PIERATTI, Domenico e Giovan Battista
PIERATTI, Domenico e Giovan Battista. – Fratelli, nacquero a Firenze rispettivamente il 4 ottobre del 1600 e il 17 settembre del 1599. Seppure siano alquanto scarse le indicazioni sui loro anni giovanili, le fonti parlano di un alunnato nella bottega di Chiarissimo Fancelli (Cornaggia, 1973-74) e di una successiva collaborazione con Andrea Ferrucci il quale, stando a Filippo Baldinucci (1681-1728, III, 1846, p. 538), «fecesi aiutare per più anni da Domenico e Gio. Batista Pieratti» mentre lavorava per Cosimo II «nello stenzone del giardino di Boboli» (ibid.). Al 24 ottobre del 1624 risale il pagamento della matricola all’Accademia del disegno, evento che attesta il riconosciuto avvio di una loro attività autonoma.
Per tutto il terzo decennio del XVII secolo i nomi dei due fratelli s’incontrano spesso insieme nelle principali fabbriche granducali, con una specializzazione nell’esecuzione di sculture da giardino e restauri di marmi antichi, fin quando Domenico intraprese un percorso indipendente grazie a significative commissioni provenienti, tra le altre, anche da Roma.
Tra le primissime segnalazioni documentarie si registra una supplica del 21 giugno 1619 in cui i Pieratti chiedevano al granduca Cosimo II di poter iniziare a tradurre in pietra due figure – una che «va a frugniolo» e l’altra «che tira l’arco» (Saladino, 2008, p. 40) – di cui avevano già fornito i modelli preparatori: la prima, con la caratteristica lanterna per abbacinare gli uccelli di notte, fu eseguita da Giovan Battista ed è segnalata oggi in collezione privata (Capecchi, 2008), mentre la seconda è probabilmente da identificare con un Turco che tira l’arco, poi saldato a Domenico nel maggio del 1622 (Saladino, 2008). Quest’ultimo, insieme a una «statua di pietra bigia di un turco» (Pizzorusso, 1989, p. 97) pagata a Domenico sempre nel maggio 1622 e oggi perduta, e a una terza scultura non identificata (ma forse Saturno con due puttini di Agostino Ubaldini; Capecchi, 2008, p. 149), doveva animare un gruppo con una Caccia al cinghiale allestita nel vivaio dell’Isolotto, ammirato e descritto da Nicholas Stone nel 1638 (Stone, 1640 circa, 1918-19).
Nel settembre del 1620 Domenico venne pagato 25 scudi per la fattura di una «statua di pietra di un David», definita da GaetanoVascellini (1791-1797) un Antinoo (in Pegazzano, 2013, cat. 18d); identificata da Claudio Pizzorusso (1989) come David vittorioso, la statua è invece ritenuta un Apollo da Caterina Caneva (1982). Nel maggio dell’anno successivo i due fratelli ottennero 134 scudi per l’esecuzione di un Amorino su conchiglia e di un Amorino su tartaruga destinati al nuovo spazio che si andava creando intorno all’Isola, su disegno di Giulio Parigi, con al centro una statua di Venere; in seguito allo smembramento del complesso (1634-37), i gruppi furono poi ricollocati nella fontana del Carciofo insieme a quelli di Andrea di Michelangelo Ferrucci, Antonio Novelli, Cosimo Salvestrini, Bartolomeo Rossi, Giovan Simone Cioli, Giovan Francesco Susini e Agostino Ubaldini (Pizzorusso, 1989). Sempre per il nuovo spazio per la vasca dell’Isola, Domenico scolpì la statua di Amore che apre un cuore, ricevendo un pagamento di 100 scudi nel marzo del 1623 (Pizzorusso, 1989); lo stesso anno (25 marzo e 25 novembre) anche Giovan Battista ricevette compensi per una «statua simile» (ibid., p. 36), identificata per via stilistica con Amore che colpisce un cuore (ibid.), mentre le altre due figure a completamento del ciclo furono affidate a Salvestrini (Amore che ride) e a Susini (Amore che scocca una freccia).
