FANCELLI, Domenico (Micer Dominigo, Domenico di Alexandro fiorentino)
Nacque a Settignano (ora frazione di Firenze) nel 1469 da Alessandro (Sandro) di Bartolomeo di Antonio, originario di Settignano, e da Checca Galli. Aveva un fratello, anch'egli scultore, di nome Giovanni, l'erede di tutti i suoi beni, che molto verosimilmente doveva essere il padre di quell'Alessandro di Giovanni Faricelli, detto lo Scherano.
Il Milanesi (1879) afferma che il F., essendo rimasto orfano del padre a 5 anni, venne affidato ad uno zio paterno, che lo allogò presso un marmista, seguendo la tradizione della famiglia, secondo la quale l'arte dello scalpello veniva trasmessa di padre in figlio. Più tardi, ma ancora in giovanissima età, dovette recarsi a Firenze per perfezionare la sua arte sotto la direzione di uno o più maestri di cui si ignora l'identità. Il Gómez Moreno (1941) suppone che frequentasse la bottega di Luca, il più illustre dei Fancelli, e che nel 1490 lo accompagnasse a Napoli dove questi lavorò, avvalendosi della collaborazione di Benedetto da Maiano, il cui influsso è evidente nelle opere del F.; l'ipotesi di un soggiorno napoletano appare convincente perché potrebbe spiegare l'origine degli stretti legami che in seguito si istaureranno tra la corte di Spagna e il Fancelli.
Il Milanesi, nella sua edizione delle Lettere di Michelangelo (1875, p. 51 n. 1), avanza l'ipotesi che lo scalpellino che si firma in una lettera del 3 ott. 1515 inviata a Michelangelo in Roma (Barocchi-Ristori, 1965, p. 180) "Domenico di Sandro fiorentino, sopradetto è Zara, in Carara" possa essere identificato con il "Domenico di Sandro di Bartolo Fancelli, valente scultore" (ibid.; di conseguenza con questo soprannome "Zara" il F. compare anche negli indici dello stesso carteggio). Ma qualche anno dopo, nelle Vite del Vasari edite a Firenze nel 1879, il Milanesi sembra abbandonare questa ipotesi perché non accenna al nomignolo "Zara" quando, in margine alle vite di Baccio e Raffaello di Montelupo, menziona il Fancelli.
Bisogna tener presente che la zara era un gioco di dadi che comportava grossi rischi per i perdenti; pertanto tale soprannome, che allude ad un giocatore d'azzardo, mal si adatta al "providus, prudens ac nobilis magister Dominicus olim Sandri Bartholomei Antonii Fancelli de Septignano, sculptor lapicida", come si legge nel testamento dettato a Carrara l'11 dic. 1512 (Andrei, 1871, pp. 38 ss.), impegnato nel 1515 ad ultimare le tombe dei re cattolici per la cappella reale di Granada. Possiamo supporre che Michelangelo alluda al F. quando scrive: "Richordo, chome oggi, questo di venti uno di giennaio mille cinque cento sedici, lasciai a serbo a maestro Domenicho schultore da Sectignano in Charrara, duchati mille d'oro larghi e duchati quaranta tre pur d'oro larghi e scudi diciassecte per tanto ch'io tornassi da Firenze, o io o altri per me" (Bardeschi Ciulich-Barocchi, 1970, pp. 13 s.). È questa la prova della profonda stima che Michelangelo nutriva per l'amico F., affidandogli una somma così ingente. Una ulteriore conferma dei loro rapporti amichevoli viene data dal contratto stipulato a Carrara il 18 nov. 1516 tra Michelangelo e Bartolomeo di Giampaolo, detto Mancino, cavatore di marmo, al quale fa da garante e testimone "maestro Domenico di Sandro, fiorentino ischultore" (Milanesi, 1875, p. 654). Malgrado la familiarità con Michelangelo ed i frequenti contatti a Carrara, il F. non ne subì il fascino e di conseguenza non tentò di rinnovare il suo stile, uscendo dai consueti, ed ormai invecchiati schemi iconografici che ripetevano gli splendidi motivi ornamentali, ispirati all'antichità classica, propri della scultura fiorentina postdonatelliana con l'aggiunta di elementi lombardi profusi nelle sue opere con horror vacui.
