GAGGINI (Gagini), Domenico
Figlio di Pietro, nacque a Bissone, in Canton Ticino, nel terzo decennio del XV secolo. È molto probabile che il padre appartenesse a un ramo della famiglia di scultori e marmorari originari di quella zona e attivi a Genova dal XV secolo.
Il G. viene comunemente identificato con il "Domenico dal lago di Logano" citato nel Trattato di architettura (1461-64, p. 172) di A. Averlino, detto il Filarete, tra gli artisti impegnati nella costruzione e decorazione di Sforzinda, e definito "discepolo di Pippo di ser Brunellescho".
Il Vasari, nell'edizione del 1568 delle Vite, citando erroneamente il Trattato, affiancò al G. nell'alunnato presso F. Brunelleschi anche un "Geremia da Cremona" e uno "schiavone", identificato dal Rolfs (1907) con F. Laurana. Secondo il Kruft (1972, p. 13) da questo iniziale errore sarebbe discesa poi la notizia priva di fondamento secondo cui il Laurana e il G. furono attivi insieme nel 1448 nel duomo di Genova. Il supposto apprendistato presso il Brunelleschi a Firenze non è definibile in termini esatti in mancanza di fonti documentarie; non si sa dunque se il G. lavorò con il maestro ai cantieri di S. Lorenzo e della cappella dei Pazzi (Valentiner, 1940, p. 86) o se non gli fu accanto già prima del 1440 (Kruft, 1972, p. 13).
Il primo incarico documentato del G. è la costruzione e la decorazione della cappella di S. Giovanni Battista nel duomo di Genova, commissionatagli dalla Confraternita del Battista (Alizeri, 1876).
Dal contratto di allocazione il G., definito "magister intaliator marmororum", risulta l'ideatore del primo progetto nell'esecuzione del quale fu affiancato da Giovanni Gaggini come si evince da un lettera del 6 maggio del doge Giano di Fregoso, nella quale i due risultano impegnati a reperire i marmi (Salvi, 1932). I lavori durarono probabilmente dall'estate del 1448 all'inverno 1456-57; e il progetto originario, che plausibilmente prevedeva la costruzione di un baldacchino a parete nelle vicinanze dell'altare maggiore, venne accantonato per una più opportuna collocazione della cappella nella navata sinistra, dove oggi si trova (Kruft, 1971). Nella seconda fase dell'opera il G. si avvalse della collaborazione del nipote, Elia Gaggini (Cervetto, 1903, p. 247, doc. III).
La facciata della cappella ricorderebbe la cappella dei Pazzi del Brunelleschi, ma la semplicità delle linee fiorentine viene qui arricchita dalla fastosa decorazione che deriva dall'origine lombarda dell'artista. La conferma della grande personalità del G. è data proprio dalla sua capacità di definire una poetica originale attraverso l'elaborazione delle due sue scuole di provenienza (Bernini, 1980, p. 61).
Presso l'Archivio di Stato di Genova si conservano due documenti, del 1455 e del 1457, che attestano altre attività del G. nella città ligure: un contratto per la realizzazione di una "troyna" con colonne tortili a S. Girolamo del Roso; un pagamento a saldo di un'opera, costata 150 libre genovesi, che si è pensato potesse essere la cappella di S. Giovanni Battista in duomo, sebbene non esistano prove in tal senso (Alizeri, 1877; Cervetto, 1903, pp. 246 s., docc. II s.).
Lasciata Genova, il G. si spostò verso il Sud della penisola. I suoi rapporti con la Repubblica, tuttavia, non si interruppero completamente e il nipote Elia divenne suo procuratore in territorio ligure. In un documento, perduto, del 31 genn. 1458 dell'Archivio di Stato di Napoli pubblicato dal Fabriczy (1899, p. 149), il G. figura tra gli scultori impegnati nella costruzione dell'arco di Castelnuovo, insieme con Isaia da Pisa, Antonio di Chelino, Paolo da Milano, Francesco Laurana e Paolo Romano. Tramite con la corte aragonese fu forse l'umanista e cancelliere della Repubblica di Genova Giacomo Bracelli, che era in stretti rapporti con Alfonso V d'Aragona e che era stato uno dei fautori del progetto di spostamento della cappella di S. Giovanni Battista dall'abside alla navata sinistra del duomo genovese (Kruft, 1972, p. 15).