Nel 1625 Domenico lavorò alla villa di Poggio Imperiale sempre sotto la direzione di Giulio Parigi: Giovanni Cinelli (Bozze, 1677) lo ricorda insieme a Francesco Generini e Novelli come autore delle otto statue dei Venti poste nelle nicchie della facciata, mentre Baldinucci (1681-1728, IV, 1846) gli ascrive anche i fiumi Arno e Ombrone in stucco e spugne collocati all’imbocco dei vivai di Porta Romana (opere perdute).
Al 1626 risalgono altre due opere di Domenico, oggi perdute: una statua di Mercurio in pietra serena per la decorazione del ballatoio che coronava l’ala della biblioteca Palatina di palazzo Pitti, progettata sempre da Parigi (Facchinetti Bottai, 1979), e il modello in cera di una figura della Carità per il ciborio della cappella dei Principi, oggi visibile nella traduzione in pietre dure nel paliotto dell’altare settecentesco della cappella Palatina di palazzo Pitti (Grünwald, 1910).
In qualità di restauratore nel 1628 Domenico eseguì la «rassettatura di un Ercole» (Saladino, 2008), identificato da Vincenzo Saladino (2008) con una statua dell’anfiteatro di Boboli. L’anno seguente lo scultore venne pagato per il completamento di un Gladiatore che, insieme ad altre tre statue della medesima iconografia, doveva trovare collocazione nell’anfiteatro di Boboli.
La storia di queste opere rimane controversa e non ancora pienamente risolta. Il Gladiatore in esame, riconosciuto come il Combattente acquistato nel 1584 dal cardinal Ferdinando dalla collezione Della Valle, secondo Gabriele Capecchi (2008) fu infatti integrato da Domenico Pieratti, mentre Gabriella Capecchi (2013) assegna l’intervento a Salvestrini, che vi avrebbe lavorato tra il 1631 e il 1635. A questa figura si associa tradizionalmente il Gladiatore con barba, il cui reintegro era già stato riferito a Domenico (Pizzorusso, 1985), ma che in realtà fu restaurato da Andrea di Michelangelo Ferrucci tra il 1619 e il 1621 (Capecchi, 2013). Interamente alla mano di Domenico si assegna viceversa il Gladiatore con scudo, ritenuto dalle fonti una delle sue opere migliori (Cinelli, Bozze, 1677) e per il quale lo scultore richiese il saldo soltanto l’11 aprile 1647 (Cornaggia, 1973-74); insieme con un secondo Gladiatore con daga e pugnale restaurato da Giovan Battista tra il 1634 e il 1636, l’opera fu presto trasferita – forse già nel 1654 (Capecchi, 2008) – da Boboli agli Uffizi, per poi giungere alla villa di Castello, ove ancora oggi si trova.
Il 5 novembre del 1628 Domenico firmò il contratto per le figure allegoriche della Speculazione e dell’Operato, commissionate da Michelangelo Buonarroti il Giovane e destinate alla galleria della sua casa fiorentina dove tuttora si conservano.
L’acquisto del marmo era a carico del Buonarroti e già il 26 dicembre successivo venne pagato il trasporto per nave di uno dei blocchi da Pisa a Firenze; Pieratti percepì 100 scudi per ciascuna delle due statue, consegnate rispettivamente il 17 gennaio e il 21 maggio del 1632 (Vliegenthart, 1976), e che, da un punto di vista stilistico, mostrano una sapiente combinazione di motivi classici ed evidenti richiami alla scultura michelangiolesca.
Il rapporto con Buonarroti il Giovane si rivelò di estrema importanza, poiché fu probabilmente anche grazie al suo appoggio che Domenico ottenne l’incarico dal cardinale Francesco Barberini di scolpire il gruppo di Latona con i figli Apollo e Diana fanciulli, identificato da Valentino Martinelli (1963) sullo scalone di palazzo Barberini a Roma e già attribuito a Pietro Bernini (Catalogo della Galleria Nazionale Palazzo Barberini, Roma, a cura di N. di Carpegna, Roma 1953, p. 5). Il marmo fu donato nel 1630 dal granduca Ferdinando II (Pizzorusso, 1985).
