DOMENICO da Prato
Mancano precise testimonianze sull'anno di nascita, la quale tuttavia dovette avvenire intorno al 1389, come appare dalla dichiarazione catastale autografa prodotta da D. nel 1427, che fornisce altre utili notizie di carattere biografico, relative alla madre, Francesca, di anni 62, ormai quasi cieca e sorda, ad una zia, Antonia, di quaranta anni mezza pazza: con loro abitava in una casa in via S. Maria nel quartiere di S. Spirito. Le stesse notizie vengono ripetute, con gli indispensabili aggiornamenti cronologici, nella successiva dichiarazione catastale del 1430.
Sulla sua vita giovanile e la sua prima formazione culturale non si hanno notizie. È probabile che, dopo i primi studi compiuti a Prato, D. si stabilisse a Firenze, di cui ben presto rimase ammirato e a cui sempre avrebbe pensato con nostalgia. A Firenze dovette frequentare dapprima lo Studio per poi interessarsi con passione a quel finnovamento degli studi che, auspice soprattutto Coluccio Salutati, si andava sempre più affermando fra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento. Cosi D. poté stringere amicizia con personaggi illustri, fra cui Roberto de' Rossi e il notaio Niccolò Tinucci, con i quali avrebbe poi intrattenuto corrispondenze poetiche. Lo dimostra anche il suo primo documento datato che si conosca, e cioè una lettera ad Alessandro Rondinelli, inviata, con struggente melanconia per la lontana Firenze, da Barbialla il 10 ag. 1413: in questa lettera D. ricorda come amici comuni Filippo Brunelleschi e Antonino Pierozzi, il quale ultimo sarebbe divenuto arcivescovo di Firenze.
Probabilmente quello di Barbialla (ora Comune di Montaione) fu il primo dei continui soggiorni fuori Firenze che D. compi nella sua vita: soggiorni e spostamenti dovuti molto probabilmente alla sua professione notarile, di cui rimane cospicua e preziosa testimonianza nei suoi protocolli che dal 1415 giungono fino al 1432. Forse alcuni di questi soggiorni furono determinati anche da non felici vicende e condizioni economiche, o forse da altre ignote ragioni, anche politiche, che lo costringevano a un continuo girovagare lontano dalla desiderata quiete delle "belle contrade" di Firenze.
Fu, così, a lungo a Poggibonsi (paese della Valdelsa che ebbe pure il nome di Poggio Bonizi o Poggio Imperiale), dove si legò in una relazione amorosa, poi non più dimenticata, con una certa Melchionna, che ricorda insistentemente nelle poesie. Quindi nel corso del 1415 e del 1416, come viene testimoniato da atti notarili, si spostò di continuo nel Valdarno: all'Incisa, a Cappiano, a Cetina, a San Cerbone; e quindi a Firenze, e da qui ancora in Val di Pesa fino all'inizio del 1416. Nel maggio di quell'anno rogò un atto a Firenze, nella chiesa di S. Trinita; fra il 1416 e il 1419 si spostò soprattutto nella Val di Nievole: a Montecatini, a Portici, a Buggiano, a Pisa (fra il dicembre 1417 e il febbraio 1418). Poi ritornò a Firenze nel corso del 1419; a questi anni risale un nuovo amore cantato da D., col quale cercò di dimenticare il dolore per Melchionna, non più in vita : Nel 1420 e nel 1421 vagò fra Barga e altri paesi vicini; poi, dopo un nuovo rientro a Firenze (nel febbraio 1421), si trasferi in Val di Chiana (a Palazzolo nell'aprile-luglio 1422). Nel dicembre 1422 sostò nuovamente a Firenze, dove rogò un atto nella sua stessa abitazione, posta in via Larga. Passò nuovamente nel territorio pisano: a Palaia nel gennaio-maggio 1423, e quindi a Evola, a Montaione, a Coiano, a Barbialla, a Ripafratta, dove si fermò dal febbraio al giugno 1424. Da altri atti rogati fra il 1425 e il 1426 (vi è un'interruzione dal giugno 1424 all'aprile 1425) apprendiamo che D. si spostò ancora per la Toscana: prima presso Firenze (Colonnata, Settimello, Sesto), poi in Valdelsa: a San Miniato, a Barberino, dove stette per quasi tutto il 1426, quindi a Bossolo in Val di Pesa, e infine a Vinci e nei paesi circostanti fra il febbraio e l'aprile 1428; nel gennaio 1429 si trovava a Dicomano nel Mugello. Alla fine del 1430 si trasferi a Firenze, dove rimase, continuando la professione notarile, fino al 1432: il suo ultimo atto datato è del 24 giugno di quell'anno, rogato in un paese del Pratomagno.