Il F. è stato quindi considerato dalla critica, eccessivamente severa nei suoi confronti, un artista insignificante, privo di inventiva, al quale viene solo riconosciuta la perfezione della tecnica, la raffinata eleganza ed il senso dell'armonia accompagnato al culto del bello. In effetti queste uniche qualità non sono sufficienti per poterne individuare le opere giovanili eseguite in Italia, anche perché certamente frutto di collaborazione al seguito di prestigiosi maestri a Firenze, Roma e Napoli. Probabilmente il F. non sarebbe uscito dall'anonimato, divenendo addirittura l'alfiere del Rinascimento nella scultura spagnola, se non avesse avuto la straordinaria ventura di entrare nelle grazie di don Iñigo López de Mendoza, secondo conte di Tendilla, generale valoroso ed uomo colto, forse il personaggio più eminente alla corte di Spagna, che, inviato, nel 1486, dai re Cattolici in Italia per comporre la pace tra il papa Innocenzo VIII e la corte aragonese di Napoli, aveva soggiornato a Firenze, ospite di Lorenzo de' Medici, negli anni di maggiore splendore per le arti e le scienze umanistiche.
Ci deve essere un valido motivo se alla morte del fratello Diego, cardinale arcivescovo di Siviglia, avvenuta nel 1502, il conte di Tendilla, che in Italia era venuto a diretta conoscenza dei capolavori del nostro primo Rinascimento, scelse proprio il F. per l'esecuzione del monumento funebre da collocare nella cappella di Nostra Signora de la Antigua nella cattedrale di Siviglia. È logico supporre che questi fosse in quegli anni a capo di una fiorente bottega, dedita prevalentemente all'arte funeraria, e che in questo campo godesse di un indiscusso prestigio, soddisfacendo appieno, con la sua tecnica perfetta e l'eleganza dell'ornato, le richieste di illustri ed esigenti committenti, i quali dovettero raccomandarlo al conte di Tendilla che era alla ricerca di un eccellente scultore in grado di introdurre il nuovo stile in Spagna.
Per la tomba di Diego Hurtado de Mendoza il F. acquistò a Carrara, il 7 ag. 1508 (Andrei, 1871, p. 33), 55 carrate di marmo bianco, trasferite via mare a Genova, dove scolpì le varie parti del monumento che egli stesso montò, nel 1510, nella cattedrale di Siviglia. La composizione architettonica del sepolcro trae spunto da quella di Paolo II, opera di Mino da Fiesole e Giovanni Dalmata (G. Duknović), che si conserva smembrata nelle Grotte Vaticane. Si tratta di un fastoso arco trionfale addossato alla parete, sorretto da due colonne dal fusto fittamente ornato con racemi e candelabra, all'uso lombardo, e da due pilastri con tre santi per parte, racchiusi entro nicchie a conchiglia sovrapposte. Nel centro sulla parete, al disopra dell'urna con il giacente, vestito del pontificale, appaiono tre rilievi con La Vergine ed il Bambino in trono, la Resurrezione e S. Anna che insegna a leggere alla Vergine e, nel registro superiore, i ritratti dei due fratelli dell'arcivescovo, committenti dell'opera; nel timpano, sotto la breve volta a cassettoni, è raffigurata l'Ascensione. Sotto l'urna, la Temperanza e la Giustizia, rilievi a mezzo busto, affiancano l'epitaffio, che fu composto dal conte e volto in latino dall'umanista italiano Pietro Martire d'Angleria, "precettore" alla corte dei re Cattolici (Meneses Garcia, I, 1973, p. 91). Intorno al monumento gira un bellissimo festone con mazzi di fiori e frutta, alla maniera dei Della Robbia. Il Cean Bermudez (1800, p. 127), equivocando sul nome dello scultore che chiama Miguel, afferma che quest'opera riscosse un tale successo da indurre il capitolo della cattedrale ad inviare alcuni suoi membri, il 18 marzo 1510, a parlare con il fiorentino che aveva fatto la tomba del cardinale "D. Diego Furtado", per trattenerlo a Siviglia affinché lavorasse ancora per la cattedrale.