Pieratti dette vita a una composizione ancora una volta giocata sui riferimenti all’antico – soprattutto nella testa di Latona, che ripropone in controparte il cosiddetto Alessandro morente degli Uffizi – e alla scultura più recente, nel richiamo al monumento a Ferdinando I realizzato dal Giambologna e Pietro Francavilla a Pisa.
Al termine del lavoro, lo scultore pretese la somma esorbitante di 800 scudi, adducendo come termine di paragone il ritratto di Scipione Borghese (1632; Roma, Galleria Borghese) per il quale Gian Lorenzo Bernini era stato pagato 500 scudi; nonostante i tentativi da parte di Luigi Arrigucci, architetto fiorentino al servizio di Urbano VIII, per far ridimensionare il prezzo, Pieratti riscosse il saldo per l’ammontare richiesto il 16 novembre 1635 (Aronberg Lavin, 1975).
Il 26 gennaio 1630 Domenico ricevette da Agnolo Galli «un marmo d’altezza braccia tre e tre quarti» (Pizzorusso, 1985, p. 27) per scolpirvi un gruppo con Ercole e Jole, destinato al palazzo oggi Galli Tassi in via Pandolfini a Firenze e ancora conservato nel cortile del medesimo edificio.
L’opera, prescelta per il soggetto dallo stesso Pieratti e dal poeta mediceo Andrea Salvadori (Pizzorusso, 1985), si mostra come un compendio di citazioni dall’antico, soprattutto nella figura di Ercole, ispirata per il busto al Torso del Belvedere e per la posizione delle gambe all’Ares Ludovisi, anche se non mancano echi della monumentalità cinquecentesca.
Prima di poter ammirare la sua scultura, Galli dovette attendere non poco, visto che il marmo risulta finito non prima del 1652 e posto in opera solo nel 1659 per cura di Giovan Battista, motivo per cui il committente nel 1655 richiese una perizia sul prezzo a Domenico Guidi e Girolamo Lucenti (Pizzorusso, 1985).
Al 1625-30 si può datare anche la statua di Aristeo, un tempo al Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino, e già identificata (A.M. Voci, Wilhelm Bode e il falso Michelangelo, in Marburger Jahrbuch für Kunstwissenschaft, XXXVII (2010), pp. 265-278) con il S. Giovannino marmoreo scolpito da Michelangelo per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici il Popolano tra il 1495 e il 1496.
L’opera fu acquistata a Firenze nel 1817 dal cavaliere Ranieri Venerosi Pesciolini e portata a Pisa, ma si guadagnò gli onori delle cronache soltanto nel 1875, in occasione del quarto centenario della nascita di Michelangelo, per interesse del nuovo proprietario, il conte Lodovico Rosselmini Gualandi. Tra il 1879 e il 1880, il marmo fu comprato per il museo berlinese da Wilhelm Bode, il quale ne sostenne convintamente l’autografia michelangiolesca fino alla morte. Ne conseguì un acceso dibattito attributivo (riassunto in Caglioti, 2013), cui prese parte anche Alois Grünwald, il quale, nel suo saggio del 1910, propose di assegnare la statua berlinese a uno dei fratelli Pieratti. L’attribuzione è stata precisata da Francesco Caglioti (2013), che, nel riferire cautamente su basi stilistiche l’esecuzione a Domenico, ha proposto l’identificazione del soggetto con Aristeo anche per la presenza del favo di miele.
La fama di Domenico si andava notevolmente diffondendo, tanto che proprio nel 1635 venne interpellato per erigere un monumento in onore di papa Urbano VIII a Pesaro; dopo numerosi contatti e un viaggio dello scultore nella città adriatica l’accordo non venne firmato a causa dell’eccessiva richiesta economica, e la commissione fu affidata soltanto nel 1679 a Lorenzo Ottoni (Brancati, 1981).
