CAVALLARI, Domenico
Nacque il 7 ott. 1724 da Antonino e Caterina Lasilica a Garopoli, piccolo abitato che oggi fa parte del comune di San Pietro di Caridà, in provincia di Reggio Calabria.
La fonte più attendibile sulle vicende, per altro niente affatto avventurose e complesse, della sua vita è il profilo che uno storico attento e pressoché coevo, Lorenzo Giustiniani, tracciò in base anche alle notizie fornitegli da un nipote del C., Antonino Cavallari.
Pur avendo, in tenerissima età, perduto il padre, il C. poté ricevere una buona educazione letteraria: le condizioni evidentemente agiate della madre gli consentirono infatti di avvalersi, per le lingue greca e latina, di un insegnante privato, a quello scopo chiamato a Garopoli, eche accompagnò nel 1740 il suo allievo a Napoli, dove si trasferirono perché questi potesse proseguire e perfezionare i suoi studi sotto la guida di Giambattista Vico.
Gli anni dal 1740 al 1746, trascorsi nella capitale, furono di preparazione intensissima e decisivi per la formazione del C.: gli insegnamenti che ne trasse indicano le componenti di fondo della sua personalità. Da un lato, dopo Vico, dopo lo studio delle lingue antiche e della retorica, il magistero di Giuseppe Pasquale Cirillo, ossia la giurisprudenza ed il diritto in una dimensione culta, attenta agli aspetti storici e filologici, oltre che tecnici; dall'altro, la metafisica di un giovane sacerdote e docente, come Antonio Genovesi, ch'era accusato di professare una libertà di pensiero "non convenevole ad un buon cattolico",e che riconosceva - siccome è scritto nella prima autobiografia del filosofo (§ XXXII) - di amare "grandemente la libertà di pensare" e di odiare nella stessa misura "la superstizione e gl'errori della corrotta religione".
Quegli orientamenti critici e quelle inclinazioni intellettuali tanto erano condivisi dai "giovani di gran spirito" (ibid.,§ XXXVIII) - e fra di essi era certamente il C. - che frequentavano i circoli letterari della capitale, quanto erano avversati dall'arcivescovo Spinelli, dalla Curia e dai gesuiti. L'urto della cultura illuministica aveva spezzato a Napoli il fronte degli ecclesiastici, e la protezione accordata ad alcuni di essi dal duca di Salas, José di Montealegre, il potente segretario di Stato, aveva favorito, già prima del 1746, quell'unione fra i riformatori filogiansenisti ed i campioni della lotta anticuriale, che divenne evidente in tutt'Italia dopo la metà del secolo. Particolarmente attivo si mostrò in quegli anni il gruppo che si raccoglieva intorno al cappellano maggiore Celestino Galiani, che annoverava intellettuali illustri in vari campi, come Bartolomeo Intieri, Pietro Contegna e lo stesso Genovesi, e che era molto legato agli ambienti filogiansenistici romani e corsiniani ed a Giovanni Bottari.
Lo scontro, nello stesso tempo politico ed ideologico, giunse al suo momento critico alla fine del 1746, con la caduta e l'allontanamento di Montealegre, con l'espulsione degli ebrei dal Regno, con il tentativo da parte dell'arcivescovo di render palese l'esistenza a Napoli di un Tribunale dell'Inquisizione, con l'immediata e generale reazione della Città, unita in tutte le sue componenti. Si aprì, allora, una fase nuova, che vedeva emergere in primissimo piano statisti di cultura giuridica come Bernardo Tanucci e Niccolò Fraggianni, ed in cui il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa assumeva di nuovo una posizione centrale negli interessi politico-culturali, dopo la breve fase di distensione seguita alla stipula del concordato con Benedetto XIV.
In quello stesso anno il C. fu richiamato nel suo paese natio dalla madre, che lo voleva sacerdote, per poi instradarlo verso Roma, presso l'abate Antonio Lasilica, suo fratello, già ben introdotto in quella corte. Ma quando, nel 1748, questi venne a Napoli per trattare con il governo di Carlo di Borbone alcuni affari pontifici, il C., già ordinato sacerdote, lo raggiunse nella capitale, vi ritrovò il suo ambiente preferito, e rifiutò, poco dopo, di seguire lo zio, che faceva ritorno a Roma.