Non si conoscono né la data esatta né il luogo della sua morte: forse morì prima del 1433 in quanto non compare nella dichiarazione catastale di quell'anno (e poi nella successiva del 1446).
La produzione poetica di D. - conservata soprattutto nei manoscritti fiorentini Laur. XLI,31 e XLI,40 e Magl. II,IV,250 - costituita da canzoni, sonetti, ballate e dal poemetto Ilpome del bel fioretto, pur varia di argomenti e spesso in rapporto ad avvenimenti contemporanei, è dominata dal tema amoroso. Tutta questa produzione poetica è, comunque, scarsa di valori artistici e si basa più che altro su capacità tecniche. Infatti, D. generalmente attinge, con monotona ripetizione e senza originalità, o a elementi della mitologia classica, oppure a motivi e formule già sperimentate con ben maggiore successo dalla tradizione poetica trecentesca, e soprattutto da Dante, Petrarca e Boccaccio. Ispirate al gusto, assai diffuso, di infarcire l'argomento (secondo la consuetudine del giovane Boccaccio) con figure e temi della letteratura classica, le poesie di D. si presentano, nella loro globalità, piene di sfoggi retorici e di richiami eruditi, che spaziano dai personaggi e dai fatti del mito e della storia a quelli della Bibbia. Cosi, ad esempio, i lamenti amorosi di donne abbandonate e non contraccambiate, di amanti ingrati o dolenti nei loro segreti, non sono altro che logore derivazioni retoriche, prive di qualsiasi slancio personale. Pochi sono i momenti che riescono, qua e là, a uscire dalla banale convenzione, come qualche verso della canzone "Mossemi Giove", o del sonetto "Sostengon la mia vita", o comunque quelli in cui l'autore si riferisce a reali e concrete vicende amorose, come in "Come ambo l'emysperii" o "Nel paese d'Alfea"; anche se, pure in questi casi, il suo è un amore manifestato più con le parole e gli artifizi della retorica che con un diretto coinvolgimento dei sentimenti.
La mancanza di un proprio spirito poetico e di una propria fantasia spingono D. a servirsi di schemi scolastici e, soprattutto, della tradizione poetica volgare che faceva capo a Dante e a Petrarca: è da questi autori che egli riprende, con imitazione stereotipata, formule e motivi, senza riuscire a trasfondervi una propria originalità. Cosi Melchionna - la donna amata e rimpianta - appare una copia imperfetta di Beatrice o di Laura, allo stesso modo in cui l'allegoria, magistralmente modellata da Dante e dal Petrarca, sfuma e degenera in quelle poesie di D. che rinnovano la forma della visionetrionfo, come la canzone sulla Fortuna "Surge, nunc surge", o in quelle più strettamente morali, basate sulla fede ("Corta fe' la mia vista"), sulla speranza ("Non sperai altro"), sulla carità ("Quello increato eccelso"), o quelle in cui alla morale si unisce una parvenza di spirito civico, come nella canzone rivolta contro i sodomiti ("0 fiamma eterna"), o in quella contro le donne ("Tempo fu già").