L’11 ottobre 1635 i due Pieratti furono chiamati a partecipare alla decorazione della grotta del cortile centrale di palazzo Pitti con le sculture raffiguranti l’Imperio e lo Zelo, secondo un programma iconografico ideato dal bibliotecario granducale Francesco Rondinelli, che prevedeva inoltre la presenza delle figure della Legge, eseguita da Novelli, e della Carità, per la quale si utilizzò un’opera già realizzata da Ubaldini. Il 10 giugno dell’anno seguente Domenico richiese che gli venisse allogata anche la statua di Giovan Battista, «non volendo aver’ che fare ne’ negozi di suo fratello» (Pizzorusso, 1985); la richiesta fu accolta e le due sculture furono portate a termine nel giugno del 1642 (ibid.).
Al quinto decennio del Seicento si fa risalire il S. Giovanni Battista scolpito da Domenico in marmo e segnalato da Cinelli (Bozze, 1677) in casa Tempi, poi Bargagli Petrucci (Pizzorusso, 1989) e, dal 2006, al Metropolitan Museum of art di New York.
Nel 1644 Domenico eseguì le due Acquasantiere sempre in marmo per la chiesa dei Ss. Michele e Gaetano a Firenze (Chini, 1984), con chiari riferimenti ai modelli cortoneschi, a quella data divenuti di grande attualità in città, per la vivacità sorridente dei due angeli che sorreggono le pile. L’anno seguente vennero ripresi i lavori di decorazione all’ovale di verzura intorno all’Isolotto di Boboli, a cui Domenico aveva già lavorato a partire dal 1619. A questa fase del cantiere si possono riferire su base documentaria il Contadino con vaschetta (1647; Capecchi, 2008), il Cacciatore con lo sparviero e il Cacciatore con due bracchi (1647), oggi privo del volto, e la Donna con cani (1652). Infine al 1654 risalgono le due figure dei Duellanti (Pizzorusso, 1989).
Gli anni finali della carriera di Domenico, fino a oggi piuttosto oscuri, si sono andati delineando con maggiore chiarezza negli ultimi tempi grazie a nuovi contributi critici, primo tra i quali quello relativo al suo coinvolgimento nella realizzazione dell’arredo scultoreo (oggi quasi del tutto perduto) del vasto giardino del Casino Guadagni (o palazzo di S. Clemente) di Firenze (Spinelli, 1996).
Dal 1643, lo scultore fu impegnato in diverse operazioni in questo sito, a partire dal restauro di due torsi antichi ridotti a figure intere, raffiguranti un ‘Apollo al naturale’, ammirato poi da Cinelli (in Bocchi - Cinelli, 1677, p. 481), e da una Baccante. Seguirono poi le figure delle Cacciatrici, eseguite in collaborazione con Clemente Ciocchi e Domenico del Buono: la prima con un uccello in braccio (1645-46), la seconda con «un liocorno a diacere di marmo bianco» (1645-46), e la terza con «uccello in pugno» (1647) (Spinelli, 1996, p. 52). Nell’ottobre del 1647 il committente, Tommaso Guadagni (m. 1652), richiese una coppia di figure con una ‘dama’ e un ‘cavaliere’, a cui se ne aggiunse una seconda nel febbraio del 1648 (Spinelli, 1996, p. 52). Dalla fine dell’anno seguente, lo scultore lavorò ai complementi di arredo del giardino, eseguendo due ‘buffetti’ di granito e due ‘liocorni’ (ibid.) in pietra nonché il restauro di una Venere, forse la stessa descritta come «meravigliosa e vaga» da Cinelli (in Bocchi - Cinelli, 1677, p. 481). Tra il gennaio e il novembre del 1654 scolpì forse l’ultima statua del giardino, raffigurante un «pastore con un cane allato e un daino in spalla» (Spinelli, 1996, pp. 56-59), mentre l’anno seguente s’impegnò con i figli di Guadagni a eseguire le parti marmoree dell’altare della cappella di famiglia in S. Girolamo a Fiesole, su disegno di Baldassarre Franceschini.
