DOMENICO di Silvestro (Domenico Silvestri)
Nacque a Firenze intorno al 1335 da una famiglia di origini modeste - forse il padre Silvestro (e dal patronimico derivò poi il cognome, Silvestri, ora comunemente accettato) era lanaiolo - nel "popolo" di S. Felicita all'interno del sestriere di S. Spirito, gonfalone Nicchio.
In questo stesso sestriere (poi quartiere, dal 1343), precisamente in Borgo S. Iacopo, D. abitò. Ebbe due mogli: la prima, Selvaggia di Micuccio dei Lucardesi, imparentata con la famiglia di Donato Ve Iluti (che pure la ricorda nella sua Cronica domestica), fuda D. sposata sul finire del 1367 o ai primi del 1368. La seconda di nome Scotta - nota dalle dichiarazioni catastali del 1427 e del 1430 del figlio Bartolomeo - fu sposata prima del 1385, ma non si conosce la data precisa; sappiamo, invece, che sopravvisse a lungo a D.: nella prima delle due dichiarazioni catastali le viene attribuita l'età di settant'anni, mentre nella seconda quella di "ottanta o più".
Forse dal primo matrimonio nacquero due figli maschi, Filippo, che nel 1391 fu squittinato per le arti maggiori e che fu testimone alla stesura del testamento di Adriano de' Rossi, e Buonaccorso, notaio come il padre D., nato intorno al 1377, studente di diritto nelto Studio nel 1404 e poi consigliere dell'arte dei giudici e notai nel 1409 e nel 1412, e una femmina, Lorenza, che è ricordata, nel 1417, come madre di un certo Rodolfò Davizzi. Dal secondo matrimonio dovettero nascere altri quattro maschi: Bartolomeo nel 1385, e poi anch'egli notaio; Agnolo, immatricolatosi nell'arte della lana nel 1404 e quindi morto nel 1426; Luigi, nato nel 1395, divenuto pazzo a 25 anni e ancor vivo nel 1430; Niccolò, squittinato nel 1411 insieme ad Agnolo e a Luigi; forse D. ebbe pure un altro figlio, morto in tenera età nel 1398.
Non si conosce la data in cui D. - spesso confuso con notai ornonimi più o meno contemporanei, come ser Domenico Bandini e ser Domenico da Prato - fu immatricolato nell'arte dei giudici e notai; né risulta conservato il suo protocollo notarile (ne è rimasta solo la copia di un atto il 10 dic. 1407 nel monastero di S. Felicita). Ma nel febbraio 1362 il suo nome compare, sembra per la prima volta, in uno squittinio (non fu eletto ed ottenne, anzi, sedici voti contrari): quindi l'inizio della sua professione deve risalire a qualche tempo avanti. Invece, due anni dopo, nel gennaio 1364 fu eletto, per il quartiere di S. Spirito, notaio della Signoria; a questo stesso ufficio fu eletto ancora altre volte: nel 1378, nel 1387 e nel 1406.
All'interno dell'arte dei giudici e notai D. ebbe numerose incombenze: fu consigliere dieci volte e console nove volte; fu pure sindaco e, due volte, camarlingo. Anche negli uffici dello Stato ricopri molteplici ed importanti incarichi, a partire dal maggio 1367, quando fu eletto notaio dei gonfalonieri di Compagnia; fu quindi notaio degli atti (nel 1368, nel 1374, nel 1383, nel 1396 e nel 1405), delle gabelle delle porte (nel 1382 e nel 1386), della condotta (nel 1373 e nel 1394), della Camera del Comune (nel 1375, ma rinunziò, non sappiamo per quale motivo, e nel 1401), dei difetti (nel 1377), dei Regolatori delle entrate e delle spese (nel 1378 e 1404), della gabella del vino (nel 1386), dell'estimo del contado (nel 1391), dei pupilli (nel 1397), degli ufficiali di Arezzo e Pistoia (nel 1400), "ad mittenduin Castellanos in tenutam" (nel 1402), della grascia (nel 1403), delle prestanze (nel 1404), delle Stinche (nel 1406), della torre (nel 1408), del camarlingo del Monte (nel 1410); fu pure notaio all'Antella (nel 1370) e a San Piero in Mercato (nel 1372).