Era stata, quella, una scelta ideale, fra una promettente carriera di corte, ed una faticosa ed austera vita di studio; fra la Chiesa come istituzione mondana, e la Chiesa innanzi tutto come vita religiosa e morale. Infatti, all'analisi ed approfondimento di questo problema, i rapporti fra lo Stato e la Chiesa, il C. dedicò, da allora in poi, tutte le sue energie: studi seri ed attenti, pubblicazioni severe, in cui il contenuto di novità,l'elemento a volte sottilmente e duramente critico, anche dal punto di vista politico, appare coperto e nascosto da un solido impianto sistematico e tecnico, da un ampio corredo di erudizione. Di certo, i tempi, lenti, di meditazione e stesura della sua prima opera, le Institutiones iuris canonici, quibus vetus et nova Ecclesiae disciplina enarratur, destinate ai suoi studenti privati, non furono ritardati da altro, se si guarda all'impegno ed alla laboriosità del C., che dall'insegnamento, iniziato presto e con largo successo in casa sua, e poi proseguito nel pubblico Studio, dalla seconda cattedra d'istituzioni canoniche, vinta per concorso nel 1765. Ma gravi motivi esterni contribuirono a render di quell'opera difficile la messa a punto e la pubblicazione, quando, di nuovo, nei rapporti fra Stato e Chiesa tutto era posto in discussione, ed una crisi d'estensione europea era in pieno svolgimento. Sta di fatto che la prima parte delle Institutiones, pur essendo stata sottoposta all'esame del revisore ecclesiastico Alessandro Calefati e di quello regio Tommaso Taglialatela (personaggi, per altro, anch'essi d'indirizzo antigesuitico e genovesiano) fin dagli inizi del 1761, solo nel 1764 ottenne l'imprimatur ecclesiastico e poté esser pubblicata; mentre la seconda parte, allora, secondo l'autore, già quasi pronta, apparve nel 1768; la terza ed ultima nel 1771. Lo stesso C. accennò alle accuse rivoltegli di averne ritardato la pubblicazione per la difficoltà di precisare i confini fra potere regio ed ecclesiastico: incertezze, in quel momento, più che giustificate.
Proprio in quegli anni, un grande motivo internazionale di turbamento la persecuzione antigesuitica sviluppatasi prima in Portogallo, poi in Francia e propugnata nel 1766 anche dal pio e moderato Carlo III di Borbone, dopo la rivolta madrilena ad essi addebitata, aveva determinato a Napoli un forte impulso nella politica anticurialistica. Essa si svolgeva, allora, in un contesto sensibilmente mutato rispetto ai decenni precedenti: dopo la morte di Niccolò Fraggianni (9 apr. 1763), rigoroso ed efficace esponente del ministero togato e del pensiero giuridico napoletano tradizionalmente ostili alla corte di Roma, Bernardo Tanucci non poteva più avvalersi, in quella direzione, di un sostegno altrettanto valido e costante da parte delle magistrature, che avevano ormai perduto i loro specifici connotati ideologici, si mostravano troppo spesso inclini a favorire il partito patrizio ed erano largamente partecipi con esso di un comune spirito oligarchico, magnatizio e conservatore. Oltre che il re di Spagna, solo pochi giuristi e specialmente alcuni esponenti della cultura illuministica sembravano disposti a fornire al vecchio statista toscano l'appoggio di cui aveva bisogno per porre "freno ai potenti",di cui il re di Napoli si circondava e di cui si mostrava amico, contro gli interessi suoi stessi e del Regno. D'altra parte, l'animosità contro i gesuiti, maturata da un uomo, come Carlo III, lento e cauto nelle decisioni, ma costante nel perseguirle e vendicativo, serviva alla politica personale del Tanucci, che poteva così giocare le sue ultime carte, contro un re disinteressato a governare, e specialmente contro una giovane e volitiva regina, troppo impaziente di sostituirsi ad entrambi.