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta lo scultore eseguì le statue di S. Luca e di S. Giovanni Evangelista per la cappella Serragli in S. Marco, a compimento di una serie già iniziata da Lodovico Salvetti, autore delle figure di S. Marco e di S. Matteo (Pizzorusso, 1985). La morte del committente Giuliano Serragli, avvenuta nel 1648, potrebbe costituire un termine ante quem almeno per l’assegnazione delle opere a Domenico. Ancora nel 1654 Domenico è ricordato per aver rifatto un piede e alcune dita a due putti della Tribuna degli Uffizi (Grünwald, 1910, pp. 44 s.), individuati indiziariamente nel Putto con anatra e nel Putto seduto, oggi al Museo degli argenti (Saladino, 2008). A questo periodo dovrebbe risalire anche il «ritratto di Monsù Selim, alto b.a 1» (Saladino, 2008, p. 45), identificabile con un busto ricordato nell’inventario degli Uffizi del 1676, oggi nei locali dell’Accademia delle arti del disegno (ibid.).
Nel 1655 Domenico si recò a Roma per motivi, al momento, ignoti; la sua presenza in città non dovette tuttavia durare a lungo dal momento che il 22 maggio del 1556 morì, forse a causa della peste (Thieme - Becker, 1932).
Tra le opere variamente attribuite a Domenico si ricordano i busti di Chiaro e Giovanni da Verazzano della National Gallery of art di Washington (Middeldorf, 1976), pertinentemente assegnati a Girolamo Ticciati da Alessandra Giannotti (1995); il David di collezione privata, già identificato con l’Ercole Strozzi di Michelangelo da Parronchi (1969), e attribuito a Domenico o a Giovan Battista Pieratti da Pizzorusso (1989); il Satiro ebbro sul mercato antiquario, assegnato a Pieratti da Tomaso Montanari (2010) e datato agli anni Quaranta del Seicento.
Più complessa risulta la ricostruzione della carriera di Giovan Battista, più anziano di un anno del fratello e molto spesso attivo negli stessi cantieri; anche nel suo caso, si riscontra una netta specializzazione nel campo del restauro e della produzione di sculture da giardino. Oltre alle opere già citate, si registra un pagamento del 30 agosto 1625 per una «pila di marmo con 2 delfini per la fonte di Boboli» (Pizzorusso, 1989, p. 48), mentre nel luglio del 1629 gli fu saldato per 212 scudi un restauro della statua del Desiderio, oggi agli Uffizi (Pizzorusso, 1989). Il 6 aprile del 1632 Giovan Battista ricevette il marmo destinato al restauro di un Cavallo marino per la statua del Perseo (ibid.), poi collocata nel Vivaio di Boboli tra il 1636 e il 1637, al tempo della risistemazione dell’area che vide la rimozione della Venere voluta da Cosimo II per lasciare spazio alla Fontana dell’Oceano del Giambologna.
Per la figura di Andromeda, all’estremità opposta del Vivaio, l’attribuzione a Giovan Battista risulta più problematica (Pizzorusso, 1989; Capecchi, 2013); Gabriele Capecchi (2008) ritiene che potrebbe trattarsi anche in questo caso di un restauro di un marmo antico da parte dello scultore.
Il 14 novembre del 1636 Giovan Battista figura tra i membri designati per giudicare i disegni della facciata del duomo fiorentino insieme a Generini, Raffaello Curradi e Pietro Paolo Albertini (Fanfani, 1876); la sua attività in ambito architettonico è ricordata inoltre per interventi nell’ospedale Bonifacio e in S. Egidio (Thieme - Becker, 1932).
Al 1636 risale il restauro integrativo della statua della Bellezza, collocata nel cortile di Aiace a Boboli, di cui Giovan Battista eseguì ex novo testa, braccia, gambe e panneggio (Pizzorusso, 1989).
Morì a Firenze il 20 dicembre del 1662 (Thieme - Becker, 1932).
