DOMENICO da Venezia
Pittore. Lavorò soprattutto a Firenze, e vi morì nel 1461, quattro anni dopo Andrea del Castagno (v.) che, per errore del Vasari, si novellò averlo assassinato. Si presenta la prima volta (1438) in una lettera da Perugia a Piero de' Medici per chiedergli lavoro, vantandosi atto a "cose meravigliose" anche di fronte all'Angelico e a Filippo Lippi: e per certo allora era già stato a Firenze. Quivi, dal 1439 al 1445, dipinse parte del coro della chiesa dello Spedale di S. Maria Nuova (S. Egidio) avendo con sé l'esordiente Piero della Francesca e l'arretrato Bicci di Lorenzo: ma quei suoi affreschi, celebrati dal Vasari, sono scomparsi come altre sue opere. Il dipinto dove finora egli apparisce in modi più primitivi è l'Adorazione dei Magi (Berlino, Kaiser-Friedrich Museum), ora bene restituitogli: ha reminiscenze del Pisanello a far intravedere l'iniziazione già remota di D. nell'Italia settentrionale, ma soverchiate dai caratteri schiettamente fiorentini della prospettiva e del paesaggio, della libera composizione entro il tondo, dello studio della luce. La tavola già in S. Lucia de' Magnoli a Firenze, firmata, rivela intiera la forte individualid di D. in un periodo più maturo. La sua parte principale (Firenze, Uffizî), tra quanti dipinti ci restano di pittori fiorentini immediatamente posteriori a Masaccio, si distingue per un senso particolare della luce e della luminosità nei colori. Di questo l'iniziatore si può riconoscere nello stesso Masaccio, chi riguardi il S. Paolo (Pisa, Museo civico) così avvolto e plasmato di luce, ma le sue qualità non si ritrovano né in Paolo Uccello né in Andrea del Castagno che derivandolo da Masaccio, lo volsero, ciascuno, a diverso modo di osservazione e a diversi effetti nell'arte. L'aperta luce del sole riempie del suo raggio obliquo e di riflessi il chiostro dai chiari marmi; penetra le figure e tutte le cose: e la materia dei corpi sembra attenuarsi in quel chiarore, di cui s'imbevono i colori, lievi anch'essi senza densità di ombre nella luminosità diffusa, ripercossa per tutto. Non vi è altro dipinto nostro prima di Piero della Francesca dove l'aperta luce sia tanto sottilmente goduta: ma Piero, che per certo fu iniziato da D., trovò altri rapporti tra colore e forma compatta e salda. Qui si direbbe che nell'armoniosa varietà dei toni e dei valori, moltiplicati e resi più vibrati ad arte per accostamenti e per contrasti, voglia mostrarsi la recondita natura veneziana del pittore. Pure, entro l'ariosa luminosità, da cui è velata, si ritrova sodezza di forma (la Madonna può richiamarci il fare tornito di Masaccio) e, concitato così da prevenire i pittori dell'ultima generazione del Quattrocento a Firenze, un movimento psichico squisitamente fiorentino, nella composizione come in ciascuna figura: nell'astratta S. Lucia, nel torvo Precursore e nell'esausto S. Francesco. Le parti della predella, ora divise in diverse raccolte (a Berlino, a Cambridge, a New York, a Roma) esprimono altrettanto ma in modo vario le qualità del pittore: e se il S. Giovanni del deserto (New York, Raccolta C. W. Hamilton) nelle risonanze gotiche può rammentare lo stesso Iacopo Bellini, l'Annunciazione (Cambridge, Fitzwilliam Museum) e il Martirio di S. Lucia (Berlino, Kaiser-Friedrich-Museum) sono limpidamente fiorentini.
L'affresco firmato da D., già in un tabernacolo di Via de' Cerretani a Firenze, ora frammentario a Londra (Nat. Gallery: Madonna in trono, molto offuscata; due Santi) è di maniera più larga ma non diversa dalla tavola di S. Lucia che il Vasari pur afferma ultima opera di D. E di tempo anche più tardo sembra quello - S. Giovanni Battista e S. Francesco - in S. Croce a Firenze, troppo annerito per goderne la fine chiarità e il paesaggio, visto dall'alto, che a stento s'intravedono, ma così energico nel disegno, così violento e quasi donatellesco negli affetti che il Vasari lo credette di Andrea del Castagno, del quale non ha la circoscritta consistenza di contorni, e il Cavalcaselle lo pensò del Pollaiolo. Una Madonna esposta da J. Böhler alla Mostra italiana di Londra (1930) risponde pienamente a quella degli Uffizî e rende probabile che sia di D. anche la Madonna della raccolta Berenson (Settignano) assegnata al Baldovinetti.
Altre attribuzioni a D. non reggono, sia perché senza alcuna prova di stile (Madonna nel museo del Louvre), sia perché non tengono conto delle evidenti diversità di fattura, come per il gruppo di alcuni profili muliebri (Berlino, K.-F.-Museum; Firenze, Uffizî; Milano, Museo Poldi Pezzoli) più giustamente creduti del Pollaiolo, sul quale per certo ebbe influenza l'arte di D. Questi, secondo il Vasari, praticò il dipingere a olio; ma finora ciò non è certo: e l'originalità del maestro consiste, non in particolari procedimenti tecnici, ma nelle sue stesse virtù visive che gli diedero di temperare, in quel suo modo, colore e forma esaltando la luce.
Bibl.: G. Milanesi, in G. Vasari, Le Vite, II, Firenze 1906, pp. 667-689; Cavalcaselle e Crowe, Storia della pittura italiana, V, Firenze 1892, pp. 118-134; W. Bode, in Jahrb. D. preuss. Kunstsamml., 1883, pp. 89 segg. e 1897, p. 187 segg.; A. Schmarsow, in Rep. f. Kunstw., 1893, p. 159 segg., e in L'Arte, 1912, pp. 9-20; A. chiappelli, Arte del Rinascimento, Roma 1925, p. 137 segg.; B. Berenson, The Study and Criticism in Italian Art, II, Londra 1910, p. 31 segg.; id., in Dedalo, V (1924-25), p. 642; A. Venturi, in L'Arte, XXVIII (1925), pp. 28-30; R. Longhi, in L'Arte, XXVIII (1925), p. 31 segg.; R. v. Marle, The Developement of the Italian Schools of Painting, X, L'Aia 1928, pp. 308-334; R. Fry, in The Burl. Mag., LVI (1930), pp 83, 130; W. Constable, in Gaz. Des beaux arts, I (1930), pp. 287-288.