Fu anche consigliere del Comune (nel 1381, nel 1383, nel 1385; nel 1388, nel 1397, nel 1400 e nel 1403), mentre, sempre come notaio, fu inviato in alcune ambascerie: nel marzomaggio 1376 ad Avignone presso il papa Gregorio XI con gli ambasciatori Alessandro Dell'Antella e Donato Barbadori, e poi nel dicembre dello stesso anno a Corneto, ancora presso il papa, con gli ambasciatori Alessandro Dell'Antella, Pazzino dei Pazzi e Michele di Vanni; nel settembre 1381, e poi ancora nell'agosto 1382, a Roma presso il papa Urbano VI con gli ambasciatori Baldo da Figline, Francesco Del Bene e Agostino di Piero. Fu ambasciatore nel 1384 a Genova per la composizione di una causa finanziaria con quel Comune, quindi più volte nel corso del 1386 (e già vi era stato anche nel 1379) a Bologna, e sempre nello stesso anno a Foiano, finché nel 1388 fu inviato a Faenza presso Astorre Manfredi, eletto arbitro per la risoluzione di una lunga controversia sui confini che opponeva Firenze a Bologna in relazione al territorio di Pietramala. Sappiamo anche che nel maggio 1378 D. fu fra i testimoni all'estrazione dei Dodici buonuomini: ufficio al quale fu egli stesso estratto nel mese successivo, ma a cui rinunciò per una non meglio conosciuta sua "absentia, longa" da Firenze; sempre nello stesso mese di giugno fu fra gli estratti alle cariche massime di priore e di gonfaloniere di Giustizia: ma per la stessa ragione addotta nella precedente estrazione non poté ricoprire l'ufficio. Nell'estate 1378 fu fra i testimoni alle estrazioni di uffici estrinseci e poi di uffici notarili.
Altri documenti attestano che nell'aprile 1375 pagò per l'estimo due fiorini: cifra che venne più che raddoppiata nel 1380, nel 1378 i Priori, a ringraziamento per "virtutes et merita" di D., gli avevano conferito, come si è detto, l'ufficio di notaio dei Regolatori delle entrate e delle spese, col quale i suoi guadagni dovettero aumentare.
L'ultima data disponibile sulla vita di D. è il 17 febbr. 1411, quando terminò regolarmente l'ufficio di notaio del camarlingo del Monte: dovette quindi morire poco dopo.
Fu sepolto nella chiesa di S. Iacopo sopr'Arno: la lapide, adorna dello stemma, è ancora visibile nel cortile attiguo alla chiesa.
D. fu inserito dal contemporaneo Filippo Villani nel suo Liber de civitatis Florentiae famosis civibus. subito dopo le biografie di Dante, del Petrarca, del Boccaccio e del Salutati, a rappresentare quel gran numero di concittadini che si erano dedicati ai nuovi studi: fino dal suo tempo, quindi, fu riconosciuta a D. una non trascurabile posizione nel rinnovato panorama culturale fiorentino che andava sviluppandosi fra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento. E in quel clima - dominato da un lato dalla comune coscienza dell'eredità dei grandi del sec. XIV, ravvivata nelle riunioni nel "paradiso" degli Alberti, e dall'altro dalla presenza di Coluccio Salutati, propagatore della nuova cultura umanistica - anche D. si mostrò, sviluppando sia una forte ammirazione per il Boccaccio (che abitava nello stesso popolo di S. Felicita), sia una sincera amicizia col Salutati, che gl'infuse senza dubbio l'interesse per le rinnovate prospettive culturali e letterarie. In quest'ambito va vista la scrittura compiuta da D. di un codice, l'attuale Gaddi 90 inf. 12 della Bibl. Laurenziana di Firenze, contenente i testi dei poeti bucolici latini.
Testimonianza della predilezione culturale da parte di D. per il Boccaccio è il manoscritto, ora a Oxford, Bodleian Library, cod. 558, sicuramente autografo di D. - e poi appartenuto a suo figlio Bartolomeo - che contiene alcune opere boccacciane, ma soprattutto l'aggiunta all'incompiuto De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de nominibus maris del Boccaccio, che D. apportò in relazione alle isole col titolo De insulis et earum proprietatibus, e alla quale dovette lavorare a lungo negli ultimi due decenni del Trecento, per poi continuarla ancora nel 1406, quando, in un'ampia digressione, narrò l'assedio e la presa di Pisa da parte dei Fiorentini. Del De insulis, che è un vero e proprio prontuario geografico, è tramandata copia nel manoscritto autografo di D., ora segnato I.III.12 della Bibl. naz. di Torino (e andato molto danneggiato nell'incendio del 1904), che, comprato a Firenze nel 1421 da Giovanni da Rieti, era ancora a Firenze a fine Cinquecento, quando nel 1589 lo vide Michele Poccianti nella biblioteca della chiesa di S. Trinita; ma a metà del Settecento, secondo la testimonianza di Lorenzo Melius, era già a Torino presso la Biblioteca reale.