Il F., intanto, per suggerimento del conte di Tendilla, aveva ricevuto dalla corte spagnola una committenza ben più prestigiosa: quella del sepolcro per l'infante don Juan, morto nel 1497, che per volontà della madre Isabella, espressa nel suo testamento (1504), doveva sorgere nella chiesa di S. Tomás ad Avila. Il F. iniziò subito i disegni esecutivi e nel 1511, in occasione delle nozze della figlia del conte di Tendilla, si recò a Granada, dove ebbe modo di studiare i ritratti del principe, conservati nella cattedrale.
Da una lettera del conte di Tendilla, indirizzata al vescovo di Avila (Meneses Garcia, II, 1974, p. 50), apprendiamo che vi fu un garbato diverbio tra lui e il F., il quale, a scapito della somiglianza, aveva abbellito di molto il volto del principe, preoccupato di non turbare con tratti sgradevoli l'armonica bellezza della composizione. Alla fine il conte, il cui gusto doveva essere ancora impregnato del crudo realismo di derivazione fiamminga, gli dovette dar ragione.
Nel 1512 il F. ritornò a Carrara, per l'acquisto del marmo e l'esecuzione del sepolcro che fu rapidissima, come risulta dal lungo testamento, in favore del fratello Giovanni, che egli dettò il 12 dicembre di quello stesso anno prima di ripartire (Andrei, 1871, p. 39).
Dal testamento si deduce inoltre che il F. doveva essere stato insignito in Spagna di un'alta onorificenza, dato che si definisce "nobilis", e che aveva una discreta cultura rivelata dall'italiano abbastanza corretto ed infarcito di considerazioni riguardanti la vita dello spirito.
L'anno seguente, il 21 ott. 1513, con una cedola reale, Ferdinando il Cattolico pagò il monumento funebre dell'infante, già installato nella chiesa del convento di S. Tomás ad Avila.
Esso si erge, candido e solenne, nel centro del transetto, ai piedi dell'altare maggiore. La tipologia di questo sepolcro, in forma di catafalco, ha un solo illustre precedente in quello di papa Sisto IV, eseguito in bronzo dal Pollaiolo, ora nel Museo Petriano in Vaticano. Il letto funebre, riccamente ornato, su cui giace il principe, è poggiato su un basamento che si allarga verso il basso, formando una piramide tronca, le cui pareti sono decorate da motivi simmetrici, con santi nei tondi centrali, affiancati da figure allegoriche, sedute entro nicchie a conchiglia. Tutta la decorazione figurativa delle pareti del sepolcro è stata eseguita con un rilievo moderato per evitare forti contrasti chiaroscurali, dando così maggiore risalto ai magnifici grifoni che si slanciano impetuosi dagli angoli, conferendo dinamicità alla geometrica struttura dell'insieme. Il F. con questo sepolcro, pur essendosi limitato ad usare, con una tecnica diligente e perfetta, consueti motivi del suo repertorio classico, introdusse trionfalmente l'arte del Rinascimento nella scultura spagnola. La sua genialità consiste nell'aver principalmente tenuto conto dell'effetto scenografico, collocando il suo monumento là dove converge, inevitabilmente, lo sguardo degli astanti. L'opera assume così un carattere altamente simbolico che valica ogni giudizio critico perché egli, da uomo colto e sensibile, oltre che abile scultore, seppe interpretare il particolare momento storico che la Spagna stava vivendo, trasformando la morte dello sfortunato e gracile principe ereditario, spentosi senza gloria e senza eredi a 22 anni, in un evento trionfale, dal momento che, ereditando il trono Carlo d'Asburgo, la Spagna sarebbe divenuta, di lì a poco, il fulcro dell'impero più vasto del mondo.Il F., che godeva ormai della incondizionata stima del sovrano, ricevette da questo la commissione per il sepolcro che doveva accogliere le sue spoglie e quelle della moglie Isabella, defunta nel 1504. Per questo motivo egli ritornò a Carrara dove, il 21 marzo 1514, acquistò 25 carrate di marmi (Andrei, 1871, p. 47). Il monumento fu compiuto in tre anni, come si desume dalla convalida del suo testamento avvenuta il 26 marzo 1517, prima di far ritorno in Spagna, dove, essendo morto l'anno precedente Ferdinando il Cattolico, regnava Carlo I.