Secondo altri studiosi il G. non si recò a Napoli per lavorare all'arco; ma vi fu chiamato, sempre per il tramite del Bracelli, per eseguire interventi di minore importanza, tra i quali il perduto, ma documentato, portale della sala dei Baroni di Castelnuovo, che presentava caratteristiche tipiche della scultura quattrocentesca genovese tali da consentire l'attribuzione al G. (Burger, 1907; Kruft, 1972, p. 20, che vi scorge due differenti progetti: quello riconducibile al G. riguardante strettamente il portale e la soprapporta, ma non l'architrave e il timpano). L'ipotesi di un arrivo antecedente all'inizio dei lavori per l'arco di Castelnuovo, può essere avvalorata dalla presenza di stilemi riferibili alla cultura genovese quattrocentesca - ma anche a influenze composite, che spaziano dal tardogotico lombardo alle forme protorinascimentali fiorentine - in alcune opere napoletane minori: una nicchia nella ex sacrestia della cappella di S. Barbara a Castelnuovo e una Madonna conservata a Capodimonte, quasi certamente della medesima provenienza, che una parte della critica attribuisce al G. attraverso l'osservazione di elementi brunelleschiani e donatelliani nell'assetto architettonico e di confronti stilistici con la Madonna di Torcello (Burger, 1907; Accascina, 1970; Kruft, 1972).
La parte avuta dal G. nella realizzazione della grandiosa opera di Castelnuovo è riconosciuta quasi unanimemente dalla critica nella sola Temperanza, tra le figure che compongono il gruppo delle Virtù, e forse nel gruppo di trombettieri presente nel fregio. Certo è che l'attività del G. a Castelnuovo fu assai breve, tra la fine del 1457 e il giugno del 1458, anno di morte di Alfonso V.
La diaspora degli scultori attivi nell'impresa napoletana condusse il G. a Palermo. Il primo lavoro, nel quale si cimentò nella città siciliana, fu il restauro di alcuni mosaici della cappella Palatina, che eseguì, come le iscrizioni ricordano, nel 1460 e nel 1462, ricevendo ancora pagamenti nel 1472 (Garofalo; Di Marzo, 1883, p. 79). Si deve certamente al suo intervento (Meli, 1959, pp. 245-247) la presenza della cupola brunelleschiana di S. Maria del Fiore nel mosaico rappresentante la Resurrezione di Tabita.
Nel 1463 (Di Marzo, 1883, pp. 19-21, doc. XVI) Pietro Speciale, signore di Alcamo e Calatafimi e maestro razionale del Regno di Sicilia, affidò al G. la costruzione di un monumento sepolcrale nella cappella di famiglia, situata nella tribuna maggiore della chiesa di S. Francesco d'Assisi a Palermo. Il contratto prevedeva la realizzazione di due busti, del committente e del figlio Nicolò Antonio, prematuramente scomparso, e un sarcofago, con un coperchio di un solo pezzo recante la figura di quest'ultimo, sul quale doveva insistere un arco marmoreo. Il prezzo pattuito era di 100 once d'oro, da versare in più rate; il G. aveva un anno di tempo per realizzare l'opera e a lui spettavano la scelta e l'acquisto dei marmi, da effettuare a Pisa. Del Monumento Speciale, già disperso alla fine del Cinquecento a causa di nuovi lavori nella tribuna della chiesa, sopravvive oggi la parte superiore del sarcofago con la figura giacente di Nicolò Antonio, ritrovata nel 1948 e collocata in fondo alla navata sinistra della chiesa, verso il coro. Lo scultore lombardo dimostra con questa opera di avere raggiunto alta consapevolezza e perizia nell'arte del modellare, e soprattutto di essere il vero artefice del grande passaggio della scultura siciliana dal tardogotico al Rinascimento. In effetti, il G. rivoluzionò il concetto di monumento funebre in Sicilia guardando al classicismo fiorentino di Donatello e Michelozzo e attingendo anche al modello di sepolcro monumentale di B. Rossellino, nel quale, secondo i precetti di L.B. Alberti, convergono architettura e scultura in una voluta sintesi delle arti.