Lo scopo dell'opera, quello cioè di servire da complemento al De montibus del Boccaccio, è dichiarato da D. fino dall'introduzione, dove viene anche precisata l'intenzione dell'autore di seguire lo stesso metodo del Boccaccio, che aveva raccolto in un unico testo notizie desunte da testi classici eterogenei: fra questi hanno rilevanza fondamentale Plinio, Pomponio Mela, Solino e gli scrittori medievali di cosmografia Isidoro di Siviglia e Guido da Ravenna. Sempre nell'introduzione del De insulis D. spiega anche il significato etimologico di "isola" e quello allegorico (secondo il quale l'isola rappresenterebbe l'anima tentata dalle passioni oppure la Chiesa combattuta dagli infedeli). La materia, di per sé riconosciuta come vastissima, viene poi disposta, per facilitare il compito del lettore, in ordine alfabetico in rapporto al nome di ciascuna isola, si capisce con un'estensione diversa a seconda del materiale disponibile: così, accanto a descrizioni ampie o medie (relative, ad esempio, alle isole Britannia, Cipro, Creta, Delos, Giava, Lesbo, Madagascar, Rodi, Samo, Sardegna, Scandinavia, ritenuta isola, Scozia, Sicilia, Tiro, ecc.), se ne hanno altre che neppure possono essere considerate vere e proprie descrizioni, ma solo elencazioni del nome con l'aggiunta della dislocazione geografica e dell'autore in cui sono state trovate citate. Nelle "voci" più ampie vengono dapprima illustrati i dati strettamente geografici, come la posizione, l'estensione, la conformazione; poi gli aspetti relativi alla fauna e alla flora con riferimenti a caratteri insoliti e proprietà meravigliose (ma'spesso D. confessa che non è facile credere ai racconti fantastici divulgati dai viaggiatori); quindi notizie relative all'archeologia e all'arte con la descrizione di monumenti antichi e moderni; poi le note di natura mitologica col racconto delle credenze e delle vicende mitiche, e quindi le vicende più propriamente storiche: in questa parte - oltre all'uso consueto delle fonti antiche - sono aggiunti spesso ricordi di avvenimenti e personaggi recenti e contemporanei; fra questi si possono citare quelli sull'approdo alle Canarie, sulla guerra del Vespro, sulle imprese di Giovanni Acuto, sul conflitto fra Venezia e Genova per il possesso di Tenedo, nonché la digressione sulla storia dei Franchi fino al vivente re di Francia Carlo VI.
Si capisce come il De insulis di D. si presenti come una vera e propria enciclopedia della cultura medievale, per molti aspetti vicino al Fons memorabilium universi di Domenico Bandini, dove convergono e convivono elementi diversissimi ed eterogenei - fra questi anche il rispetto di regole grammaticali medievali (come l'uso del "cursus" e della metafora) particolarmente evidenti nella studiata ed elaborata introduzione -, notizie disparate e spesso accettate senza alcuna verifica (ma talvolta è pure precisata la preferenza per una fonte anziché un'altra), credenze e leggende fantasiose e fantastiche: elementi tutti tenuti amalgamati anche da un preciso intento moralistico che fa criticare la povertà e la corruzione dei tempi attuali e, contemporaneamente, preferire e rimpiangere quelli precedenti. Alle fonti classiche si aggitjngono - al di là dei consueti repertori della cultura medievale - opere recenti, sia di carattere generale (come quelle di Dante e del Petrarca), sia più specifiche, come ad esempio Il Milione di Marco Polo e i ricordi di Odorico da Pordenone (altro viaggiatore di poco anteriore a D.), oppure la Cronica di Giovanni Villani: e non solo quando il racconto ha a che fare con vicende direttamente riguardanti l'azione di Firenze o di Pisa, ma nelle più varie situazioni (quali la guerra del Vespro). Particolare significato ha poi, come fonte, il De montibus del Boccaccio, ad iniziare dalla compresenza, anche nell'opera del Boccaccio, di tradizioni culturali contrastanti e dall'accettazione indiscriminata dell'elemento fantastico e meraviglioso: e proprio questo fornisce un amplissimo substrato di notizie e di informazioni di cui D. fa continuamente uso, utilizzando anche, con frequenza, passi diversi del Genealogia deorum gentilium.
