DOMENICO da Venezia (Domenego de Dona di Bethi)
Nato intorno al 1520-25 (Concina, 1975), fu ceramista e decoratore di maioliche attivo a Venezia tra il quinto ed il settimo decennio del sec. XVI, considerato dalla critica del tardo Ottocento una figura di primissimo piano. Importanti documenti, resi noti dalla Alverà Bortolotto (1988), attestano che D., variamente citato come de Dona (Donato) di Bethi (de Bethi o di Beti), già nel 1546 era sposato con Catharina, figlia di Iacomo da Pesaro, capo di una notevole officina ceramica veneziana. È probabile che presso tale bottega D. abbia condotto le sue prime esperienze. Ciò del resto aiuta a spiegare come mai le sue opere, firmate e datate lungo un arco di tempo alquanto breve, tra il 1562 ed il 1568, talvolta specifichino l'ubicazione della sua officina nei pressi di S. Polo.
A questa conclusione si affianca il tentativo di definizione cronologica già operato dal Concina (1975) sulla base della valutazione di un testamento pubblicato dal Cecchetti (1887). Nell'atto, datato 22 dic. 1547, un oscuro pittore veneziano, tale Zuan Maria fu Giovanbattista della Giudecca, dispone che i propri beni (quadri e masserizie) vadano ugualmente divisi tra "jacopo depentor dicto Foller" e "Domenego depentor over bochaler". Identificandolo con D., il Concina sottolinea come la doppia qualifica di pittore e maiolicaro possa far presupporre che il maestro alla data 1547 fosse attivo almeno da qualche anno e di conseguenza la data di nascita possa farsi risalire intorno al 1520-25.
Altri dati documentari sono stati raccolti dalla Alverà Bortolotto (1981), la quale ha ritrovato l'atto di nascita di "Bernardin Bartolamio", figlio di "ser Domenego bocheler sta in calle della Madonna", battezzato presso la parrocchia di S. Margherita il 5 marzo del 1563. Tra il 1565 ed il 1568 D. è citato anche nei registri delle chiese di S. Barnaba e S. Vidal nelle vesti di padrino di battesimo.
La produzione matura di D. appare caratterizzata dall'abbandono pressoché totale dell'uso del disegno a favore, invece, di brillanti contrasti cromatici ottenuti attraverso una sapiente ombreggiatura che dà corpo alle forme. Nella sua tavolozza prevalgono il giallo nelle sue diverse gradazioni, dal cupo ocra al paglierino, il verde e l'azzurro intenso. Perfettamente coerente con la tradizione pittorica veneziana, D. concepisce il paesaggio come completamento alle figure, che risultano quasi sempre immerse nell'ambiente senza soluzione di continuità. Frequenti sono le decorazioni nel verso, accompagnate da lunghe iscrizioni relative al tema dell'episodio narrato, in qualche caso dalla data, dalla firma e dall'indirizzo della bottega.Secondo l'Alverà Bortolotto (1981), la prima maniera trova le sue radici nell'ornato tradizionale a trofei, che solo in seguito lascia spazio ad elementi fioreali più personali e all'istoriato vero e proprio: a D. attribuisce un piccolo piatto (Londra, Victoria and Albert Museum), istoriato nel cavetto con un amorino, dalla tesa decorata a trofei policromi e recante in un volume aperto la data 1557. Tale riferimento appare del tutto convincente se si confronta la più antica opera firmata e datata: un vaso a palla conservato al Museo nazionale di Messina, ritenuto dal Liverani (1962) un prezioso documento per stabilire l'origine veneziana dell'ornato sulla fascia della spalla. Presso lo Herzog Anton Ulrich-Museurn di Brunswick sono custoditi alcuni tra i pezzi autografi di maggior rilievo.
Raffigurano rispettivamente Mosè davanti al faraone e Miriamfesteggia l'annegamento delfaraone i cavetti di due grandi piatti dalla tesa piana istoriata con le allegorie delle stagioni alternate a scene mitologiche. Entrambi (cat. 737 e 738) sono firmati e datati 1568 e recano l'ubicazione della bottega "al ponteselo del tajapietra p. andar a San Polo" e "al ponteselo p. andar a San Polo".
Un analogo impianto presenta l'esemplare istoriato con il Passaggio del Mar Rosso e le Storie di Giuseppe nei medaglioni, già nella collezione di Galeazzo Cora, recentemente donata al Museo internazionale delle ceramiche di Faenza. Anche tale opera, commentata dallo stesso Cora (1953), che ricorda un quarto piatto della serie conservato al Kunstgewerbermuseum di Berlino (inv. n. 1886) andato forse successivamente disperso, reca un indirizzo analogo e la data 1568. In questi casi, nonostante manchi il nome, non possono esserci dubbi che si tratti di opere autografe. L'iconologia dei piatti, stilisticamente vicini all'istoriato urbinate ma già in qualche modo influenzati dal compendiario faentino, è stata riferita (catal. 1985) alle rispettive xilografie edite a Lione nel 1564, nella serie delle Figure della Bibbia illustrate da stanze tuscane da Gabriele Simeoni.
