FERRI, Domenico
Nacque a Selva Malvezzi (ora frazione di Molinella, in provincia di Bologna) il 16 apr. 1795da Giovanni e Giovanna Gulini. Capostipite di una famiglia di scenografi e pittori, frequentò l'Accademia di belle arti di Bologna, formandosi alla scuola di F. Cocchi e di A. Basoli, dai quali apprese i fondamenti teorici di una solida preparazione accademica.
Iniziò la carriera di scenografo come collaboratore di Antonio Conti ai teatri S. Samuele e S. Luca di Venezia nel 1818-19; mentre al teatro Comunale di Lugo e al Contavalli di Bologna lavorò nel biennio 1819-20. Dal 1821 al 1829 fornì scenografie per il teatro Comunale di Bologna, con occasionali collaborazioni in teatri di altre città italiane, come Ferrara (Comunale, 1823), Modena (Comunale, 1824 e 1827),Roma (Apollo, 1826-27),Ancona (teatro delle Muse, 1828), Senigallia (Comunale, sempre nel 1828), Padova (Nuovo, 1829).
Di questi anni si ricordano gli allestimenti eseguiti per le prime rappresentazioni di opere quali Maria Stuarda (1821) e Donna Caritea (1827) di S. Mercadante, GiulioSabino di V. Trento (1824), Il torneo di G. Bagioli (1827) e le scenografie dell'Annibale in Bitinia di G. Nicolini ideate per il teatro Apollo di Roma.
Divenuto amico di G. Rossini, preparò le scene di alcune sue opere, come la Cenerentola (1820), la Donna del lago (1822),la Semiramide (1826) e, grazie all'amicizia con il musicista pesarese, ottenne nel 1828 l'incarico di "peintre décorateur" al théâtre Royal Italien di Parigi, allestendo spettacoli che riscossero uno strepitoso successo di pubblico e di critica, sì da ricevere successivi incarichi all'Opéra (Mancini, 19875 p. 123).
La permanenza nella capitale francese, ove si era rifugiato per le sue idee politiche, si protrasse fino al 1851 circa, interrotta solo da occasionali incarichi in alcuni teatri italiani. Il 19 apr. 1834 fu l'autore di una memorabile edizione della Sonnambula di V. Bellini al teatro Comunale di Bologna che suscitò l'entusiasmo dei cronisti contemporanei (Museo teatrale alla Scala, C.A. 5247/3: Cronaca teatr. manoscritta, p. 40). Nello stesso anno per il teatro S. Carlo di Napoli allestì l'opera Don Giovanni Tenorio di W. A. Mozart (nella quale introdusse l'uso innovativo di vetri colorati al posto dell'ormesino per ottenere determinati effetti di luce) e nel 1835realizzò le scene della Lara di E. De Ruolz.
Nonostante l'entusiasmo ed il favore suscitati nel pubblico, interruppe la collaborazione con il teatro napoletano che, entrato in un periodo di crisi organizzativa e finanziaria, era probabilmente poco propenso ad accogliere le richieste di innovazioni scenotecniche suggerite dal Ferri.
Nel 1840 il F. tornava nella capitale borbonica chiamato dal nuovo ed intraprendente impresario del S. Carlo, E. Guillaume, che stipulava con lui un contratto della durata di quattro anni, nel quale era nominato "inventore e direttore della Scenografia ne' due reali teatri di S. Carlo e del Fondo" (Mancini 1987, p. 120,n. 17). In quell'anno lavorò all'esecuzione delle scene per l'Ifigenia d'Asti di T. Genovese, per Le due illustri rivali di Mercadante, per i balli intitolati Marco Visconti e Il duca di Ravenna di S. Tagliani, e curò l'allestimento della cantata Il dono di Partenope. Ma non era ancora trascorso il primo anno di lavoro che improvvisamente il F. abbandonò nuovamente Napoli per recarsi a Bologna, adducendo gravi ragioni di salute.
Oltre alle ragioni politiche che avrebbero indotto il F. ad allontanarsi da Napoli, così come a non proseguire l'attività per i teatri romani (De Angelis, 1938, p. 102; Encicl. dello spettacolo, col. 215; Mancini, 1980, p. 16), di certo sorsero difficoltà e contrasti di natura organizzativa e finanziaria con il sistema imprenditoriale del S. Carlo, incapace in quegli anni di garantire la buona riuscita degli spettacoli, per la mancanza di macchinari e di adeguati apparati scenotecnici e per l'esiguità delle retribuzioni (Mancini, 1987, pp. 111-113).
