DOMENICO da Peccioli (da Peccori, de Pesulis, Pecciolus, Pecciolanus)
Al secolo Salvatore, nacque a Pisa da una antica e nobile famiglia, originaria dell'omonimo castello delle colline pisane.
Il padre, Bonaccorso di Ubaldo, fu insignito delle magistrature riservate ai cittadini più nobili: nel 1338 fu degli Anziani ed in seguito console del Mare. Alla stessa famiglia appartennero anche altri quattro domenicani, menzionati dalla Cronaca del convento di S. Caterina: Ubaldo (✝ 1290), Biagio, Bernardino (✝ 1334) e Stefano (✝ 1382).
Anche D., compiuti gli studi di grammatica, chiese l'abito domenicano e nel 1347 entrò nel convento pisano di S. Caterina, forse su esortazione di Bartolomeo da San Concordio, che in quel convento viveva, o più probabilmente seguendo l'esempio del concittadino e compagno Gerardo Sismondi. Completati gli studi di teologia, fu fatto maestro dei novizi ed intraprese poi una lunga attività di predicatore in diverse città, quali Firenze, Viterbo, Pisa, Prato, Lucca, Siena.
La sua predicazione, della quale non rimane alcuna documentazione scritta, era, a detta dei biografi, improntata a uno stile sobrio e privo di ornamenti, ma risultava nondimeno incisiva ed efficace sia sul piano morale sia su quello dottrinale, dove egli si distinse per l'aspra polemica contro le dottrine wycliffite. La sua prudenza e la fama di santità che lo circondava non solo gli valsero una brillante carriera nell'ambito dell'Ordine, ma lo resero particolarmente adatto a svolgere importanti missioni politiche al servizio della Chiesa e della sua città: eletto sottopriore del convento di Pisa nel 1356, fu inviato nel 1363 o '64 come ambasciatore del papa Urbano V all'imperatore Carlo IV, che si apprestava a scendere in Italia per arginare la violenza di Bernabò Visconti. Nel 1367 fu fatto priore una prima volta del convento di S. Romano a Lucca; nel 1370 svolse un'altra importante missione di ambasciatore presso il neoeletto pontefice Gregorio IX, al quale offrì gli omaggi e l'obbedienza della città di Pisa. Nuovamente priore del convento lucchese nel 1372 0 '73, si adoperò per concludere un'alleanza difensiva fra le città di Lucca e di Pisa, alleanza che, stipulata nel convento di S. Romano, fu poi confermata dall'imperatore e solennemente resa pubblica da entrambe le città. Tra il 1373 e il 1374 fu priore del convento di S. Caterina a Pisa e il 27 dic. 1377 fu eletto priore della provincia romana, carica che gli venne confermata nel giorno dell'Epifania del 1378, e che mantenne fino al 1380. In qualità di provinciale, partecipò nel 1380 al capitolo di Bologna e all'elezione del maestro generale dell'Ordine; in questo capitolo venne deposto frate Elia da Tolosa, fautore dell'antipapa Clemente VII, e l'Ordine ritrovò la sua unità sotto il magistero di Raimondo da Capua (Raimondo Della Vigna), il quale non mancò di riconoscere i meriti di D. e gli manifestò a più riprese i segni della sua approvazione.
Molto legato alla sua città, come sottolineano tutti i biografi più antichi, D. non trascurò mai di occuparsi del convento di S. Caterina, nel quale aveva iniziato la carriera: già nel 1378, quando era provinciale, aveva provveduto a lavori di ampliamento e di sistemazione dei convento e della chiesa, per la quale aveva avviato la costruzione del nuovo coro; dal 1380, anno in cui fu nominato maestro di teologia dal pontefice Urbano VI, vi svolse la sua attività di insegnamento e nello stesso anno iniziò a scrivere la Cronica del convento.
Sensibile alle istanze di riforma dell'Ordine domenicano promosse da Giovanni Dominici (Giovanni di Domenico Banchini) e favorite da Raimondo da Capua, D. fu direttamente impegnato nel progetto di rinnovamento religioso avviato da Chiara Gambacorta. Chiara, che aveva volontariamente intrapreso con altre sei consorelle del convento di S. Croce a Fossa Bandi, fuori Pisa, uno stile di vita particolarmente rigido, caratterizzato dal più severo ascetismo, trovò in lui il consigliere e il direttore spirituale, alle cui indicazioni si atteneva rigorosamente. Fu per iniziativa di D. che le suore si trasferirono in città, dove il padre di Chiara, Pietro Gambacorta, uno dei più nobili cittadini pisani, acquistò dalle suore della Misericordia un fondo su cui fece costruire un monastero dedicato a S. Domenico. D., in qualità di vicario provinciale, ricevette la donazione a nome delle suore e continuò a svolgere nei loro confronti opera di assistenza e di direzione spirituale, sollecitando in particolar modo la cura e l'amore per lo studio, nel quale vedeva la peculiarità dell'Ordine domenicano. La sua opera di assistenza nei confronti delle suore di S. Domenico fu ufficialmente confermata il 25 luglio 1386 da Raimondo da Capua, che gli conferi il vicariato del monastero.