La vacanza della cattedra di Decretali, la più prestigiosa del pubblico Studio, dotata di quattrocento ducati annui di stipendio, offrì agli anticurialisti, guidati dal Genovesi, l'occasione di chiederne, alla fine del 1768, l'abolizione, in base agli argomenti tipici della cultura giurisdizionalistica, ed in particolare della formulazione estrema che ne aveva fornito Pietro Giannone nell'Istoriacivile del regno di Napoli: le Decretali esprimevano la pretesa, le "massime" di un potere mondano, profano, estraneo allo Stato, anzi di esso nemico. Il Genovesi, esattamente come il Giannone, negava ogni validità al connubio tra lex canonica e lex mundana o civile, espresso dal diritto comune, e ancora accolto dai giuristi legati alla tradizione e interessati alla difesa dello status quo. Essi infatti si opposero all'abolizione della cattedra di Decretali, e solo il delegato della real giurisdizione Francesco Vargas Maciucca appoggiò l'istanza del Genovesi ed anzi propose che quell'insegnamento fosse sostituito da un altro, diretto ad illustrare la storia ecclesiastica, sempre avversato dalla corte di Roma, già istituito a Napoli da Celestino Galiani nel 1731 ed abolito, alla fine del 1737, per volere dell'arcivescovo Giuseppe Spinelli.
Dopo lungo dibattito, si addivenne ad una soluzione di compromesso: la cattedra di Decretali fu conservata, ma perdette due terzi della sua dotazione a vantaggio di quella di storia ecclesiastica, che fu ripristinata, ma, per volontà del Tanucci, fu detta "dei concili". Inoltre, secondo quanto la Camera di S. Chiara aveva raccomandato, si badò a che l'insegnamento di Decretali fosse affidato ad un docente di sicura fede regalistica: un pubblico concorso designò, tra diciassette candidati, il C., che prese possesso della cattedra alla fine del 1772. Questo successo lo mise in buona luce presso la corte: nel 1775 ottenne dal sovrano il beneficio di S. Matteo di Albanella, di regia presentazione; nel 1777, un anno dopo la caduta del Tanucci, in seguito alla riforma dell'università attuata dal marchese della Sambuca Giuseppe Beccadelli Bologna, gli fu affidata ad interim la cattedra del Decreto di Graziano; nel 1779 ritornò su quella di Decretali, che aveva riacquistato la sua assegnazione di quattrocento ducati ed il suo prestigio originari, dopo la soppressione dell'insegnamento dei concili.
Intanto il C. lavorava a rivedere ed ampliare le sue Institutiones iuris canonici, di cui ripubblicò nel 1774 a Napoli la prima parte, col titolo, meglio rispondente al contenuto, di Commentaria de iure canonico;ed a stendere le Institutiones iuris romani, la cui prima edizione apparve a Napoli nel 1777. Nello stesso anno e luogo pubblicò la traduzione italiana, in quattro tomi, dell'Esprit des lois, di Montesquieu, corredata da testi di vari autori e da note anche di Antonio Genovesi e sue. Queste ultime, aggiunte, com'è indicato nell'introduzione (p. V), "per moderare qualche proposizione dell'illustre Presidente o troppo avanzata, o di dubbio senso",pur essendo dirette, per lo più, a difendere l'ortodossia cattolica, colgono alcuni punti deboli dell'opera: così, ad esempio, dove (II, p. 81) contraddicono la tesi della naturale inferiorità dei negri.