D. lasciò pure una non indifferente produzione poetica, sempre in latino, per lo più raccolta nei manoscritti fiorentini go inf. 13 della Bibl. Laurenziana e II.IV. 109 della Bibl. naz. Si tratta di composizioni eterogenee e frammentarie, nate per lo più sulla base di situazioni contingenti o di riflessioni soprattutto sul ruolo e sul significato della poesia, argomento che ritorna di frequente nella produzione letteraria di Domenico. Nel complesso la sua è una poesia in linea con il gusto dei tempi, che trova ampi materiali da utilizzare nella produzione classica, non sempre omogeneamente ripresi e amalgamati. Ma è indubbia una certa capacità e modernità di comporre in D., che appare anzi particolarmente evidente in un gruppo di sei poesie che si possono genericamente definire bucoliche e chiamare egloghe, secondo l'appellativo che viene esplicitamente dato da D. ad una di esse, la Eryplois. Proprio queste poesie si inseriscono nel rinnovamento di quel genere. letterario operato dal Petrarca e poi ripreso dal Boccaccio e da Pietro da Moglio, quindi ancora dal Salutati e, insieme a D., da un gruppo di minori quali Iacopo Allegretti, Giovanni Boni, Tommaso Rigo.
Le poesie di D., in tutto poco meno di quaranta, si distinguono in egloghe, in epistole metriche, in epigrammi e in epitaffi, mentre varie altre composizioni, fra cui una diecina di egloghe, sarebbero andate perdute, stando alle indicazioni fornite prima da F. Villani e più tardi da M. Poccianti.
Nel gruppo delle sei egloghe si possono distinguere due sottogruppi secondo il motivo di fondo: uno politico e uno letterario. Nel motivo politico rientrano un monologo su Firenze, Iam summum Superis lacrimis imponere finem; un'invettiva contro Pisa, Sitibi continuo gremio non, Pisa, secundo; un appello perché Roma torni ad essere la sede del Papato, Nuntia venturi contrari fama per orbem (forse composto in occasione dell'andata ad Avignone nel 1376); un'egloga sulla guerra di Gregorio XI contro Firenze intitolata ErypIois (il titolo di origine greca è spiegato da D. nella lettera prefatoria "ab ery quod 'lis' et plois quod est 'plica' quasi 'lis plicata et confusa'"). Queste poesie d'ispirazione politica contengono - pur nei limiti strutturali che le caratterizzano - spunti di forte tensione morale e spirituale che si concretizzano soprattutto da un lato nel riconoscimento del ruolo che Firenze ha nei confronti del mondo in genere e quindi le sofferenze che il mantenimento di questo ruolo ha provocato, e dall'altro nella convinzione che non sia più rinviabile il ritorno dei papi da Avignone a Roma, e nell'aspirazione che l'Italia riacquisti l'antico splendore. L'altro sottogruppo, quello d'ispirazione letteraria, è costituito da due poesie in distici elegiaci: la prima, Consolatio per Dampnem ad Phillidem (la più ampia di tutte le composizioni poetiche di D., formata da 424 versi), è una risposta alla Conquestio Phillidis del Salutati, così come la seconda, Cancer, è una risposta alla Fabula de vulpe et cancro dello stesso Salutati. Evidente appare subito, rispetto alle precedenti poesie, la diversità di queste ultime, caratterizzate da un tono ludico e piacevole, dove pure non manca (soprattutto nella prima) un consistente apporto della cultura tradizionale imperniata sul misto e sul fantastico.