In mancanza di bozzetti e disegni originali, in gran parte dispersi, l'attività del F. scenografo è documentata dalle incisioni da lui pubblicate in Choix de décorations du théâtre Royal Italien (Paris 1837) - che comprende le scenografie create per il teatro parigino - e dalla Raccolta inedita di 50 scene teatrali le più applaudite ne' teatri italiani (Bologna 1844) di L. Ruggi.
In queste ultime, in particolare, il F. si rivela tra i più sensibili protagonisti di un romanticismo colto e raffinato costantemente esibito sia nella scelta dei temi - interni di regge, sotterranei, castelli, villaggi medievali - sia nella resa formale. Il predominante gusto per le rievocazioni architettoniche in stile, preludio all'eclettismo sovrabbondante e sfarzoso della metà dell'Ottocento, e per gli scorci paesaggistici di una natura quasi incontaminata, è sempre sostenuto da una perfetta padronanza dei mezzi stilistici e prospettici, in parte dovuta alla sua formazione accademica e bolognese, capace di riscattare del tutto gli arbitri architettonici e le incongruenze storiche. Le incisioni che il Ruggi trasse dai suoi bozzetti, Portici vicino alla casa di Virginio, Villaggio, Avanzi di una moschea, Tempio sotterraneo, Piazza, Castello di Coradino, Pianerottolo di un forte, Reggia moresca, Profosso di un castello, Sala da ballo, consentono di cogliere la predilezione per gli effetti notturni ed i contrastati pleniluni ottenuti con un accorto uso pittorico delle luci e delle ombre al fine di accentuare le atmosfere cupe e misteriose degli esterni.
Nei confronti di questo suggestivo ed evanescente mondo lunare, le invenzioni per il théâtre Royal Italien di Parigi, probabilmente condizionate da diverse esigenze di pubblico, registrano un tentativo di mutamento stilistico, nel segno di una più decisa definizione degli apparati architettonici, particolarmente decorati ed inseriti in una più ampia visione prospettica e spaziale. Eseguite al culmine della sua carriera di scenografo, le opere del periodo francese - di cui si citano le scene di "Vestibolo" e di "Accampament" per l'opera Malek Adel, un "Interno di reggia" per la Matilde di Shabran (Soubies, 1913, p.169), l'"Arsenale di Venezia" per il Marin Faliero (Mancini, 1987, p. 113) - si pongono anche al limite estremo di un metodo inventivo che, pur sempre controllato da una buona dose di disciplina formale, è ad un passo dall'ostentazione decorativa e dalla sovrabbondanza degli effetti spettacolari che contraddistinguono le fantasiose evocazioni storiche della produzione di metà Ottocento.
Che le scene del F. difettassero in verisimiglianza e credibilità fu già sottolineato dall'acume critico del contemporaneo T. Gautier, il quale, non senza ironia, paragonò le fittizie ambientazioni dello scenografo all'esotismo a buon mercato dei papiers peints di moda nei rivestimenti delle sale da pranzo dell'epoca. Pur tuttavia lo stesso Gautier riconobbe, in quelle stesse decorazioni di fantasia, l'ottimo livello esecutivo e l'immediatezza inventiva, una dote questa piuttosto rara, secondo il critico francese, negli artisti italiani (Gautier, 1858-59, I, pp. 81, 113; II, p. 299).
Come F. Cocchi, il F. coltivò, accanto alla pratica teatrale, il genere della veduta , la cui produzione meriterebbe di essere più attentamente ricostruita ed esaminata. Nel 1833 una sua composizione dal titolo Una fattoria fu premiata al "concorso curlandese" indetto dall'Accademia di belle arti di Bologna (Ferrari, 1902, p. 232). Al Salon di Parigi del 1836 espose alcuni dipinti raffiguranti paesaggi, di cui con ogni probabilità, fa parte la veduta della Cattedrale di Caen (Bologna, Coll. comunali d'arte; Martinelli Braglia, 1991, fig. 370), eseguita appunto a Parigi in quell'anno e subito donata dall'artista al Comune di Bologna.
