CONTARINI, Domenico
Nacque a Venezia nel 1451 da Maffeo, detto Ronzinetto, che aveva sposato in seconde nozze la figlia di Cristoforo Marcello di Vettor.
La famiglia abitava a S. Benetto ed era tra le più cospicue della città: il padre possedeva rilevanti interessi nell'ambito commerciale e la sua carriera politica fu contrassegnata da importanti incarichi; inoltre, da uno dei suoi numerosi figli - Angelo - sarebbe disceso il doge Domenico.
Anche la vita del C. fu quasi interamente dedicata agli affari ed alla politica che, perlomeno agli inizi della sua attività, ci appaiono strettamente collegati. Dopo aver sposato nel 1478 la figlia di Francesco Bembo dì Giorgio, morta senza dargli figli, sposò Marina Contarini di Giovanni, da cui ebbe due figlie, Elisabetta e Orsa.
Nel '91 fu nominato capitano delle galere di Beirut e, quattro anni più tardi, di quelle di Fiandra. Al commercio marittimo - in particolare a quello del Levante - egli continuò a dedicare le proprie attenzioni anche quando, tra la fine del XV secolo e gli inizi del successivo, la maggior parte del patriziato lagunare preferì rivolgersi agli investimenti fondiari in Terreferma.
Nel 1509 il Sanuto riporta infatti la notizia di un attacco di pirati avvenuto il 16 ottobre a Famagosta, nel quale fu "prexo et sportato uno schirazo chargo de savoni de raxon di domino Domenego et domino Angiolo Contarini, per la valuta dei ducati 5.000", e qualche anno più tardi, nel febbraio 1515, il C., che si trovava a Padova come provveditore generale in campo, affidava al nipote Alvise la cura dei suoi interessi a Rodi, a Cipro, in Siria.
Naturalmente la sua attività politica risulta documentata con maggior continuità: capitano e podestà a Feltre nel 1492, sette anni più tardi assumeva il capitanato di Vicenza, dove ebbe come collega Alvise Moro. La provincia non presentava allora problemi di particolare rilievo: i due si limitarono infatti a controllare le mosse dei Tedeschi in Valtellina, ad ostacolare il fiorente contrabbando che utilizzava il passo della Pertega, ad esercitare la normale attività giudiziaria; a questo riguardo, il principale provvedimento preso dal C. fu il bando comminato al nobile Gian Girolamo Loschi, "qual sodomitava uno puto". Ma qualcosa di nuovo stava maturando ad Oriente: alla fine di settembre del '99 i Turchi varcavano in massa lo Isonzo ed irrompevano nel Friuli. Di fronte al pericolo, la Repubblica nominò provveditore Pietro Marcello e ordinò al C. di recarsi con 5.000 cernide a Sacile, dove era previsto un forte concentramento di truppe; qualche giorno dopo, il 7 ottobre, gli ingiungeva di portarsi fino a Gradisca, "dove la persona sua star debia fino che altro per nui sarà deliberato". La tempestiva mobilitazione di uomini e mezzi aveva però indotto i Turchi a ripiegare nella Bosnia, e il C. poté tornare a Vicenza senza aver combattuto. L'energia che non era riuscito a dimostrare sul campo di battaglia la spiegò invece, nella sua provincia, contro disertori o renitenti alla leva o galeotti fuggiti, le cui fustigazioni lo tennero occupato "su la piaza" per molti e molti giorni.
Tornato a Venezia nell'agosto del 1500, fu proposto per varie cariche (provveditore sopra il Cottimo, a Corfù, sopra le Cose da Mar; oratore in Ungheria), ma non riuscì ad essere eletto ad alcuna: l'unico suo compito, in questo periodo, fu di intrattenere il bano di Belgrado, il quale si era fermato qualche tempo e Venezia, nel corso di un viaggio a Roma.