Il sepolcro dei re Cattolici ripete lo schema compositivo di quello dell'infante ad Avila con qualche modifica: è ovviamente più ampio dovendo contenere due figure giacenti; nelle pareti inclinate i medaglioni centrali, con s. Giacomo e s. Giorgio che cavalcano focosi destrieri, sono chiaramente ispirati a modelli dell'antichità classica e nelle nicchie a conchiglia, che li affiancano, vi sono santi invece di figure allegoriche. Seduti ai quattro angoli della cornice superiore del basamento, che circonda il letto funebre, i dottori della Chiesa - Agostino, Gerolamo, Ambrogio e Gregorio - vegliano il sonno dei re Cattolici, i cui volti, anche in questo caso, sono stati idealizzati secondo i canoni estetici dell'artista.
Quest'opera, definita perfetta ma non geniale, che unisce la grazia fiorentina alla grandiosità spagnola (Contreras, 1940), non venne collocata dallo scultore nella cappella reale, ancora non ultimata, della cattedrale di Granada, cui era destinata, ma certamente si trovava in quella città, esposta all'ammirazione del popolo, perché quando, il 14 luglio 1518, gli eredi del cardinale Francisco Ximenez de Cisneros commissionarono per 2.100 ducati d'oro a "Micer Dominico de Alexandre florentin" il sepolcro in marmo di Carrara, da collocare nella chiesa del collegio di S. Ildefonso ad Alcalá de Henares, pretesero che il marmo fosse della stessa qualità, se non migliore, di quello usato per le tombe del principe don Juan ad Avila e dei sovrani Ferdinando e Isabella a Granada (Gómez Moreno, 1926, p. 101).
Il contratto venne stilato sulla base dei disegni esecutivi presentati dallo scultore e contiene una lunga e minuziosa descrizione di tutti gli elementi decorativi. La composizione non si discosta da quella della tomba dei re Cattolici; anche qui avrebbero dovuto esserci i medaglioni con i santi patroni, affiancati però dalle raffigurazioni delle Arti liberali e della Teologia, come nel sepolcro di Sisto IV, con i quattro dottori della Chiesa negli angoli, sopra i grifoni trionfanti.
Secondo quanto scrive Gómez Moreno (1956), Carlo I, con un contratto stipulato il 21 dic. 1518 a Saragozza, ordinò al F. il sepolcro per i suoi genitori: Filippo di Borgogna (m. nel 1506) e Giovanna la Pazza, ancora in vita, da collocare nella cappella reale della cattedrale di Granada, accanto a quello dei nonni Ferdinando ed Isabella. Ma il F. non poté realizzare queste ultime opere perché si ammalò gravemente a Saragozza, dove morì il 21 apr. 1519, dopo aver dettato le ultime volontà, davanti a Miguel de Villanueva (Hernandez Perera, 1957).
Le sculture vennero quindi eseguite a Carrara da Bartolomé Ordoñez, uno dei grandi artisti spagnoli del Rinascimento, il quale per la tomba del cardinale Cisneros seguì fedelmente i dettami del Fancelli. Tra le altre opere del F. si ricordano: dieci statue di terracotta (1510), perdute; quattro acquasantiere, vendute dallo scultore alle cattedrali di Valenza e Toledo (1512), delle quali restano solo due nel transetto della cattedrale toledana (Sanchis y Silvera, 1909; Perez Sodano, 1924, Gómez Moreno, 1925, p. 254 n. 5) ed infine il sepolcro di don Fernando Fonseca e della sua seconda moglie nella chiesa di S. Maria a Coca (Segovia) commissionatogli nel 1518 (Hernandez Perera, 1957, p. 14). È invece di Alessandro Fancelli (cfr. voce in questo Dizionario) la Madonna del monumento funebre di Giulio II in S. Pietro in Vincoli a Roma che gli era stata erroneamente attribuita (Ch. De Tolnay, in Enc. universale dell'arte, IX, Roma 1963, col. 292, sub voce Michelangelo).