Nel 1388, il 2 ottobre, Raimondo nominò D. vicario dei convento pisano degli Armeni di S. Basilio, e il 18 novembre vicario generale della provincia di Lombardia, carica che lo trattenne per alcuni mesi a Genova. L'anno seguente, sempre per ordine di Raimondo, D. lasciò Genova per Venezia, dove ebbe modo di frequentare alcuni fra i più importanti animatori della riforma dell'Ordine: Giovanni Dominici, Tommaso Caffarini, Marcolino da Forli, Tommaso Aiutamicristo, Nicola Gittalebraccia. Non sappiamo quanto tempo si sia fermato a Venezia e degli ultimi anni della sua vita non abbiamo che qualche scarna informazione sulla attività pastorale: il Necrologio di S. Maria Novella lo segnala in quella chiesa durante la quaresima del 1393, mentre dalle lettere di Chiara Gambacorta apprendiamo che predicò a Prato nella quaresima del 1396.
La sua biografia, scritta da Simone da Cascina e riportata nella Cronica di S. Caterina, informa che, ammalatosi gravemente per il dolore provocato dalle disavventure politiche della sua città, sconfitta e sottomessa nel 1406 dai Fiorentini, abbandonò progressivamente tutte le cariche, l'attività pastorale e l'impegno letterario.
D. morì nel mese di dicembre del 1408.
Fra le opere lasciate da D. quella sicuramente più famosa è la Chronica antiqua del convento di S. Caterina di Pisa. Edita dal Bonaini (Chronica antiqua conventus S. Catharinae de Pisis, in Arch. stor. ital., s. 1, VI, 2, pp. 399-593), è conservata in un unico manoscritto (Pisa, Seminario arciv., Bibl. Cateriniana 78, ff. 1-38), probabilmente autografo fino al f. 35r. Come espressamente dichiara nel prologo, D. riprende infatti e continua l'opera di due illustri predecessori, Bartolomeo da San Concordio e Ugolino di Ser Novi, iniziatori della Chronica, trascrivendo le notizie che costoro hanno lasciato, integrando là dove gli era possibile le loro scarne annotazioni e proseguendo con l'aiuto del ricordo personale l'opera da loro interrotta. Modello di tale operazione è Gennadio, continuatore e imitatore di S. Gerolamo nel compilare le vite degli uomini illustri. Obiettivo è quello di rendere giusta testimonianza, attraverso la storia del convento, ai meriti dei santi uomini che lo hanno preceduto, e proporre al tempo stesso dei modelli che siano di esempio e di stimolo per le generazioni future dei frati. Le biografie sono precedute da un breve cenno alla particolare dignità e alle prerogative attribuite al convento pisano dagli statuti dell'Ordine. La loro ampiezza è variabile a seconda dell'importanza dei frati, ma quelle compilate direttamente da D., comprese tra gli anni 1348 e 1400 circa e corrispondenti ai nn. 182-261 dell'ed. Bonaini, risultano in generale più sviluppate delle precedenti e denotano una maggiore precisione e dovizia di particolari. Le sei biografie che seguono (nn. 262-267) sono state probabilmente dettate da D., ormai troppo vecchio e stanco per poter scrivere personalmente; mentre a partire dalla biografia di Tom.maso da Vico (n. 268) subentra nel 1411 Simone da Cascina, autore delle ultime otto biografie, tra le quali quella di D. stesso.