L'inerzia politica (non sappiamo se auspicata o subita) durò ancora per tutto il 1501 e solo nel gennaio dell'anno seguente fu nominato podestà a Bergamo; ancora una volta si trattò di un reggimento tranquillo, anche se nella relazione da lui letta in Senato al ritorno a Venezia, non mancava di sottolineare vigorosamente la esigenza di rafforzare tutto il sistema difensivo della provincia e della città, pur avendo trovato quegli abitanti "marcheschi per la vita, adeo Bergamo si pol lassar con le porte aperte". L'anno successivo, nel 1503, fu ballottato ma non eletto provveditore a Faenza e il 29 maggio 1504 veniva nominato per la quarta volta rettore, come capitano di Brescia.
La città era travagliata dalle lotte tra i Martinengo e i Gambara, i cui odi avevano diviso la nobiltà in due partiti; per venire a capo di una situazione che minacciava di sconvolgere l'assetto sociale ed economico di tutta la provincia, Venezia sottopose la questione all'arbitrato dell'avogadore di Comun Luca Tron, che trovò nel C. un collaboratore abile e persuasivo, al punto che, nel gennaio 1505, le due parti pervennero a un accordo completo.
L'apprezzamento della Signona per la fortunata opera di mediazione del C. si concretizzò nella sua elezione al Consiglio dei dieci, del quale venne chiamato a far parte nell'ottobre di quello stesso anno, per esservi riconfermato nel 1506 e 1507. Era la sanzione di un prestigio ormai indiscusso, che egli non mancava di rafforzare dispiegando un'energia ed una risolutezza le quali non rifuggivano da atti di crudeltà, come dimostrò nell'infliggere la tortura ad alcuni infelici accusati di aver rubato nelle galere. Non sappiamo però fino a che punto uno zelo così acceso per il pubblico bene trovasse riscontro nella sua condotta personale: quel che è certo è che il 27 ag. 1508 proprio il Consiglio dei dieci rifiutò di accordargli il permesso di recarsi a Verona, dove era stato eletto capitano qualche mese prima, perché accusato di aver comprato la nomina. Di lì a poco, tuttavia, l'accusa fu rimossa, e il C. poté raggiungere la sua sede, dove ebbe modo di seguire il rapido costituirsi dell'accordo tra il re di Francia e l'imperatore, che spianava la strada alla lega di Cambrai.
A chi esamini la sua condotta durante i primi, cruciali mesi del 1509, appare evidente che, quanto meno, egli non seppe collaborare adeguatamente con i provveditori in campo, ai quali negò gli uomini e i mezzi che aveva a disposizione, per inviarli a saccheggiare il Mantovano, approfittando della lontananza del Gonzaga. Ad Agnadello, quindi, i suoi uomini furono assenti; non solo, ma, mentre Verona capitolava ai Francesi, il C. non trovava di meglio che riparare a Venezia portando con sé tutta la sua roba. Narra disgustato il Sanuto che i burchi dei rettori fuggiti entrarono in laguna troppo carichi, "maxime quel di sier Domenego Contarini capitanio, fin la chareta, naranzeri e maze da distender drapi. Fo gran mormoration da tutti...".
Una condotta così opportunistica non mancò di alienargli gli umori del patriziato e per due anni, contrariamente ad una prassi da tempo ormai consolidata, si vide rifiutata l'elezione alla zonta del Pregadi. Soltanto nell'ottobre del 1510, nel contesto della mutata situazione politica, che ora sembrava consentire ai Veneziani di riprendere l'iniziativa militare, tornò a far parte del Consiglio dei dieci, e nel febbraio del '12 venne eletto provveditore a Bergamo, riconquistata da pochi giorni.
L'incarico rappresentava la possibilità di riscattare l'infelice ricordo dei fatti di Verona, e il C. dimostrò, nel partire, il massimo zelo. Di strada, però, ne fece poca: era appena giunto a Montagnana quando apprese la notizia della caduta di Brescia in mano francese. Impossibilitato a raggiungere la sua sede, si fermò nel Padovano, da dove seguitò a mandare alla Signoria dispacci vibranti di amor patrio, ma ricchi di particolari sulle nefandezze commesse dal nemico, specie sui veneziani caduti in sua mano. Era un esplicito noli me tangere, che però il Senato tacitamente approvò, e un mese dopo gli accordava il permesso di tornarsene a casa, dove il fratello Angelo era in fin di vita.
