CAVALCA, Domenico
Nacque verso il 1270 a Vico Pisano, come attestano i più antichi manoscritti delle sue opere e le notizie che si leggono nella Cronaca trecentesca e nei più tardi Annali conservati nel convento di S. Caterina in Pisa.
Non è sicuro che la sua famiglia fosse la stessa che si era distinta nelle magistrature pisane e nei fatti militari del Duecento, cioè la casata dei Cavalca legata ai Gaetani. Non pare sufficiente per una tale affermazione la testimonianza di un codice quattrocentesco (Chigiano L VII 257 della Bibl. Ap. Vatic.) dello Specchio di Croce, dove una mano più tarda attribuisce l’opera al beato Domenico Cavalca “ex Caietanis Pisanus”.
Il C. entrò nel convento di S. Caterina giovanissimo, ma non prima dei quindici anni, poiché lo vietava una disposizione presa durante il capitolo generale di Montpellier del 1265. Non sappiamo nulla di preciso sui suoi maestri e sulla sua formazione, che dovette essere solida, quale era possibile acquisire in uno dei più importanti Studi domenicani della provincia romana.
Il convento di S. Caterina, fondato nel 1221, godeva di una notevole fama. Pur non ospitando uno Studio generale, dove si conferivano i gradi accademici, era sede di una scuola vivace, curata con particolare attenzione dai superiori, che già nel 1250 vi destinavano solo “famosi et probati predicatores”, e nel 1272, per suggerimento di Tommaso d’Aquino, vi stabilivano un corso di Artes. La presenza di una delle più antiche biblioteche domenicane, ricca delle opere fondamentali della letteratura religiosa e di quella classica, l’attività di un ben organizzato scriptorium ne facevano un centro adatto all’insegnamento e alla predicazione, e soprattutto a quelle iniziative di volgarizzazione della cultura, di cui il C. fu, accanto a Giordano di Pisa e a Bartolomeo da San Concordio, il più abile promotore.
La vita del C. si svolse tutta, salvo brevi parentesi di assenza da Pisa, nel convento di S. Caterina. Il suo nome non compare mai nei superstiti ruoli degli insegnanti che, di anno in anno, i capitoli provinciali destinavano alle scuole dell’Ordine; sicché sembra lecito supporre che egli non abbia mai raggiunto il grado di lector. La Cronaca non dice nulla in proposito, e invece insiste sull'opera ingente di traduttore, di predicatore, sulla amicizia misericordiosa per gli infermi, i carcerati, i poveri, e sulla particolare cura che egli ebbe per alcuni monasteri femminili.
Il 13 giugno 1299 (1300, secondo lo stile pisano) il vicario Bonagiunta visita il monastero di S. Anna al Renaio, nel suburbio meridionale, e su consiglio del C. ordina che la clausura venga inasprita. Il 26 ag. 1329 (1330 al pisano) il vicario Tommaso affida al C., “licet absenti”, l’incarico di udire le confessioni delle signore della Misericordia, dell’Ordine domenicano, accedendo al monastero, e di assolverle da scomunica, in particolare da quella in cui sono incorse per aver accolto la figlia di ser Betto notaio della Spina, al di là del numero concesso. La Cronaca informa che il C. ogni anno faceva la questua per questo convento, e che si adoperò “industria et sollecitudine” perché le domenicane ottenessero dall’arcivescovo Simone Saltarelli il permesso di passare dal primitivo luogo, angusto e malsano, in quello dove risiedevano al tempo in cui scrive fra’ Domenico da Peccioli, autore della Cronaca, cioè nella seconda metà del Trecento. Da altre fonti archivistiche risulta che nel 1334 (stile pisano) le signore della Misericordia si sistemarono nelle case di Matteo di Rustichello, cittadino e mercante pisano, presso la cappella di S. Viviana. A questo gruppo di religiose si aggiunsero pochi anni dopo alcune meretrici convertite dal C.; il che diede luogo alla fondazione del convento di S. Marta (1342). Le ricerche d’archivio, che non hanno fatto alcun progresso dalla fine del secolo scorso, aggiungono poco a quanto già detto. Nel suo testamento del 25 genn. 1336 Albizzo Delle Statere de’ Casapieri, fedelissimo dei domenicani di S. Caterina, lascia forti somme “pro anima”, e tra i beneficati, oltre a molti conventi femminili (S. Anna al Renaio, le monache della Misericordia) figurano molti frati domenicani (Taddeo Dini, Bartolomeo da San Concordio, Ranieri Giordani), tra i quali anche il C. (“Item iudico Fratri Dominico Cavalce de Vico Ordinis Fratrum Predicatorum libras quinque denariorum pisanorum”).
Discussa è la data della morte del C., ma la più attendibile appare quella registrata dalla Cronaca, che l’assegna all’ottobre 1342: “In Huius sepultura convenerunt populi Pisane civitatis, et pauperes et afflicti, amissionem sui patris inconsolabiliter lamentantes MCCCXLII de mense octobris”.