Il nome di D. è pure legato a un'altra importante opera, unanimemente ricordata dai biografi quale documento di insigne dottrina, un commento alle Epistole di Seneca a Lucilio. Non è possibile stabilire con precisione l'epoca in cui D. scrisse il Commentario: l'unica data proposta dai biografi (cfr. Altamura), il 1348, appare alquanto improbabile. Anche di quest'opera non rimane che un solo manoscritto (Parigi, Bibl. nat., Lat. 8555), proveniente dalla biblioteca napoletana dei re d'Aragona. Ma alla fine del '400 il commento era certamente posseduto dalla biblioteca di S. Maria Novella a Firenze (cfr. Orlandi) e dalla biblioteca dei domenicani a Padova (cfr. Gargan). La sua circolazione anche fuori dalle biblioteche dell'Ordine è testimoniata dalle ripetute citazioni che si riscontrano in un commento umanista alle Epistole di Seneca, forse opera di Gasperino Barzizza (Cremona, Bibl. governativa, ms. Gov. 128, ff. 123r-150r), ed in una lunga lettera di Coluccio Salutati al medico Antonio da Scarperia, avente come oggetto la prima epistola a Lucilio. Il commento è preceduto da un prologo, in cui D. riconosce la difficoltà dell'opera che si accinge ad affrontare e la carenza fra i suoi contemporanei di ingegni adeguati all'impresa, e propone il suo commento come modesto contributo all'erudizione dei meno dotti, che ne trarranno comunque vantaggio, e come possibile punto di partenza per le riflessioni dei più dotti tra i posteri che vorranno con più alto ingegno riprendere l'argomento. Segue una prefazione in cui l'autore, distinti i diversi gradi di perfezione attingibili dall'uomo, riconosce nello studio la via per raggiungere il primo livello di tile perfezione, e cioè la vita virtuosa, ed individua un eccellente strumento per conseguire questo scopo nella dottrina morale sparsa nelle Epistole di Seneca. Nonostante dichiari di attribuire a tale dottrina un valore che prescinde dal suo autore, D. dedica ampio spazio alla commendacio auctoris, dilungandosi con dovizia di particolari sulla vita, la filosofia e soprattutto la morte di Seneca. Lo stoicismo del filosofo, il riferimento al carteggio apocrifò con s. Paolo, le vicissitudini della sua morte, consentono a D. di aderire all'immagine tradizionale che fa di Seneca una sortadi cristiano involontario, e di intervenire nel dibattito che da s. Gerolamo a Dante e a Boccaccio si è sviluppato intorno alla questione se Seneca si sia potuto salvare anche senza battesimo. L'opinione personale di D., che, come egli dichiara entusiasticamente, trova conferma in quella ben più autorevole dei Boccaccio, è che la vicenda della morte del filosofo sia assimilabile al rituale battesimale, ed il suo suicidio sia leggibile come una sorta di martirio, che conferma, al termine della vita, la santità della dottrina. Concludono la prefazione un elenco delle opere del filosofo, che comprende diverse opere spurie, tradizionalmente attribuite a Seneca nel Medioevo; le testimonianze della sua eccellenza fornite dai Padri (Gerolamo, Agostino, Lattanzio, Boezio); qualche notizia su Lucilio, destinatario delle lettere; la definizione infine della scienza morale ("quae componit animum et ad beate vivere recte ducit"), delle sue partizioni interne (morale monastica, economica, politica) e del suo posto nel sistema delle scienze (filosofia morale, naturale, razionale). Il Commentario, nel manoscritto da noi posseduto, affronta le epistole I, VII, VIII e IX, e riprende poi, dopo alcuni fogli bianchi, dalla V fino alla LXXXVI, con alcuni spostamenti rispetto all'ordine delle lettere, ma senza ulteriori omissioni. Qualche lacuna del testo è segnalata dal copista, che dichiara di rifarsi ad un esemplare "non bene correcto".
La biografia di Simone da Cascina riferisce la notizia, ripresa poi costantemente dai biografi successivi, di altre opere di D. delle quali non è stata ritrovata traccia: un commento al De Civitate Dei di Agostino e i Sermoni. Quétif ed Echard e, dopo di loro, alcuni biografi più recenti attribuiscono a D. anche la breve Cronaca del monastero di S. Domenico di Pisa, tramandata in un manoscritto detto Collettario, un tempo posseduto dal monastero e pubblicato dallo Zucchelli. L'attribuzione si fonda su un passaggio della cronaca stessa, nel quale s. Domenico, apparso assieme a s. Tommaso e alla beata Chiara Gambacorta a una delle suore, avrebbe espressamente affidato a D. il compito di riportare fedelmente il racconto della visione. Va ricordata infine l'improbabile attribuzione a D. del volgarizzamento degli Annali pisani di Bernardo Maragone, segnalata da una mano tarda sul foglio di guardia del ms. (Firenze, Bibl. naz., Palat. 1113).
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