L'occasione per riabilitarsi era stata, tuttavia, solamente rinviata: alla fine dell'anno il provveditore in campo Paolo Cappello, che ricopriva l'incarico da ben trentadue mesi, sollecitò la nomina di un successore, e la scelta cadde sul C., che non osò rifiutare. Giunto a San Bonifacio nel febbraio del '13, riuscì in breve tempo a riportare la disciplina fra le truppe, da tempo prive del soldo, consentendo loro di badare al proprio sostentamento con un sistematico quanto imparziale saccheggio dei territori amici e nemici. Riuscito poi ad assicurarsi mezzi sufficienti, allo scadere della tregua che era in itto spinse l'Alviano all'offensiva, e nel maggio-giugno riuscì a recuperare Peschiera, Valeggio e Cremona, che fu strappata a Massimiliano Sforza. Nominato l'anno seguente provveditore di Padova, minacciata dagli Spagnoli che avevano avuto la meglio sui Francesi, riuscì ad organizzare adeguatamente la difesa e a rafforzare la cinta muraria. Riconfermato poi provveditore generale in campo, tra il 1514 ed il 1515 riuscì ad impadronirsi di Rovigo e di tutto il Polesine, e fu presente con le sue truppe alla battaglia di Marignano, con la quale Francesco I piegava definitivamente la potenza svizzera. Il 15 febbr. 1516 poteva così presentarsi nel Maggior Consiglio con l'orgogliosa consapevolezza di aver esercitato per ventotto mesi un gravoso compito, il cui felice esito aveva cancellato la negativa esperienza veronese.
Nel 1518-19 fece parte del Consiglio dei dieci e fu provveditore alle Artiglierie, nell'ottobre del '23 fu della zonta del Senato, il 9 febbraio dell'anno successivo fu eletto savio sopra il Nuovo Estimo e il 26 nov. 1526, nonostante l'età avanzata, riceveva ancora una volta la nomina a provveditore generale in Terraferma, assieme a Giovanni Vitturi, poi sostituito da Pietro Pesaro. Come è noto, la guerra mossa all'imperatore dalla lega di Cognac non ebbe esiti positivi, ma Venezia riuscì ugualmente a strappare all'alleato Clemente VII alcuni porti romagnoli, per cui, ad un anno di distanza dalla nomina, il C. poteva deporre onorevolmente l'incarico. Fu ancora del Consiglio dei dieci, provveditore alle Biave, consigliere di Venezia; nel giugno del '29 riceveva inoltre, dal re di Francia , il privilegio di portare i gigli d'oro nell'arma, in "consideration alli boni, grandi et molto laudabili serviffi, che lui, et quelli di Casa sua ne hanno per il passato fatto in più grandi, et diverse maniere". Il 6 luglio 1533 fu ballottato, ma non eletto, podestà a Padova: è l'ultima notizia che ne abbiamo. Fu sepolto nell'arca di famiglia, a S. Benetto.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arboride' patritii..., II, p. 500; Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna, 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti.. del Maggior Consiglio, I, cc. 163v-164r; Ibid., Cod. Cicogna, 2520: Casa Contarini, docc. 29-32, 35, 37, 39. Sull'attività in Friuli ed a Bergamo, Arch. di St. di Venezia, Senato. Delib. Secreta, rispettivamente reg. 37, cc. 138v-139r, 187r; reg. 44, c. 105r; su quella a Brescia e a Padova, Ibid., Lettere di rettori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 19, n. 48; b. 80, nn. 173, 176, 181. Per il testamento, Ibid., Sezione notarile. Testamenti, b. 201/100. Il documento, redatto il 7 dic. 1526, sottoponeva i beni del C. a fidecommesso nelle persone dei nipoti, tranne lasciti per le figlie Elisabetta ed Orsa. Cfr., inoltre, M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1903, I-XXI, XXXIII-XXXVI, XXXVIII-XL, XLII-LVIII, ad Indices;E. A. Cicogna, Delle Inscriz. Veneziane, Venezia 1830-1853, III, p. 378; VI, p. 589; S. Romanin, Storia docum. di Venezia, V, Venezia 1856, pp. 184, 304.