonzaga. Tuttavia, la scarsità di dati non permette di precisare né la configurazione architettonica dell'edificio né la campagna di lavori promossi da Isabella.
Nel complesso l'attività del G. s'inserisce nel clima di ripresa e di rinnovato fervore edilizio, pure incoraggiato dal Gonzaga, della Milano di metà Cinquecento, ritagliandosi però una posizione abbastanza singolare, privilegiata per la protezione goduta e, nello stesso tempo, avulsa dalla più consolidata tradizione locale. Benché il G. sia stato considerato "l'architetto più ricco di immaginazione di Milano prima dell'arrivo di Alessi" (Ackerman), gli aspetti d'innovazione linguistica non ebbero che una debole eco, non paragonabile all'influenza esercitata pochissimi anni dopo dall'architetto perugino. Insomma, più che per una supposta refrattarietà della cultura lombarda, il G. si rivelò per la stessa peculiarità di "architetto del governatore" una fugace meteora sulla scena artistica milanese: tramontata la stella politica del Gonzaga, si dissolsero lo spazio e le occasioni della sua operosità.
Gli ultimi anni di attività del G. furono contrassegnati da incertezze e da una maggiore dispersione di lavori e progetti. Non è improbabile che cercasse incarichi altrove e tentasse di entrare al servizio del duca Cosimo I de' Medici (Miniati; Guasti); ma alla fine non gli restò che proseguire alle dipendenze di Ferrante e, dopo la sua morte (1557), della moglie Isabella e del figlio Cesare. I cantieri che prima poté seguire soltanto sporadicamente divennero il centro della sua attività architettonica: il palazzo quattrocentesco di famiglia a Mantova, la residenza di Pietole e la notevole dimora di campagna, La Motteggiana - ora La Ghirardina - sulle rive del Po nei pressi di Borgoforte, tutti edifici che vennero investiti da consistenti lavori di trasformazione, di ristrutturazione delle parti murarie e di nobilitazione dei giardini. Compì ancora due viaggi nell'Italia meridionale (1557 e 1559) per i sopralluoghi alle fortificazioni di Nola e Molfetta e per un nuovo progetto per il palazzo di Isabella di Capua a Chiaia.
Soprattutto il G. si occupò con maggiore continuità della nuova città di Guastalla, feudo acquistato da Ferrante nel 1539; mentre molto dubbio, comunque non documentato convincentemente, appare un suo eventuale coinvolgimento nella prima fase di progettazione della vicina Sabbioneta di Vespasiano Gonzaga (Forster; Carpeggiani; Soldini). Da un primo stadio volto a definire la difesa militare di Guastalla con un perimetro fortificato pentagonale, la cui concezione fu però affidata a ingegneri militari, si passò all'elaborazione di un piano generale per le cure del G., che prefigurò uno spazio urbano partito regolarmente da una maglia viaria strutturata ortogonalmente e caratterizzato da una chiara divisione funzionale. La pianta autografa, stesa nel 1553 e accompagnata da una relazione, costituisce un documento assai importante, non solo quale raro esempio cinquecentesco di vero e proprio progetto a scala urbana, ma anche quale riflesso di una rigida gerarchia sociale. Con Cesare Gonzaga il disegno cominciò a realizzarsi sotto la direzione del G., ma ancora in forma del tutto embrionale per poi subire profonde alterazioni.
Infatti, a Guastalla l'architetto morì il 28 ott. 1560, qualche giorno dopo aver legato nel testamento la notevole somma di 9000 scudi a favore della fondazione della Sapienza, allo scopo di mantenere agli studi sette giovani pratesi: il gesto munifico venne prontamente commemorato con il trasporto in patria di un suo ritratto (Prato, sala del Consiglio del palazzo comunale), dipinto dal pittore mantovano Fermo Ghisoni prima della morte e da collocare - per sua espressa volontà testamentaria - nella sala "in qua alias imagines seu effigies benefactorum dicti oppidi positae sunt" (Guasti, p. 50 n. 2).
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