Il C. morì a Napoli il 5 ott. 1781, a soli 57 anni di età, lasciando inedite la seconda e terza parte dei Commentaria, che furono pubblicate a Napoli dal nipote Antonino nel 1778,insieme alla ristampa della prima. Le Institutiones iuris canonici ebbero quattro edizioni napoletane, dopo la prima, che venne cinque volte ristampata a Pavia, tre volte a Bassano del Grappa e, fra il 1786 e il 1791, anche a Palermo, con aggiunte relative al diritto ecclesiastico siciliano, dovute a Filippo Cafaro, che del C. fu allievo, e docente nel pubblico Studio di Catania. Delle Institutiones iuris romani, la seconda edizione (Napoli 1778) fu più volte ristampata, e fu tradotta in italiano, col titolo di Istituzioni civili, da Mattia Spano, Napoli 1825-1826, in quattro volumi. Varie edizioni ebbe pure una stesura abbreviata delle Inst. iuris can.,che il C. pubblicò in due volumi la prima volta nel 1769, col titolo di Elementa iuris canonici. I Commentaria, ed. Napoli 1788, recano in appendice una Dissertatio de decretalibus pontificum generatim, che può esser considerata un'opera a parte del Cavallari. Un manoscritto della Bibl. naz. di Napoli, XI.C.71., contiene la sintesi di due corsi universitari del C., Iuris Neapolitani et pontificii breviarium (1767) e Inst. iuris canonici (1766). Le opere di diritto canonico del C. furono poste all'Indice il 27 genn. 1817.
Gli scritti del C. rispecchiano puntualmente, sia pure in una forma molto misurata ed equilibrata, l'ambiente vivacissimo ed il momento storico di grande fermento intellettuale in cui furono redatti. Muovendo da singoli problemi pratici, locali e "nazionali",specialmente di definizione dei confini fra potere ecclesiastico e civile, il pensiero giurisdizionalistico già da tempo aveva esteso la sua polemica fino ad investire la stessa costituzione interna della Chiesa romana, di cui proponeva la riforma, mediante il ripristino dell'antica purezza e semplicità, ma anche dell'originario rigore. Questo ritorno al passato, comune a tutta la letteratura più o meno sensibile ad influenze giansenistiche, fu esaltato nel C. dalla sua appartenenza ad una cultura, come quella napoletana del Settecento, che sempre aveva coltivato gli studi di storia al fine d'interpretare le situazioni pratiche e politiche, in particolare gli abusi della Chiesa di Roma, e si era sempre mostrata refrattaria all'impegno meramente logico-teoretico, ed avversa alle dispute puramente teologiche. L'Istoria civile di Giannone, citata dal C. con la necessaria prudenza, è presente fra le sue fonti d'ispirazione più di quanto non appaia, e l'influenza di Vico è molto evidente nella forma mentis del nostro giurista, oltre che in alcune interpretazioni particolari: ad es., dove si esaminano i "segreti" e "misteri" del diritto romano patrizio come arcana dominationis (Inst. iur. rom., historia, cap. 8, §§ 2-3, I, pp. 91 s.).
Nell'ampia ricostruzione storico-giuridica, compiuta dal C., e riguardante sia la Chiesa che lo Stato (consistenti excursus storici sono premessi a tutte le sue opere), la fiducia nel dato concreto, nel documento, nelle testimonianze, nel "certo" si contrappone all'insofferenza per la logica astratta, per i sofismi, per le sottigliezze, per i formalismi "barbari" della scolastica, del probabilismo, e per le stesse distinzioni meramente terminologiche, frequenti negli studi di teologia. Persino la distinzione fra potestas ordinis e potestas iurisdictionis, che pure il C. usa nelle sue note allo Spirito delle leggi (I, p. 114), è guardata con disinteresse, poiché non si ritroverebbe nelle fonti storiche antiche e sarebbe stata ignota ai "padri" (Comm.,pars I,c. 5,§ 7). L'insegnamento di un giurista come Bartolo appare al C. insoddisfacente, perché si compiacque di "astuzie e di vani misteri delle parole" (Inst. iur. rom., p. 90). La perdita di autorità dei concili a vantaggio del papa fu segno di crisi e portò al prevalere delle opinioni più varie, al diffondersi di dispute vane; la disciplina ecclesiastica perdette l'antica semplicità ed assunse la nuova forma verbosa, involuta, misteriosa (Comm., prolegomena, cap. 9, § 16 s.). II rimedio tridentino ovviò solo in parte a questi inconvenienti: eppure, se si fosse rispettata la normativa di quel concilio celebrando i sinodi ogni triennio, "oggi potremmo felicitarci per il risorgere della disciplina ecclesiastica" (ibid.,cap. 10,§ 7).
