Domenico di Francesco (detto Domenico di Michelino, dal nome del suo maestro)
Solamente nel 1840 fu rinvenuto il contratto intercorso nel 1465 fra gli operai del duomo fiorentino e Domenico di Michelino per l'esecuzione di una pittura celebrante D. nel secondo centenario della nascita. Fino al secolo scorso questa pittura veniva attribuita all'Orcagna e precisamente a Mariotto, poiché Andrea e Bernardo erano morti da tempo, il primo nel 1368 e il secondo poco dopo.
L'opera andava a sostituire sul muro settentrionale di Santa Maria del Fiore una precedente pittura, anch'essa raffigurante D., ordinata probabilmente fra il 1413 e il 1430, da un tal Frate Antonio di Arezzo (che nel 1428 e poi nel 1432 tenne letture dantesche nel duomo), non è dato sapere a qual pittore, per incitare i Fiorentini a ricondurre in Firenze le ossa di D. in una degna sepoltura. Di questa precedente pittura non si hanno più notizie; la più recente, del Guasti (1865),attesta semplicemente che essa esisteva ancora nel sec. XVIII.
Anche di Domenico sappiamo poco. Il Vasari lo dice un discepolo di Fra Angelico e gli attribuisce " in Sant'Apollinare di Firenze... la tavola all'altare di S. Zanobi e altre molte dipinture "; per le quali peraltro si possono tentare solo attribuzioni che si muovono nell'ambito di una cerchia comprendente Fra Angelico, Masolino, Filippo Lippi.
Il Dante dunque è la sola opera sicuramente di Domenico. Basandoci sulle parole del contratto sembra di poter dedurre che egli seguì, nel dipingere la figura di D., il modello fornito da Alessio Baldovinetti che fu anche mallevadore e giudice poi della sua opera.. Ma dalla descrizione del Dante dipinto dall'anonimo pittore, risulta che alcuni elementi passarono nel dipinto di Domenico: il poeta ritratto in una via, una porta di Firenze, il duomo e le iscrizioni. Domenico aveva a sua disposizione dunque, a quanto sappiamo, l'affresco di Giotto, il gruppo di Taddeo Gaddi a Santa Croce, l'affresco di Orcagna, la pittura anonima a Santa Maria del Fiore, naturalmente il modello di Baldovinetti, il ritratto di Andrea del Castagno e inoltre la descrizione del Boccaccio.
Pur tenendo conto dei ritocchi subiti nella mano e nel viso (l'intervento in questa parte venne attribuito al Bronzino), il Dante non sembra uscire dall'iconografia tradizionale che fa capo a Taddeo Gaddi, del cui affresco distrutto da Vasari abbiamo fortunatamente ricordo nella miniatura del codice Palatino 320 (Firenze, Bibl. Laurenziana). Un altro intervento fu operato intorno al 1840 per mutare i tradizionali colori del mantello dantesco, rosso, bianco e verde, ritenuti pericolosi dal governo granducale, in rosso, bianco e bleu.
L'atteggiamento di D., con un libro aperto in mano, sembra riecheggiare quello convenzionale dei santi. Dalla sua Commedia si irradia luce. Tutto ciò ci richiama al clima di grande venerazione per il poeta in cui nacque l'opera. Il modulo dell'immagine, seguendo una consuetudine affermatasi nella prospettiva del Tardo Impero, è commisurato alla dignità morale del soggetto della rappresentazione. Il pittore vuole inoltre sottolineare la figura dantesca, ritratta al di là della porta chiusa di Firenze, volta verso l'amata e odiata città, mentre nello stesso tempo addita i tormenti dell'Inferno. Questa situazione iconografica suggerisce un D. più malinconico che fiero.
È molto interessante la Firenze del dipinto, poiché non è quella conosciuta da D. alla fine del XIII secolo bensì è la città che Domenico poteva vedere nel 1465. Ma le mura e la Porta di Balla, che erano state dipinte anche dall'anonimo pittore precedente, poste a sottolineare l'esilio di D. ritratto al di fuori di esse, sono quelle che il poeta conosceva, e cioè la seconda cerchia iniziata nel 1172, interrotta e rinforzata da torri. I monumenti che si scorgono nel panorama di Firenze, pur se iniziati quando D. era ancora a Firenze, tuttavia furono terminati in alcuni casi molto più tardi della sua morte.