Anche il gruppo di poesie che riecheggiano avvenimenti contemporanei non riesce a sollevarsi al di sopra di banali formule ripetitive. Fra queste composizioni, comunque, si distinguono una canzone in difesa di Gregorio XII ("Dolgomi e pianto") e un sirventese scritto in occasione della sconfitta subita dai Fiorentini nel 1424 a Zagonara da parte dell'esercito di Filippo Maria Visconti ("Figliuol mio, nel chiamar"), che D. compose in risposta a un altro similare lamento di Antonio di Meglio, con un forte intendimento patriottico e con una salda volontà di reazione morale.
Alle poesie, raccolte nel cit. manoscritto Laurenziano XLI,31, D. premise una prosa - forse composta intorno al 1420 - in cui prendeva posizione decisa contro i dispregiatori della lingua e della poesia volgari, e allo stesso tempo difendeva ed esaltava l'esperienza poetica di Dante (visto come "gloria e fama eccelsa della italica lingua") e del Petrarca, e ad essi accomunava il Boccaccio e il Salutati, ricchi di tsapienza intellettuale e vera speculazione". L'ammirazione di D. per la tradizione culturale fiorentina si inserisce certamente in analoghe attestazioni - come quelle coeve di Filippo Villani, Cino Rinuccini, Leonardo Bruni - che tendevano a valorizzare il ruolo svolto nella cultura da Firenze e dai letterati fiorentini anche, e soprattutto, in anni in cui Firenze veniva a scontrarsi con i tentativi egemonici dei Visconti di Milano. È chiaro, allo stesso tempo, che D., difendendo la lingua e la poesia volgare dei Fiorentini del sec. XIV, e quindi avvertendo che il latino non poteva più essere una lingua viva e parlata, difendeva anche la sua stessa lingua - che però ha generalmente soluzioni infelici, derivate dal gusto per l'ibridismo e dalla ricerca di assurdi latinismi - e la sua stessa poesia. Occorrerà ricordare che queste dichiarazioni furono interpretate, in particolare dal Wesselofsky, come apertamente polemiche nei confronti del circolo classicista fiorentino guidato dal Bruni e dal Niccoli. ma per il Baron le tesi di D., da lui considerate un insieme di ignoranza e distorsioni, vanno intese "come un attacco volto a prevenire le critiche umanistiche sul carattere anacronistico di ogni imitazione della maniera trecentesca".
L'ammirazione e il culto per Dante ricompaiono anche nel Ilpome del bel fioretto, scritto da D. in età giovanile, probabilmente al tempo del soggiorno a Poggibonsi e dell'amore per Melchionna, che qui D. vuole esaltare al di sopra di ogni altra donna. Il poemetto, che si sviluppa in 159 ottave, ha origine dal racconto di un giuoco in cui uno dei partecipanti sceglieva un punto, detto "pome", sul quale cercava di rimanere fermo resistendo a tutti gli attacchi e le insidie degli altri giuocatori che tentavano di spostarlo e prendere quindi il suo posto. Il Pome è diviso in tre parti, che riflettono altrettanti momenti del giuoco, ambientato in un prato pieno di fiori, il "bel fioretto", e vivacizzato da un gruppo di donne dai ventiquattro ai trentasei anni sotto la guida di Venere e di Melchionna. A un certo momento, accortesi che un uomo le sta osservando, gli chiedono di "deffinire il giuoco", ed egli, per poter meglio giudicare, sale su un pino posto in mezzo al prato. Il giuoco allora riprende, per terminare dopo l'assegnazione a Venere della sesta ed ultima "presa". In questo poemetto, il cui scopo non era tanto quello di trattare del giuoco del "pome" quanto quello di esaltare le donne e in particolare Melchionna, gli evidenti schemi derivati dal Boccaccio (Caccia di Diana, La battaglia delle belle donne, l'Ameto), si fondono con le imitazioni e le riprese dantesche, decisamente sproporzionate rispetto alla leggerezza del soggetto e all'andamento del Pome, che pure non è privo, qua e là, di scorci avvincenti, soprattutto per quanto riguarda alcune descrizioni paesistiche; ma in genere risulta appesantito da inutile crudizione.