Non tutta la critica riconosce nel giovane giacente la mano del Gaggini. Dopo il 1952 (Rotolo) seguì un lungo e ancora irrisolto conflitto attributivo che ha visto, tra gli altri, Bottari (1960) e Patera (1975; 1992) assegnare il Sarcofago Speciale a F. Laurana, attivo nel 1468 in S. Francesco d'Assisi nella cappella Mastrantonio: in particolare, essendo il sarcofago citato in una fonte cinquecentesca come opera datata al 1468, il Patera ne evince che non può trattarsi dello stesso lavoro commissionato nel 1463, ritenendo il documento di allocazione al G. una semplice bozza di un contratto mai rispettato.
Poiché sono poche le opere riconducibili con certezza alla trentennale permanenza del G. nell'isola, la critica si è dovuta spesso cimentare nella difficoltosa ricostruzione del catalogo siciliano dello scultore lombardo, lavorando in un terreno disseminato di tracce scultoree varie e non omogenee. Una delle tesi avanzate dalla critica, ad esempio dal Kruft e dal Patera, vede il lavoro svolto in Sicilia dall'artista come il frutto di una personalità ormai stanca e svuotata, che avrebbe delegato a una bottega organizzata in modo imprenditoriale le numerose commesse. Meli (1958; 1959), Negri Arnoldi (1974) e Bernini (1992) sottolineano, invece, l'alto valore della presenza del G. in Sicilia in coincidenza con il recepimento da parte della cultura locale di una concezione moderna dell'arte, di cui proprio lo scultore lombardo fu uno degli interpreti maggiormente innovativi. F. Laurana viene sempre visto dalla critica tradizionale come eterno rivale del G. e viene ritenuto l'importatore di modi essi sì attuali e validi. Certo il Laurana lasciò nel suo rapido passaggio opere elaborate nel suo personale linguaggio; ma esse nulla tolgono a un "collega" con il quale vi furono evidentemente dei rapporti di reciproca stima. Il tramite tra i due potrebbe essere stato Pietro de Bonitate, già attivo in Sicilia prima dell'arrivo del Laurana, e quindi suo conoscente.
Il Sepolcro Speciale, emblema di una scultura improntata al classicismo ma attualizzata nella "indisciplina piena di fervore e di slancio" (Accascina, 1970), così diverso dal rigore e dall'equilibrio plastici del Laurana, assurge a modello dell'arte gagginiana matura dove certi aspetti anticlassici testimoniano una rimeditazione dell'arte donatelliana (Negri Arnoldi, 1974, p. 20).
Da identificarsi probabilmente con quello del committente previsto dal progetto del Monumento Speciale, è il busto, già a palazzo Speciale e conservato oggi in palazzo Mirto, sempre a Palermo; ma l'iscrizione che lo accompagnava in palazzo Speciale, dove fu collocato forse perché mai inserito nel contesto originario, lo data al 1469. Il secondo dei due busti di cui parla il contratto del 1463, quello di Nicolò Antonio Speciale, viene solitamente identificato con il Busto di giovinetto della Galleria regionale della Sicilia a Palermo.