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P. Fanfani, Spigolatura michelangiolesca, Pistoia 1876, p. 213; A. Grünwald, Über einige unechte Werke Michelangelos, in Müncher Jahrbuch der Bildenen Kunst, V (1910), pp. 11-70; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXVI, Leipzig 1932, p. 599; V. Martinelli, Un’opera di D. P. nel palazzo Barberini a Roma, in Scritti di storia dell’arte in onore di Mario Salmi, III, Roma 1963, pp. 263-273; M.C. Cornaggia, D. e G.B. P., tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, a.a. 1973-74 (relatore prof. A. Parronchi); M. Mosco, Itinerario di Firenze barocca, Firenze 1974, p. 25; M. Aronberg Lavin, Seventeenth-century Barberini documents and inventories of art, New York 1975, p. 126; A. Biancalani, in Il luogo teatrale a Firenze (catal., Firenze), a cura di M. Fabbri et al., Milano 1975, pp. 149 s.; U. Middeldorf, Sculptures from the Samuel H. Kress Collection. European schools XIV-XIX century, London 1976; A.W. Vliegenthart, La Galleria Buonarroti. Michelangelo e Michelangelo il Giovane, Firenze 1976, pp. 84, 90, 94, 96, 121, 210-215, 217; F. Facchinetti Bottai, Le mille stanze del re, in Bollettino d’arte, s. 6, LXIV (1979), 1, p. 99; A. Brancati, Una statua, un busto e una fontana di Lorenzo Ottoni, Pesaro 1981, pp. 73 s., 101 nn. 4-9; Dessins baroques florentin du Musée du Louvre (catal.), a cura di F. Viatte - C. Monbeig-Goguel, Parigi 1981, p. 148, n. 88; C. Caneva, Il giardino di Boboli, Firenze 1982, p. 49; D. Heikamp, La Galleria degli Uffizi descritta e disegnata, in Gli Uffizi. Quattro secoli di una galleria. Atti del Convegno internazionale… 1982, II, Firenze 1983, pp. 498, 523 n. 92; E. Chini, La chiesa e il convento dei Ss. Michele e Gaetano a Firenze, Firenze 1984, pp. 209, 294 s.; C. Pizzorusso, D. P. “primo suggetto nel suo mestiere in questa città”, in Paragone, XXXVI (1985), 429, pp. 21-42; Id., A Boboli e altrove: sculture e scultori fiorentini del Seicento, Firenze 1989, pp. 13-54, 89-99; Repertorio della scultura fiorentina del Seicento e Settecento, a cura di G. Pratesi, I, Torino 1993, pp. 56 s.; A. Giannotti, “Fisso nel punto, che m’avea vinto”…, in Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria, LX (1995), pp. 103-122; R. Spinelli, Indagini sulle decorazioni secentesche del Casino Guadagni “di San Clemente” a Firenze, in Te, n.s., IV (1996), pp. 37-65; Gabriele Capecchi, Cosimo II e le arti a Boboli, Firenze 2008, pp. 36-44, 63; V. Saladino, “E intanto imparano quella bella maniera”…, in Gabriella Capecchi - M.G. Marzi - V. Saladino, I granduchi di Toscana e l’antico, Firenze 2008, pp. 1-129; T. Montanari, D. P. Satyr lying on a panther skin, in Body and soul (catal., New York), a cura di A. Butterfield, Firenze 2010, pp. 80-85; F. Caglioti, Il ‘San Giovannino’ mediceo di Michelangelo, da Firenze a Úbeda, in Prospettiva, 2012 (2013), n. 145, pp. 2-81; Gabriella Capecchi - D. Pegazzano - S. Faralli, Visitare Boboli all’epoca dei Lumi, Firenze 2013, pp. 139 s., 161-170, 172, 174; Gabriella Capecchi, ibid., schede 2a, 2d, 9b; D. Pegazzano, ibid., schede 15d, 16a, 16c, 16d, 17c, 17d, 18d, 19b, 19c, 20c, 20d, 21d.