Le tredici epistole metriche sono diversissime per argomento: in una, rivolta ad un destinatario anonimo, D. tratta della fortuna, tema comunissimo nella letteratura medievale, adducendo un'esemplificazione tradizionale, in un'altra, indirizzata ad un certo Bettino (Ricasoli ?), cerca di consolare il destinatario per la morte di un figlio; in una, mandata al napoletano Landolfo Caiazza, amico di Zanobi da Strada, racconta gli effetti della peste (forse quella del 1383) in Firenze; in una, indirizzata a un frate Domenico dell'Ordine dei predicatori (non meglio individuato, ma nel quale si è voluto vedere Giovanni Dominici anche sulla base di una nota marginale nel manoscritto), festeggia il conseguimento della laurea in teologia da parte dell'amico; in una, scritta a ser Niccolò da Montevarchi. parla delle fatiche, degli agi e della vecchiaia, in due, dedicate a Benedetto da Parigi, rimpiange l'impossibilità di dedicarsi alla poesia perché occupato negli affari pubblici e critica i vizi umani esaltando la nobiltà dell'animo. Tutte le rimanenti epistole affrontano più specificamente come argomento la poesia: così, una, ancora a Benedetto da Parigi, in cui discute sui metri poetici; una al Petrarca nel momento in cui pubblicò l'Africa; una a Francesco Piendibeni da Montepulciano (poi vescovo di Arezzo dal 1414 al 1433) per spingerlo agli studi e alla poesia; una al Salutati per festeggiare il recupero di un manoscritto di Giovenale; due a Zanobi da Strada: nella prima parla in generale delle Muse poetiche, nella seconda, composta in occasione della laurea poetica attribuita all'amico nel 1355, prende lo spunto dal lieto evento per poi rammaricarsi della decadenza morale di Firenze.
Gli epigrammi sono tredici. Alcuni sono dedicati ai maggiori poeti fiorentini: Claudiano (com'è noto ritenuto nativo di Firenze), Dante, Petrarca, Boccaccio, Zanobi da Strada, Salutati. Queste composizioni furono anche trascritte presso la sede dell'arte dei giudici e notai sotto i rispettivi ritratti dei dedicatari: così non solo servivano a celebrare la gloria di quei grandi fiorentini, ma anche, di riflesso, la fama della città che li aveva generati. Altri epigrammi sono frutto di riflessioni, rapide ed incisive, ma occasionali: uno è rivolto, in tono scherzoso, al Salutati in occasione della nascita di due gemelli. Entro il gruppo degli epigrammi lo jensen (editore delle poesie latine di D.) ha inserito pure la sintesi, in 18 esametri, del boccacciano Genealogia deorum gentilium, che è stata tramandata anche da codici contenenti l'opera del Boccaccio e che fu pubblicata (in 17 versi) anche nella prima edizione della Genealogia apparsa a Venezia nel 1472 per le cure di Vindelino da Spira.
Tre, infine, sono gli epitaffi. che D. scrisse rispettivamente in occasione della morte di una donna di nome Giulia, di quella del generale dei camaldolesi Girolamo da Uzzano (1390) e di quella del dottore in leggi Nicola Lapi.
Di D. si hanno pure, in prosa latina, due epistole, tramandate nel già ricordato manoscritto ILIV. 109 della Bibl. naz. di Firenze. Con una di queste epistole, Reverendissime in Christo pater et domine, D. accompagna l'invio dell'egloga Eryplois ad un prelato non identificabile (forse il cardinale Iacopo Orsini); con l'altra, His diebus, amice, quandam epistolam tuam vidi, rivolta al cancelliere bolognese Giuliano Zonarini, entra con lui in polemica sulla nobiltà e l'ufficio della poesia, secondo schemi e moduli tradizionali dopo le dispute sulla poesia avviate da Albertino Mussato e dal Petrarca e riprese, più specificamente, dal Boccaccio e dal Salutati: lo stesso Salutati ricorda questa polemica di D. in una lettera allo stesso Zonarini del 5 maggio 1379, in cui si rammaricava degli aspri toni che la contesa aveva assunto. La missiva di D. - databile fra la fine del 1378 e i primi mesi del 1379 - si apre dapprima con una risposta contraddittoria alle tesi dello Zonarini, che in una lettera al Salutati aveva criticato l'opera di Virgilio e quanti leggevano i suoi testi. Con stringate argomentazioni, desunte in parte da concetti espressi soprattutto dai Padri della Chiesa, D. dimostra, invece, come sia proficuo lo studio degli scritti virgiliani. Il discorso si amplia poi in un'altrettanto efficace difesa dell'uso dell'allegoria e quindi, più in generale, della poesia stessa e dei suoi rapporti con la teologia.