Mentre per il Busto di Pietro Speciale l'alta qualità dell'opera e la data dell'iscrizione fanno propendere ancora parte della critica per una attribuzione al Laurana (D'Elia, 1959; Patera, 1975, 1984, 1992), quello del Giovinetto dalla stessa critica è assegnato dubitativamente alla bottega lauranesca perché giudicato meno espressivo rispetto al primo, forse non finito. Il Busto di Pietro Speciale, tuttavia, nell'espressivo realismo della rappresentazione, non ricalca che in piccola parte i busti-ritratto lauraneschi, pur essendo indubbiamente influenzato da quella cultura.
Sempre nel 1463 il G. fu impegnato anche fuori Palermo. Il 1° dicembre Riccardo di Lanzirotto, procuratore della chiesa madre di Salemi, gli affidò l'incarico di scolpire il Fonte battesimale (Di Marzo, 1883, p. 21, doc. XVII); l'opera, datata 1464 e conservata nel Museo civico di Salemi in seguito al crollo della chiesa nel terremoto del 1968, viene generalmente considerata lavoro di bottega. Nello stesso Museo civico, ma in origine proveniente dalla chiesa di S. Giuliano, si trova una statua di S. Giuliano, attribuita quasi concordemente al G. - l'Accascina (1959) l'assegna invece a Gabriele di Battista - anche in ragione della vicinanza stilistica con il Sepolcro Speciale, nella consapevole aderenza agli stilemi donatelliani (Kruft, 1972; Negri Arnoldi, 1974).
Ulteriori testimonianze archivistiche mostrano il G. in contatto con Pietro Speciale ancora nel 1468: il 27 maggio firmò come testimone l'atto riguardante l'edificazione della torre di Ficarazzi, possedimento del signore di Alcamo. Nello stesso anno dovette anche sottoscrivere un ulteriore contratto per successivi lavori nella cappella di famiglia in S. Francesco d'Assisi (circostanza che interessa anche le vicende del Sepolcro), come si evince dalla formale protesta inoltrata dallo Speciale nel 1470 (Meli, 1959, pp. 262 s., doc. 73). In essa il committente lamentava la cattiva qualità dei marmi usati per scolpire "certas ystorias" nella cappella di famiglia, e ingiungeva al G. la distruzione e il rifacimento dei due rilievi utilizzando a sue spese materiale migliore e scolpendoli "de bonu relevu". Il dissenso tra artista e committente, come ha notato il Negri Arnoldi (1974, pp. 22 s.), riguardava, oltre al colore e all'eventuale presenza di stonate venature o macchie del marmo, anche lo scarso aggetto del rilievo. Evidentemente il G. eseguiva anche rilievi che presupponevano il continuo riferimento all'ambiente toscano, con il quale egli, proprio in virtù dei continui viaggi per il reperimento dei marmi necessari alle sue opere, continuava ad essere in contatto.
Lavori che contengono rielaborazioni e riferimenti all'arte toscana, in special modo al donatellismo fiorentino, secondo il Negri Arnoldi (1974) sono i due rilievi in S. Francesco d'Assisi, una Madonna con Bambino e angeli adoranti e un S. Antonio Abate (per Gulisano, 1981-82, di Pietro de Bonitate), e una Madonna a Castellammare del Golfo.
Nello stesso periodo in cui il G. riprese a lavorare per gli Speciale in S. Francesco d'Assisi, il Laurana e Pietro de Bonitate erano impegnati nella cappella Mastrantonio, nella medesima chiesa, ed è facile ipotizzare uno scambio di vedute e di consigli tra i tre maestri. Sempre del 1468 circa sono l'Angelo (già in S. Maria di Portosalvo) e la Vergine che compongono l'Annunciazione del Museo diocesano di Palermo, opera giudicata espressiva ancora di quella cultura composita dove si fondono le componenti toscane, rosselliniana e donatelliana (Negri Arnoldi, 1974, pp. 21 s.).