Tuttavia, negli anni Sessanta del Settecento, le istanze di riforma della Chiesa, anche se trovavano alimento, ancora una volta, in specifici problemi pratici e negli interessi "nazionali" - basti ricordare il motivo dolente degli appelli giurisdizionali in materia ecclesiastica, che la corte pontificia imponeva di portare a Roma, ossia presso una "potestà straniera",dove erano sottratti alle "patrie nostre leggi",come denunciò Bernardo Brussone (Abusi della giurisdizione ecclesiastica nel regno di Napoli, Venezia 1769, prefaz.) e come più moderatamente lo stesso C. rilevava nei Comm.,pars III, cap. 33, § 25 - risentivano di suggestioni più lontane, legate a fonti d'ispirazione nuove rispetto alla matrice giurisdizionalistica giannoniana. Quanto meno a quest'ultima si attribuivano ora significati diversi, in particolare la responsabilità di aver prodotto la svolta genericamente antidispotica, evidente nella produzione polemica antivaticana degli anni Settanta ed Ottanta, ispirata, più o meno direttamente, alle idee democratiche inglesi (O. M. Chiarizia, Giannone da' campi Elisi, s. l.[ma Napoli] 1791). Si era verificata, allora, non solo (come scrisse A. C. Jemolo, Stato e Chiesa, p. 29) una piena fusione "fra la tendenza riformatrice puramente religiosa e quella regalista di natura politica",ma (come ha rilevato ilVenturi, II, p. 208) un'altrettanto significativa "confluenza... della corrente giurisdizionalistica con quella dei filosofi illuministi".
L'affermarsi d'idee prevalentemente politico-sociali, l'insofferenza verso ogni sorta di dispotismo, la visione nuova di una società partecipe dei propri interessi e di un'élite intellettuale impegnata a scoprire ed a rivelare i meccanismi interni del potere e del diritto, insomma gli orientamenti propri della cultura illuministica matura, ebbero riflessi indiretti, ma sicuri sull'opera del C., e si ritrovano nel suo modo di concepire la costituzione della Chiesa, nella sua tendenza a deprimere la funzione del pontefice e ad esaltare tutte le espressioni periferiche dell'organizzazione ecclesiastica, tanto che si può dire egli ne postuli una sorta di decentramento, ed il ripristino di una struttura collegiale, vicina all'esperienza delle origini. Il papa è soggetto ai canoni e quindi ai concili generali (Comm., pars I, cap. 11, § 13), non conferisce la plenitudo sacerdotii ai vescovi, che la ricevono da Cristo (ibid.,cap. 5, § 4), ed anche l'istituzione dei parroci è di diritto divino (ibid.,cap. 18, § 2). Nel diritto canonico la consuetudine è fonte d'importanza pari, o anche superiore alla norma scritta (Inst. iur. can., I, cap. 12, § 4,e, più decisamente, in Comm.,prolegomena, cap. 2, §§ 23 s.). La legislazione civile dev'esser adatta alla natura dei popoli cui è destinata, e perciò dev'esser chiara, ordinata, semplice, affinché essi possano usarla consapevolmente; a tal fine il C. auspica, nell'introduzione alle Institutiones iuris romani, la redazione di un nuovo "corpo del diritto",ed egli stesso compie, con quell'opera, un importante sforzo di semplificazione, di chiarificazione e di sintesi, al servizio della prassi. Il C. si dichiara contrario alle sanzioni sanguinarie, ed al frequente ricorso alla pena di morte, e nota come di questo rimedio abbiano sempre fatto abuso le tirannie ed i governi militari, mentre le città libere, verso cui vanno le sue simpatie, si reggono "con la mitezza delle pene e con l'esempio della virtù" (Inst. iur. rom., lib. IV, tit. 18, § 17). All'idea di tolleranza sono ispirate anche le pagine più efficaci e sentite dei Commentaria:la religione si fonda sulla persuasione e non ammette alcuna forma di coazione; la violenza a fin di bene produce effetti contrari alle intenzioni, perché genera falsi credenti e simulazione (pars I, cap. 1, § 27; pars III, cap. 37, § 16). Così il Tribunale dell'Inquisizione promuove l'ignoranza e l'ipocrisia, ed è stato giustamente avversato dai Napoletani, che ne hanno ottenuto l'espulsione dalla loro città (ibid.,cap. 18, §§14-21). Analoghi concetti sono espressi nelle note allo Spirito delle leggi:"La religione cristiana non dona diritto alcuno per render schiavi coloro, che non la professano. La violenza non è il carattere della vera religione, che si propaga colla predicazione e dolcezza" (tomo II, p. 80). Questi motivi giustificano la rivolta contro i gesuiti, che hanno cercato, nel Paraguay come in Europa, di "esercitar l'impero" servendosi di "occulte vie, quali sono quelle della coscienza, e della morale rilasciata" (tomo I, p. 152).