Ancora nel Museo di Brunswick è un piatto (cat. 800) completamente istoriato con la Scena di Cristo che appare agli apostoli e li salva da una tempesta che li ha colpiti mentre erano in mare; reca nel verso la scritta "io Domenego da Venecia feci".
Sebbene abbastanza simile per stile e tavolozza, il piatto (cat. 840) raffigurante Orazio Coclite a cavallo che attraversa un ponte difendendosi dagli assalti dei guerrieri, per la presenza della scritta "Domenego Becher feci", invece, ha fatto avanzare dei dubbi e sospettare l'esistenza di un altro ceramista a nome Domenico. Al proposito l'Alverà Bortolotto (1981) suggerisce che "Becher" debba considerarsi una forma abbreviata di bochaler e che quindi anche quest'opera debba riferirsi allo stesso maestro.
Certamente autografò, invece, come attesta la scritta "Domenego da venecia fece / zenner / 1568", è un grande albarello decorato con trofei e racemi su fondo azzurro e due medaglioni con Venere e Cupido ed un "giovane che offre il cuore all'amata" (Francoforte, Museum für Kunsthandwerk, cat. 1238).
Tra le numerose opere attribuite a D. rientra una serie di piatti istoriati con la scena del Suicidio di Lucrezia, ripresa da una stampa di Georg Pencz, seguace di Dürer (Venezia, Museo Correr, cl. IV n. 133; Milano, già Raccolta Schubert; Brunswick, Herzog Anton UlrichMuseum, cat. 773).
Lo stesso tema decora un vaso a palla (raccolta privata) riferitogli dal Mallè (1974), il quale avverte che se si accettano le attribuzioni di opere non firmate né documentate si nota in D. "una bipolarità e a volte un certo ibridismo" e riconosce la produzione migliore in quella più vicina al celebre piatto a fondo berrettino con mascherone coronato da un cesto di frutta (Londra, Victoria and Albert Museum), la cui attribuzione tradizionale, tuttavia, è stata respinta dalla Alverà Bortolotto (1981). Tra le proposte del Mallè ricordiamo il piatto istoriato con Abbondanza e Cupido (Londra, Victoria and Albert), databile tra il 1550 ed il 1560, ed alcuni piattarelli con trofei militari. Tra gli altri piatti del museo londinese (cat. 972, 973, 974) attribuiti a D. dal Rackharn (1933) quelli illustrati con Teseo e Piritoo, Dafne mutata in lauro e Due senatori veneziani vengono accettati con qualche riserva dal Mallè (1974), che nota nei primi due una contaminazione dai moduli di Casteldurante e Faenza, mentre l'Alverà Bortolotto (1981) li considera autografi sottolineando come le scene siano tutte tratte da incisioni edite a Venezia. La studiosa concorda inoltre nel riferimento tradizionale al maestro di un grande boccale istoriato con Peleo e Teti e lo stemma Renier (Venezia, Museo Correr, cl. IV n. 67), opera sulla quale il Mallè esprime parere negativo.
Alla produzione più tarda di D. vengono comunemente riferiti grandi albarelli o vasi a palla nella tipica decorazione a fiori e foglie su fondo blu e medaglioni con busti o profili spesso di santi o profeti. Per questa tipologia può ammettersi una qualche parentela con le opere certe, ma trattandosi di manufatti a carattere più commerciale, è preferibile considerarli nel più modesto ambito della bottega, semmai limitando un dubitativo riferimento a D. soltanto ai pezzi di maggior pregio. Si tratta oltretutto di una tipologia che pur nelle molteplici varianti è presente in quantità ingenti in quasi tutte le collezioni pubbliche d'arti decorative italiane ed all'estero: oltre che nel museo di Brunswick (dove ben duecentotrenta pezzi sono attribuiti alla bottega di D.), è ben rappresentata anche nelle raccolte di Stoccarda, Monaco, Vienna, Kassel, Weimar, Berlino, Londra, Parigi, Limoges e Sèvres.
D., secondo un'ipotesi del Concina (1975), che ha consultato i registri dei morti della parrocchia di S. Polo senza trovare l'indicazione del decesso, dovrebbe essere morto tra il 1569 e il 1574, termini determinati dall'assenza di opere firmate e datate posteriori al 1569 e dal fatto che tali registri hanno inizio dal 1575.
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