L'8 maggio del 1470 il G. incaricò il capomastro Francesco de Aurilia di iniziare la costruzione della cappella di S. Cristina in cattedrale (Meli, 1959, p. 261) a proposito della quale il G. viene chiamato in causa in un documento del 1475 (Di Marzo, 1883, pp. 21-23, doc. XVIII), nel quale tuttavia non vengono descritte le decorazioni realizzate. L'attività del G. nella cappella di S. Cristina, la cui fondazione secondo il Ranzano (1471) spetterebbe a Pietro Speciale, dovette durare diversi anni ed essere affidata in gran parte alla bottega del maestro se del 1478 è un pagamento all'artista per quei lavori e se nel 1484 Giorgio da Milano aveva lasciato incomplete le opere di muratura che il G. gli aveva affidato (Di Marzo, 1883, pp. 14 s., doc. XI bis). Dei lavori nella cappella di S. Cristina, successivamente proseguiti da Gabriele di Battista, nessuna delle opere rimaste suggerisce l'intervento diretto del Gaggini.
Certamente di sua mano è l'Arca di s. Gandolfo, commissionatagli nel 1482 per la chiesa madre di Polizzi Generosa (Giudice, 1839). La custodia - originariamente composta dal sarcofago con la figura giacente del beato e con scene tratte dalla sua vita, oltre che da una predella con la Madonna della Pietàe gliapostoli - era destinata ad accogliere i resti del beato Gandolfo da Binasco, predicatore francescano morto nel 1260 nella cittadina madonita. Dell'Arca, in seguito smembrata, restano oggi alcune parti che mostrano caratteristiche formali e tecnica ancora vicine al donatellismo (Negri Arnoldi, 1974, p. 22), recando evidenti riferimenti stilistici, soprattutto nella figura del beato, al rilievo con S. Antonio Abate in S. Francesco d'Assisi, ma anche all'immagine del giovane giacente nel Sepolcro Speciale.
Altri monumenti sepolcrali ritenuti di mano del G. sono il Monumento di Antonio Grignano nella chiesa del Carmine di Marsala (1475) e il Monumento del vescovo Giovanni Montaperto nel duomo di Mazara del Vallo (1485), che attesterebbero il permanere di una creatività artistica di eccezionale qualità, anche in un periodo tardo dell'attività siciliana dello scultore.
Nel 1484 il G. e un suo socio, forse Gabriele di Battista, ricevettero un pagamento di 45 once per l'esecuzione di capitelli e colonne per la chiesa della Confraternita palermitana dell'Annunziata (Di Marzo - Mauceri, 1903, p. 151 n. 1). I capitelli superstiti della distrutta chiesa, oggi conservati a Palermo nella Galleria regionale della Sicilia, mostrano un ossequio, raro nel G., verso i modelli antichi; inoltre, essi implicano un progetto unitario, pur presentando diversità nella realizzazione: il capitello con l'Annunziata e quelli con due Sibille possono essere considerati, secondo il Negri Arnoldi (1974), di mano del G., mentre gli altri sono da assegnare al socio. Alla collaborazione del G. con Gabriele di Battista è stato ricondotto il Panormus del palazzo senatorio di Palermo, parte di un monumento dedicato al genio della città (Kruft, 1972).
Nel Privilegium pro marmorariis et fabricatoribus (Di Marzo, 1883, pp. 4-6, doc. IV) del 1487 - attraverso il quale la maestranza degli scultori e architetti stabiliva, tra l'altro, alcune regole per regolarizzare l'attività dei numerosi artisti forestieri che lavoravano a Palermo - il G. è il primo dell'elenco dei maestri "marmorari", dimostrando così la sua posizione egemonica nel panorama degli scultori attivi in città: Pietro de Bonitate e Gabriele di Battista sono menzionati al secondo e al terzo posto.