Domenico volle condensare i monumenti più importanti della Firenze a lui coeva e soprattutto quelli in qualche modo in relazione col poeta. Sono chiaramente riconoscibili il Bargello, la Badia ex chiesa di Sant'Apollinare, il duomo che si evidenzia fra gli altri edifici (ma dobbiamo ricordare che proprio per il duomo Domenico fece quest'opera). Ha dato da pensare il fatto che il pittore dipinse sulla lanterna del duomo anche la croce e la palla che ancora non esistevano. L'ipotesi più probabile è che egli poté averle copiate dal modello ligneo della cupola che il Brunelleschi aveva fatto fin dal 1419. Alla sinistra e alla destra della cupola si estendono alte mura probabilmente appartenenti a epoche intermedie fra la seconda e terza cerchia. La torre di Palazzo Vecchio, chiaramente riconoscibile, non era stata certamente ancora terminata nel 1302. Tra la torre di Palazzo Vecchio e il campanile di Giotto si trova una torricina non sicuramente identificabile, forse quella della chiesa di San Piero Scheraggio.
Il campanile giottesco, all'estrema destra del dipinto, è un altro compromesso di Domenico, poiché fu iniziato nel 1334, ben trentadue anni dopo la partenza di D. da Firenze, e terminato dal Talenti nel 1387. A sinistra, a bilanciare il panorama di Firenze, troviamo l'entrata dell'Inferno, e, sulla porta, inciso il famoso verso di If III 9 Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate.
La raffigurazione dell'Inferno è estremamente condensata: aspre rocce rappresentanti i gironi, cinque diavoli, un numero ristretto di dannati, e Lucifero. L'iconografia dei diavoli è quella tradizionale: ali di pipistrello, corna, zanne, code, orecchie spropositate. Ai quattro diavoli che guidano i dannati Domenico, oltre alle ferze dantesche, aggiunse due altri elementi: torce e serpenti. Il quinto diavolo ha invece le ali di pipistrello decorate dagli occhi delle penne del pavone, simbolo d'immortalità; inoltre sorregge una bianca bandiera tipicamente medievale. È probabile quindi che abbia voluto ritrarre gl'ignavi. Infatti si scorgono sui corpi dei dannati vespe e macchie di sangue per le ferite da esse procurate, in accordo con If III 64-66. Sarebbe vano tentare d'identificare fra questi spiriti quello di Celestino V: D. stesso non ne nomina alcuno; inoltre ci si aspetterebbe la medesima caratterizzazione che Domenico dà ad Alessandro V nel Purgatorio, cioè mantello di porpora e mitria d'oro. Il Lucifero si differenzia dalla descrizione dantesca rientrando nella tradizionale iconografia di arcidiavolo. Invece di esser sprofondato nella ghiaccia della Giudecca è al centro di fiamme scarlatte; altre ne emette dall'unica bocca invece di masticare i peccatori con tre bocche, e non ha sei ali di pipistrello.
Raffigurando il Purgatorio, Domenico accenna a una distesa d'acqua sulla quale affiorano canne e cespugli. Successivamente esclude praticamente dalla raffigurazione i primi otto canti. Nella prima balza, al di fuori della porta, sei spiriti appartengono alla valletta dei principi, la cui natura fiorita è suggerita da alcuni sempreverdi. L'angelo portinaio rivolge la spada, a toccare la fronte di uno spirito inginocchiato; secondo D. questo avvenne solo a lui stesso, mentre lo spirito dipinto da Domenico è una donna dalle bionde trecce.
Al di là della porta sono raffigurati i superbi, gl'invidiosi, gl'iracondi, gli accidiosi, ma in essi è impossibile identificare alcuno spirito. Soltanto nella quinta balza riconosciamo fra gli spiriti degli avari e dei prodighi il papa Adriano V. Nel sesto cerchio Domenico cambia la forma dell'albero dantesco e di nuovo gli spiriti non sono identificabili. Il cerchio dei lussuriosi è indicato simbolicamente da rosse fiamme orizzontali; subito Domenico passa alla raffigurazione del Paradiso terrestre nel quale manca la figura di Beatrice che egli non fece mai apparire, come pure D. e Virgilio.
Domenico raffigurò il Paradiso tracciando nel cielo della sua pittura strisce concentriche di un bleu man mano più fondo e segnando su ognuna il pianeta dal quale il cielo trae il nome. Per ogni pianeta dà poi il simbolo astronomico. Nel primo cielo la fase della luna da lui dipinta non corrisponde a quella descritta da D. e inoltre non sono raffigurate le macchie lunari.
Successivamente troviamo puntualmente raffigurati i cieli di Mercurio, di Venere, di Marte, mentre è tralasciato quello del Sole, e, senza il cielo di Giove, si passa a quello di Saturno. Si ha il cielo delle Stelle fisse ma di nuovo mancano il Cristallino e l'Empireo.
Ai piedi del dipinto, tracciata in due righe, vi è un'iscrizione laudatoria, della quale non conosciamo l'autore. Vennero avanzate attribuzioni a Coluccio Salutati, Bartolomeo Scala e Poliziano, prive però di una fondata documentazione: infatti non si è trovata trascrizione, o comunque un ricordo di questi versi latini in alcun codice fiorentino.
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