La pedanteria poetica di D. ha un'ulteriore conferma nella continuazione - nella quale inseri pure riprese di suoi versi - che egli fece dei poemetto lasciato incompiuto da Ghigo di Attaviano Brunelleschi, intitolato Geta e Birria. Di remota derivazione dalla commedia Amphitruo di Plauto, lo scritto fa rivivere le straordinarie avventure di due servi di Anfitrione, appunto Geta e Birria, due esseri fisicamente deformi ma pieni di furbizia, che creano e determinano situazioni grottesche ed equivoche, non immuni neppure da una volontà di parodia verso certi aspetti della cultura (Geta è una volta ritratto al ritorno da un suo viaggio ad Atene con un gran carico di libri sulle spalle, cioè in quello stesso atteggiamento che sarà ripreso da Niccolò Machiavelli nella lettera famosa a Francesco Vettori del 10 dic. 1513).
Opere in versi e in prosa di D. sono state pubblicate da F. Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori, II, Prato 1847, pp. 356-361; Domenico da Prato, Il Pome del bel fioretto, a cura di P. Fanfani, Firenze 1863; C. Arfia, Geta e Birria, Bologna 1863; A. Wesselofsky, in G. Gherardi, Il Paradiso degli Alberti, I, Bologna 1867, pp. 54-66, 321-373; C. Guasti, Commissioni di Rinaldo degli Albizi, II, Firenze 1869, pp. 80-85.
Fonti e Bibl.: La portata all'estimo e i protocolli notarili di D. si trovano nell'Archivio di Stato di Firenze, Catasto 20, c. 673; 66, c. 227; 339, c. 525; 395, c. 131, e Notarile antecosìmiano D 100; F. Ravagli, Ternario di ser Domenico da Prato, rimatore del sec. XV, San Miniato 1883; A. Manetti, Roberto de' Rossi, in Rinascimento, II (1951), p. 355 s.; G. Ponte, Il Quattrocento, Bologna 1966, pp. 206-207; A. Lanza, Lirici toscani del '400, I, Roma 1973, pp. 449-584; Domenico da Prato, Il pome del bel fioretto, a cura di R. Gentile, Roma 1990. Per la bibl., si veda G.M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, IV, Venezia 1730, p. 3; F. S. Quadrio, Storia e ragione d'ogni poesia, II, Milano 1741, p. 196; G. B. Passano, I novellieri italiani in verso, Bologna 1868, pp. 88-90; F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore al tempo del Magnifico, Torino 1891, ad Ind.; C. Pellegrini, D. da P. e una sua canzone inedita, in Classici e neolatini, VII (1911), pp. 211 ss.; M. Casella, Ser D. del maestro Andrea da Prato rimatore del sec. XV, in Riv. delle Bibl. e degli Archivi, XXVII (1916), pp. 1-40; D. Guerri, La corrente popolare nel Rinascimento, Firenze 1931, pp. 1-19, 76-78, 90-92; L. Martines, The social world of the Florentine humanists (1390-1460), Princeton, N.J., 1963, pp. 314-315; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1964, pp. 222, 241-243; D. De Robertis, L'esperienza poetica del Quattrocento, in Storia della letteratura italiana, Milano 1966, pp. 415-417; H. Baron, La crisi del primo Rinascimento italiano, Firenze 1970, pp. 301-309, 412-413; A. Lanza, Polemiche e beffe letterarie nella Firenze del primo Quattrocento, Roma 1971, pp. 66-76; A. Tartaro, La letteratura volgare in Toscana, in Letteratura italiana (Laterza). Storia e testi. Il Quattrocento, III, 1, Bari 1971, pp. 165-166, 245-250; P. Viti, I notai e la cultura fiorentina nei secoli XIII-XVI, in Il notaio nella civiltà fiorentina. Secoli XIII-XVI, Firenze 1984, pp. 131-132; Repert. fontium hist. Medii Aevi, IV, pp. 232 s.