L'opera evidenzia il respiro europeo dell'autore che si rivela capace di sintetizzare, in una sua particolare maniera sognante e vaporosa, i presupposti del vedutismo olandese, acquisiti per il tramite di J. Constable, ed il pittoricismo di J. Ruisdaël, con accostamenti cromatici e tonalità degne della tavolozza di J. Turner (Martinelli Braglia, 1991, I, p. 255).
Se il ruolo del F. nella scenografia romantica dell'Ottocento è stato ampiamente riconosciuto ed esaminato dalla critica specialistica già agli inizi del Novecento, la sua attività di ornatista ed architetto presso la corte sabauda solo di recente è stata in parte ricostruita, nell'ambito di una più obiettiva ed ampia rivalutazione del patrimonio artistico ottocentesco e risorgimentale.
Chiamato nel 1851 a Torino da Vittorio Emanuele II, quale insegnante all'Accademia ed ornatista dei regi palazzi, il F. abbandonò la pratica teatrale, riuscendo tuttavia a favorire l'inserimento del figlio Augusto nel teatro Regio di Torino poiché venne nominato, nel biennio 1854-56, fra i consiglieri della Direzione generale dei teatri che sovrintendeva alle scelte organizzative degli spettacoli ed ai contratti con gli artisti (Basso, 1978, p. 290).
Le prime commissioni ufficiali furono, nel 1851-52, la direzione dei lavori di restauro e di decorazione nell'appartamento reale di Moncalieri e, nel 1853, la ristrutturazione dell'appartamento detto di madama Felicita nel palazzo reale di Torino (Rovere, 1858, p. 56).
Il suo arrivo a Torino è il segno di un'inversione di tendenza nel gusto dell'arredamento e nella decorazione degli interni determinata, in parte, dall'avvicinamento politico con la Francia, di cui i sovrani sabaudi vorranno ben presto imitare per moda o, per puro snobismo culturale, l'eclettismo di stili e di modelli decorativi incentrati soprattutto sul revival settecentesco.
A Moncalieri la ripresa di temi decorativi del passato fu attuata dall'équipe del F. e dei suoi figli nel salotto della regina, ove le boiseries riecheggiano le opere settecentesche di B. Alfieri e gli inserti a trompe-l'oeil rimandano ai raffinati affreschi illusionistici della palazzina di Stupinigi, nel salottino degli specchi, ideato a somiglianza degli ambienti esotici del secolo precedente, nella camera da letto della regina e in quella del re, rivestite di ornati in legno intagliato imitanti un pesante stile seicentesco (Colle, 1988, p. 45).
II successo conseguito da tali lavori decretò la nomina del F. a decoratore regio, carica fino ad allora assunta da P. Palagi, le cui realizzazioni, in un rigoroso stile classicheggiante o in un austero neogotico, erano considerate ormai fuori moda.
Nel 1857, in previsione dell'Esposizione torinese del 1858, il F. in collaborazione con G. Tronta presentò un progetto di restauro e di ampliamento del castello del Valentino destinato, nelle intenzioni governative, a divenire stabile sede museale per mostre permanenti di quadri o di altre opere d'arte (Vico, 1858, pp. 62 s.).
Il progetto del Tronta e del F., approvato con legge del 4 luglio 1857, prevedeva a tale scopo la costruzione di due gallerie ricavate dalla copertura di due terrazze laterali, chiusura che avrebbe finito per innalzare di un piano l'altezza stessa dell'edificio. Questo sistema, prescelto in quanto sembrò che non alterasse l'originaria configurazione architettonica del castello, imitato anche nell'ideazione dei partiti decorativi esterni, non fu esente poi da alcune critiche, di carattere tecnico e formale, alla struttura del tetto dei padiglioni, una volta realizzata (Vico, 1858, p. 68).
Il favore accordato al progetto del F. si colloca nell'ambito della polemica, sorta verso la metà del secolo, nei confronti dell'architettura neoclassica considerata ormai antifunzionale e di mera imitazione dell'antico, mentre il tentativo di riprodurre i caratteri stilistici del monumento fu interpretato come consapevole recupero dell'arte rinascimentale italiana, per la critica contemporanea, vera ed unica espressione del patrimonio culturale e nazionale.