Fonti e Bibl.: J. A. Cean Bermudez, Diccionario histórico, II, Madrid 1800, pp. 125 ss.; W. Braghirolli, Leon Battista Alberti a Mantova, in Arch. stor. ital., s. 3, IX (1869), pp. 3-31; M.R. Zarco del Valle, Documentos inéditos para la historia de las bellas artes en España, in Collección de documentos inéditos para la historia de España, Madrid 1870, LV, pp. 201, 640; P. Andrei, Sopra D. F. fiorentino e Bartolomeo Ordognes spagnuolo. Memorie estratte da documenti, Massa 1871; G. Campori, Memorie biografiche degli scultori di Carrara, Modena 1873, p. 343; G. Milanesi, Le lettere di Michelangelo Buonarroti, Firenze 1875, pp. 51, 654; W. Braghirolli, Luca Fancelli, scultore, architetto e idraulico del sec. XV, in Arch. stor. lomb., III (1876), p. 615 n. 18; G. Milanesi, in G. Vasari, Le vite, IV, Firenze 1879, pp. 554 s. n. 7; J. Sanchis y Silvera, La catedral de Valencia, Valencia 1909, p. 560; E. Bertaux, La Renaissance en Espagne et au Portugal, in Histoire de l'art, a cura di A. Michel, IV, 2, Paris 1911, pp. 928 ss., A. L. Mayer, F. D., in U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, XI, Leipzig 1915, pp. 242 s.; F. Perez Sodano, Notas del Archivo de la catedral de Toledo, I, Madrid 1924, p. 40; M. Gómez Moreno, Sobre el Renacimiento en Castilla..., in Archivo español de arte y arqueología, I (1925), pp. 245-288; Id., Documentos referentes a la capilla real de Granada, ibid., II (1926), pp. 101-103; J. de Contreras, Historia del arte hispánico, III, Madrid 1940, pp. 215 ss.; M. Gómez Moreno, Las aguilas del Renacimiento español, Madrid 1941, p. 13; B. G. Proske, Castilian sculpture-Gothic to Renaissance, New York 1951, ad Indicem; M. E. Gómez Moreno, Breve historia de la escultura española, Madrid 1951, ad Indicem; Id., Bartolomé Ordoñez, Madrid 1956, p. 11; J. Hernandez Perera, Escultores florentinos en España, Madrid 1957, pp. 8-15; J. M. Azcàrate, Escultura del siglo XVI, Madrid 1958, p. 26; M. Gómez Moreno, La gran época de la escultura española, Barcelona-Madrid-Mexico 1964, p. 8; Il carteggio di Michelangelo, a cura P. Barocchi-R. Ristori, I, Firenze 1965, pp. 177, 180; M. E. Gómez Moreno, La escultura en España en tiempo de los reyes católicos, in Exposición conmemorative del VI centenario del matrimonio de los reyes Católicos, Valladolid 1969, pp. 11-15; Iricordi di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich-P. Barocchi, Firenze 1970, pp. 13 ss.; M. Gómez Moreno, Renaissance sculpture in Spain, New York 1971, ad Indicem; E. Meneses Garcia, Correspondencia del conde de Tendilla, I (1508-1509), Madrid 1973, pp. 91, 143, 150; II (1510-1513), ibid. 1974, p. 50; V. Nieto Alcaide, D. F.: sepulcro del Infante don Juan, Madrid 1975; Luca Fancelli architetto - Epistolario gonzaghesco, a cura di C. Vasić Vatovec, Firenze 1979, p. 258; M. C. Garcia Gainza, Escultura, in Historia del arte hispanico, III, El Renacimiento, Madrid 1980, p. 103.