Assai più limitata è la produzione di D. in volgare. In poesia si riduce ad un solo sonetto, tradito da più codici, "Io ti ricordo, caro amico fino", rivolto ad Adriano de' Rossi, che gli rispose - secondo i gusti e le usanze del tempo - col sonetto "Quando dovessi fare alcun cammino". In prosa, invece, la sua produzione è assai più significativa, in quanto D. fu l'autore del volgarizzamento, tramandato da un ridotto numero di codici (tra cui il II-IV. 402 della Bibl. naz. di Firenze di mano del fiorentino Giovanni Pigli), delle Invectivae contra medicum del Petrarca latino, che si vuole ora far conoscere ad una più vasta cerchia di lettori (vanno ricordati anche i volgarizzamenti del De viris illustribus di Donato Albanzani e del De remediis utriusque jortunae di Giovanni da San Miniato), ma anche, più in generale, per l'argomento fondamentale che era alla base dello scritto del Petrarca, e cioè la difesa della poesia: un tema, come si è visto, assai caro a Domenico. La traduzione, col titolo Invettiva contro agli ignoranti medici, fu condotta su un testo latino non sempre corretto, che spesso la condizionò al punto di non renderla corrispondente all'originale del Petrarca. Ma il valore del volgarizzamento di D. è indubbio, anche perché si tratta di un testo capitale della cultura petrarchesca, nel quale, con una forte tensione spirituale, erano esposti motivi - quali l'affermazione del ruolo essenziale ed insostituibile della poesia di fronte alle altre occupazioni dello spirito, la decisa differenziazione fra attività tecniche e meccaniche e attività speculative, la condanna del formalistico sapere dei dialettici e degli scolastici, inconsistente e presuntuoso -, da cui dipendono una nuova concezione e impostazione della cultura, i cui termini saranno poi vigorosamente ripresi e sviluppati dagli umanisti successivi. Non è quindi senza significato che D. - che pure non era riuscito a sottrarsi a suggestioni culturali ancora tipicamente medievali - traducesse proprio quest'opera del Petrarca: e la traducesse dopo la grande lezione e testimonianza che, su quegli stessi argomenti trattati dal Petrarca, erano venute prima dal Boccaccio e poi dal Salutati, i due modelli cui guardavano D. e la sua generazione.
Le opere di D. sono state pubblicate soprattutto negli ultimi anni: De insulis et earum proprietatibus, a cura di C. Pecoraro. Palermo 1955 (da integrare però con la recensione di P. G. Ricci, in Lettere italiane, VIII [1956], pp. 332-336); The Latin poetry, a cura di R. C. Jensen, München 1973 (che ripubblica anche quanto già edito da L. Melius, Ambrosii Traversarii epistolae, Florentiae 1759, pp. 230, 266, 327-330, e da F. Novati, Per una novella del Sacchetti, in Rassegna bibliogr. della letter. ital., XIII [1905], pp. 76 ss.); S. P. Marrone, D. Silvestri's defense of poetry, in Rinascimento, s. 2, XIII (1973), pp. 115 ss.; F. Petrarca, Invectivae contra medicum, col volgarizzamento di D., a cura di P. C. Ricci, Roma 1959 (rist. anast. con appendice di aggiornamento a cura di B. Martinelli, Roma 1978).