Il previsto piano generale di restauro interno si limitò poi a soli tre ambienti, nei quali il F. si valse dell'aiuto del figlio Gaetano e degli allievi di questo. Non si trattò di un lavoro di mero consolidamento o di recupero delle parti originarie, bensì, secondo una consolidata prassi ottocentesca, di aggiunte e rifacimenti ex novo che compresero la sostituzione, nella prima stanza detta sala delle Rose o camera da letto della duchessa Cristina, della tela originaria con l'altra raffigurante La Fama, dipinta da un allievo di Gaetano, e l'ideazione di nuove porte al posto delle precedenti, tutte disegnate e decorate dal F. con la collaborazione dello scultore P. Isella per i fregi e gli intagli.
L'intervento più consistente si ebbe nella sala detta del Valentino, ove il F. operò il restauro delle figure affrescate da Isidoro Bianchi (con un certo rispetto delle pitture originarie), e, sotto la direzione del figlio Gaetano, alcuni allievi dipinsero ex novo sulle pareti otto ritratti di coppie regnanti di casa Savoia.
Il progetto di ingrandimento di palazzo Carignano, destinato in un primo momento a sede del nuovo Parlamento italiano, risulta l'incarico più prestigioso ottenuto dal F. come architetto.
Presentato un primo disegno nel 1860, ritenuto troppo modesto per gli scopi che si proponeva la giunta municipale, il F. elaborò un secondo progetto, affiancato nel frattempo da G. Bollati, ricevendone l'approvazione nel 1863 (Cerri, 1990, p. 119). Ulteriori considerevoli modifiche furono successivamente apportate dai due progettisti, le quali comportarono la costruzione di un più ampio corpo di fabbrica, sporgente di molto verso l'attuale piazza Carlo Alberto, e di un'articolata e monumentale facciata decorata da statue allegoriche, conclusa in alto da un imponente attico. Il prospetto, ideato dal F. in stile cinquecentesco, più che riecheggiare il revival palladiano in auge nell'edilizia italiana del secondo Ottocento, sembrò riflettere, alla critica più attenta, l'eclettismo magniloquente di certe realizzazioni francesi ispirate ad una moda neorinascimentale opulenta e sfarzosa (Ferrante, 1978, p. 677).
Nel 1864 il F. fu responsabile del rifacimento dello scalone del palazzo reale di Torino. Tra il 1860 e il 1865 circa partecipò ai restauri del quartiere della Meridiana di palazzo Pitti e diresse l'ammodernamento e la decorazione di alcuni ambienti nelle ville di Poggio a Caiano, di Petraia e di San Rossore in Toscana.
Nella palazzina della Meridiana, arredata con mobili appositamente realizzati secondo uno stile neosettecentesco in armonia con quanto già esistente, o acquistati all'Esposizione fiorentina del 1861, gli interni, sotto la direzione del F., assunsero un duplice aspetto di rappresentanza, per le sale prospettanti sul giardino di Boboli, e di residenza privata per gli ambienti disposti sul lato ovest di palazzo Pitti. In particolare, gli arredi delle stanze private del re, di cui più nulla è rimasto, tendevano a ricreare, nei soggetti animalistici e nei temi venatori degli ornati dei mobili, dettati dalla particolare passione del re per la caccia, lo stile caratteristico della villa di campagna, esemplificata su modelli spiccatamente anglosassoni e francesi.
Nelle altre ville fiorentine prevalse ancora di più il concetto di dimora borghese, intesa come tranquillo rifugio dagli impegni mondani ed ufficiali, certamente richiesto dallo stesso Vittorio Emanuele II. Il F., che nella sistemazione della mobilia proveniente da altre vecchie regge italiane impegnò le stesse ditte operanti a palazzo Pitti, sarebbe anche l'autore delle tempere di alcuni soffitti, come quello della sala dei biliardi nella villa di Poggio a Caiano, raffigurante un pergolato contro lo sfondato di un cielo aperto, mentre per altri ornati di gusto settecentesco e "neo-alfieriano" si valse anche dell'aiuto del figlio Augusto.
Il F. morì a Torino il 7 giugno 1878.
Dell'artista si conservano, presso l'Istituto nazionale per la grafica di Roma, nove incisioni tratte da sue composizioni sceniche, eseguite da L. Ruggi, una litografia firmata, della "Thierry frères" di Parigi ed un'incisione del francese Ch. Villemin, entrambe riferibili all'opera Malek Adel allestita dal F. per il théâtre Royal Italien di Parigi.
Presso il Museo teatrale alla Scala sono conservate sette incisioni scenografiche dello stesso Ruggi ed una raccolta di sette incisioni e litografie scenografiche tratte da allestimenti teatrali del F. per il teatro parigino.
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