L'elevata idea di una religione liberamente accettata, seriamente ed intimamente vissuta, si accompagna a spunti di rigorismo che possono dirsi ispirati al giansenismo: il C. chiede severità nel comminare le penitenze in confessione (Comm., pars II, cap. 32, § 15), moderazione nel concedere le indulgenze da parte della Chiesa (ibid.,cap. 33, § 10), estrema cautela nel consacrare nuovi santi, come troppo spesso avveniva, in base "al dubbio e sovente falso credito" di aver fatto miracoli (ibid., cap. 8, § 19). La critica del C. alle istituzioni ecclesiastiche, corredata e sorretta da ampi riferimenti ad autori anche sgraditi alla corte di Roma, o da essa condannati - da Sarpi a van Espen, da De Marca a Fleury, da Pufendorf a Montesquieu, da Giannone a Berardi - risente di varie influenze, ma non s'identifica in nessuna, e rifugge da ogni classificazione di scuola o corrente.
Fonti e Bibl.: Dopo L. Giustiniani, Mem. istor. degli scrittori legali del regno di Napoli, I, Napoli 1787, pp. 232-235 (da cui hanno attinto, senza portare novità, tutti i memorialisti e cronisti), utili prescrizioni e molte inedite indicazioni bibl. sono fornite da A. Valensise, D. C. e le relazioni tra Chiesa e Stato, contributo allo studio del giurisdizion. ital. del Settecento, in Historica, XXVIII (1975), 1, pp. 27-37; 2, pp. 91-93; 3, pp. 123-33; 4, pp. 167-177; XXIX (1976), 1, pp. 24-29; 3, pp. 143-149; XXX (1977), 2, pp. 72-79. Sulle opere del C., oltre ai pochi cenni di J. F. von Schulte, Die Gesch. der Quellen und Literatur des Canonischen Rechts, III, Stuttgart 1880, pp. 527 s.; cfr. A. C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori politici ital. del '600 e del '700, Napoli 1972, ad Indicem;Id., Il giansenismo in Italia prima della rivoluzione, Bari 1928, p. 388; G. Cigno, G. A. Serrao e il giansenismo nell'Italia merid.,Palermo-Lovanio 1938, ad Indicem;F. Gangemi, Giansenisti calabresi: D. C., in Historica, XVIII(1965), I, pp. 3-13; A. Valensise, op. cit., passim. Per la vicenda della cattedra di Decretali: G. M. Monti, Due grandi riformatori del Settecento: A. Genovese e G. M. Galanti, Firenze 1926, passim; Lettere di B. Tanucci a Carlo III di Borbone (1759-1776), a cura di R. Mincuzzi, Roma 1969, pp. 496 s., 502, 775; e su quella di storia eccles., R. Ajello, La vita politica napol. sotto Carlo di Borbone, in Storia di Napoli, VII, Napoli 1972, pp. 598 s., 635 s. Per il quadro d'insieme della cultura napol.: F. Venturi, Settecento riformatore, II, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, 1758-1774, Torino 1976, pp. 163-184.