Negli ultimi anni, per far fronte al sempre maggior numero di commissioni, il G. si fece affiancare nell'esecuzione dei lavori più impegnativi dal figlio maggiore Giovanni - detto Giovannello, avuto dalla sua prima moglie, Soprana de' Savignone (Di Marzo, 1880, pp. 95 s. nota 2) - e da A. Mancino. Con quest'ultimo, nel 1491 si impegnò a eseguire una statua della Madonna di Loreto per la cappella Barbaro in S. Francesco a Marsala. L'opera, lavorata a Palermo e forse non ancora ultimata alla morte dello scultore, fu in seguito trasportata e inserita nella cappella; i ritocchi di colore azzurro e oro (comuni alla maggior parte delle statue di Madonne in Sicilia, in questo periodo e per tutto il Cinquecento) furono eseguiti dal figlio Giovanni, come si evince da una postilla al documento di commissione.
Delle numerose Madonne attribuite al G., per molte delle quali è difficile ipotizzare anche solo una provenienza di bottega, quelle del Soccorso in S. Francesco a Palermo e nella cattedrale di Mazara, unitamente a quella del duomo di Siracusa e alla Madonna del Latte nella Galleria regionale della Sicilia a Palermo, sono tra i migliori esempi di un genere che affidava all'estro e alla libera interpretazione dell'autore soltanto i rilievi posti sulla base, essendo il modello della Vergine fisso e ricorrente. Ancora opere attribuibili al G. sono, a Palermo, la Pietà in S. Domenico e il Portale Bonnet di S. Maria di Gesù (Negri Arnoldi, 1974), oltre alla Madonna della chiesa di S. Francesco ad Agrigento.
Il G. fece testamento nell'agosto del 1492 nominando suoi eredi universali i figli, il già citato Giovanni e Antonello, che aveva aveva avuto da Caterina sposata in seconde nozze. Morì a Palermo il 29 o il 30 sett. 1492, e fu sepolto nella cappella dei Ss. Quattro Coronati in S. Francesco d'Assisi.
Giovanni nacque a Palermo tra il 1469 e il 1470. Fu collaboratore del G. e, a differenza del fratello Antonello, non sembra sia riuscito ad affrancarsi dalla bottega paterna mettendo in piedi un'attività autonoma, anche perché uscì molto presto di scena; e dopo il 1491, anno dei documentati interventi sulla Madonna di Marsala, non si hanno più sue notizie. I rapporti con il G. non dovettero essere dei migliori, se è vero che il giovane fece testamento a favore del convento di S. Domenico (Di Marzo, 1880, p. 96) nel 1489, e nominò eredi gli zii materni, originari di Carini, quando dettò le sue ultime volontà nel 1490. A Carini, dove Giovanni aveva uno zio arciprete, si trovano alcune opere a lui attribuite: un rilievo raffigurante la Madonna con il Bambino nella chiesa madre del paese (Accascina, 1959, p. 303; Negri Arnoldi, 1974, p. 22), forse eseguito in collaborazione con il G., e dei Putti reggistemma su un portale del castello. L'unica opera di Giovanni documentata è il Sepolcro di Gaspare de Marinis, realizzato in collaborazione con il Mancino (Di Marzo - Mauceri, 1903, p. 157 n.2): per l'Accascina, il G. eseguì solo la decorazione frontale, ovvero i putti che sorreggono l'iscrizione, mentre il coperchio con la figura del defunto giacente e l'arco con le figure della Madonna, S. Girolamo e S. Gerlando, apparterrebbero all'altro scultore. Il G. sarebbe uno degli esecutori della Custodia marmorea di Collesano, insieme con il padre, con Giorgio da Milano e con il Mancino; a lui si dovrebbero, sempre in collaborazione con il Mancino, il portale della chiesa di S. Maria della Porta a Geraci Siculo e la lunetta di quello della chiesa di Mistretta, come anche i due Angeli reggistemma sul portale laterale della chiesa di S. Francesco d'Assisi a Palermo e le testine di cherubini accanto alla Vergine nella cappella Alliata (Accascina, 1959).
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