Fonti e Bibl.: La documentazione sulle molteplici vicende della vita di D. è reperibile in fondi diversi dell'Arch. di Stato di Firenze, quali Arte, dei giudici e notai, Catasto, Notarile antecosìmiano, Prestanze, Tratte, Diplomatico, Provvisioni a Priorista di Arezzo, Manoscritti: ma non è possibile indicarne tutte le rispettive, numerose segnature, per altro in buona parte segnalate da P. G. Ricci, Per una monografia su D. Silvestri, in Annali della Scuola norm. sup. di Pisa, classe lett. e fil., s. 2, XIX (1950), pp. 13-24. Cfr. inoltre: F. Villani, Liber de civitatis Florentiae famosis civibus, a cura di P. Galletti, Firenze 1847, p. 20; Statuti dell'Università e Studio fiorentino a cura di A. Gherardi, Firenze 1881, p. 386; C. Salutati, Epistolario, a cura di F. Novati, Roma 1891-1911, I, pp. 42, 219, 321 s., 324 s.; II, pp. 11, 132; IV, pp. 169, 391-560; D. Velluti, Cronica domestica, a cura di G. Volpi-I. Del Lungo, Firenze 1914, p. 32; G. Boccaccio, Opere latine minori, a cura di A.F. Massera, Bari 1929, p. 265; M. Poccianti, Catalogus scriptorum Florentinorum, Florentiae 1589, p. 48; G. Negri, Scrittori fiorentini, Ferrara 1721, p. 155; L. Mehus, Pref. a A. Traversarii epistolae, Cit., pp. 192, 230, 266, 289, 326-330; A. Gherardi, La guerra dei Fiorentini con papa Gregorio XI, in Arch. stor. ital., s. 3, VIII (1868), I, p. 269; Diario anonimo, a cura di A. Gherardi, Firenze 1876, pp. 306, 327, 430; G. Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, I, Firenze 1876, p. 272; G. Müller, Documenti degli archivi toscani, Firenze 1879, p. 140; A. Hortis, Studi sulle opere latine del Boccaccio, Trieste 1879, pp. 770, 912; F. Novati, recens. a A. Goldmann, Drei italienische Handschriftkataloge, in Giorn. stor. della letter. ital., X (1887), p. 417; L. Frati, Indice delle carte Bilancioni, I, Bologna 1893, p. 620; O. Hecker, Boccaccio-Funde, Braunschweig 1904, p. 28; D. Marzi, La Cancelleria della Repubblica fiorentina, Rocca San Casciano 1910, pp. 491 ss., 495; E. Levi, Adriano de' Rossi, in Giorn. stor. della letter. ital., LV (1910), pp. 213-216; E. H. Wilkins, The genealogy of the editions of the "Genealogia Deorum", in Modern Philology, XII (1919), pp. 34 ss.; L. Di Francia, La novellistica, Milano 1924, p. 279; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1933, p. 55; R. Weiss, Note per una monografia su D. Silvestri, in Annali d. Scuola norm. sup. di Pisa, classe lett. e fil., s. 2, XIX (1950), pp. 198-201; P. G. Ricci, Un nuovo manoscritto petrarchesco di D. Silvestri, in Rinascimento, VIII (1957), pp. 301 s.; M. Pastore Stocchi, Il "De Canaria" boccaccesco e un "locus deperditus" nel "De insulis" di D. Silvestri, in Rinascimento, X (1959), pp. 143-156; G. Billanovich, Dall'antica Ravenna alle biblioteche umanistiche, in Annuario d. Univ. catt. d. Sacro Cuore, XXV (1959), p. 104; G. Billanovich, Il Petrarca e i retori latini minori, in Italia medioevale e umanistica, V (1962), p. 120; Id., Giovanni del Virgilio, Pietro da Moglio, Francesco da Fiano, ibid., VI (1963), p. 220; G. Padoan, Petrarca, Boccaccio e la scoperta delle Canarie, ibid., VII (1964), pp. 265, 268 (poi in Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l'Arno, Firenze 1978, pp. 280, 282); A. Mazza, L'inventario della "parva libraria" di S. Spirito e la biblioteca del Boccaccio, ibid., IX (1966), pp. 27 s., 60, 71; G. Gorni, Tre schede per l'Alberti volgare, in Interpres, I (1978), p. 47; M. D. Reeve, The textual tradition of Caipurnius and Nemesiasus, in The Classical Quarterly, XXVIII (1978), p, 233; A. Tissoni Benvenuti, Uno sconosciuto testimone delle egloghe di Caipurnio e di Nemesiano, in Italia medioevale e umanistica, XXIII (1980), p . 381; G. Frasso, Cultura e scritti di G. Squarzafico, ibid., p. 246; G. Velli, Sul linguaggio letterari o di Giovanni del Virgilio, ibid., XXIV (1981), pp. 145, 155; G. Martellotti, Osservazioni sul carattere orale del primo insegnamento del greco nell'Italia umanistica, in Dante e Boccaccio e altri scrittori dall'Umanesimo al Rinascimento, Firenze 1983, pp. 241-244; P. Viti, Inotai e la cultura fiorentina nei secoli XIII-XVI, in Il notaio nella civiltà fiorentina nei secc. XIII-XVI, Firenze 1984, pp. 127 s.; Il notariato nella civiltà italiana, Milano 1961, pp. 231 s.; Gesamtkatolog der Wiegendrucke, IV, nn. 4476-4477, 4480; M. E. Cosenza, Biographical and bibliographical dictionary of the Italian humanists, IV, pp. 3274 s.; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 79, 175, 365.