Il primo, parziale elenco delle opere cavalchiane fu proposto da Domenico da Peccioli, che cita il De Patientia, la Disciplina Spiritualium, le Stultitie Spiritualium e lo Speculum Crucis. Gli Annali di S. Caterina aggiungono il trattato De bona et mala lingua, cioè il Pungilingua e i Frutti della lingua, che sono concepiti come due parti di un’opera. I cronisti non si preoccupano di precisare le date di questa ricca attività letteraria; se ne può tentare la cronologia relativa basandosi sulla tradizione manoscritta e sui fitti rimandi che legano tra di loro i trattati. La testimonianza di due autorevoli codici fiorentini (il Palatino 91 della Bibl. naz. di Firenze, del 1361, e il Riccardiano 1273, del sec. XV) indicano il 1333 come data di composizione dello Specchio dei peccati, un manuale per la confessione. Poiché qui si cita il Libro della Pazienza e Medicina del cuore, e a sua volta quel trattato rimanda allo Specchio di Croce e ai due principali volgarizzamenti cavalchiani (le Vite dei santi Padri e il Dialogo di s. Gregorio), è possibile stabilire il termine ante quem di un certo gruppo di trattati e di volgarizzamenti. Si aggiunga che la Medicina del cuore è citata anche dal Pungilingua e dai Frutti della lingua; e che l’Esposizione del Simbolo, ignorata dagli altri trattati, è la più ricca di rimandi, sia ai volgarizzamenti, sia alle opere dottrinali (Disciplina degli spirituali e Trenta stoltizie), sicché si presenta come l’opera estrema del Cavalca. In base a questi fatti è da supporre che egli, probabilmente con la collaborazione di alcuni confratelli, si sia dedicato inizialmente al volgarizzamento delle Vite dei santi Padri, del Dialogo (per il quale G. Dufner propone, ma con argomenti deboli, il 1329), degli Atti degli Apostoli e dell’Epistola di s. Girolamo a Eustochio, quindi avrebbe affrontato la stesura di nove trattati, dal 1330 circa alla morte. L’ordine di composizione più probabile è il seguente: Specchio di Croce, Medicina del cuore ovvero trattato della Pazienza, Specchio dei peccati (1333), Pungilingua, Frutti della lingua, Disciplina degli spirituali, Trattato delle trenta stoltizie, Esposizione del Simbolo degli Apostoli. Inoltre, uniti all’opera in prosa oppure in sillogi di poesia religiosa, ci sono giunti del C. poco più di cinquanta componimenti, tra sonetti e sirventesi. Questi versi hanno di solito la funzione di fissare nella memoria gli argomenti svolti dai trattati: a questo scopo sono composti i dodici sonetti che seguono lo Specchio di Croce, i sonetti che ricapitolano il trattato delle Trenta stoltizie, i tre sirventesi che concludono le diverse parti della Medicina del cuore (la Medicina, il trattato della Pazienza, e il Breve e divoto trattato, in quattro capitoli). Alcuni sirventesi (“A Dio eletta e consacrata sposa”; “Poi che se’ fatto frate, o caro amico”, con la variante “Poi che se’ fatta sore, o cara amica”) hanno il tono dell’epistola, nello stile di, certe lettere versificate di Guittone d’Arezzo e di Iacopone da Todi (al quale infatti venne erroneamente attribuito “Poi che se’ fatto frate, o caro amico”). Altri sirventesi svolgono temi morali, come quello “in commendatione di quattro virtù cardinali” pubblicato dal Simoneschi o l’inedito “Chi vuol aver la virtù della pace” (attribuito al C. nel codice Chigiano L VII 266; adespoto nel Riccardiano 1155). Il C. non ha vere qualità di poeta, ma dimostra una notevole scaltrezza tecnica.
La fama del C. indusse molti stampatori antichi ed editori moderni ad attribuirgli, senza serio fondamento, molti volgarizzamenti di opere religiose. Si ritenne cosa del C. la traduzione trecentesca dell’Apocalisse e del Libro di Ruth; e Carlo Negroni nel secolo scorso lo credette autore o almeno revisore della Bibbia stampata a Venezia nel 1471 dallo Jenson, che è invece un agglomerato di varie traduzioni del sec. XIV. A torto gli venne attribuita l’Ammonizione a Paola dello Pseudo-Girolamo, traduzione della Commonitiuncula ad sororem di un anonimo del sec. VII, e così pure la versione delle Epistole di s. Girolamo. Ancora lo Zambrini gli attribuiva alla fine del secolo scorso, ma senza prove serie, il volgarizzamento dei Soliloqui di s. Agostino, degli Opuscoli di s. Giovanni Grisostomo, dell’Epistola a Raimondo del modo di governare la famiglia dello Pseudo-Bernardo; e giungeva a stampare un Trattato dello Spirito Santo di anonimo, ritenendo di avere trovato il terzo libro della Esposizione del Simbolo. Particolarmente significativa è l’attribuzione del volgarizzamento di alcune delle opere di s. Bonaventura, uno dei più prestigiosi maestri della spiritualità tardomedievale: dalla Meditazione sopra l’albero della Croce (tradotta dal Lignum Vitae) alla Vita di s. Francesco d’Assisi (volgarizzamento della Legenda maior beati Francisci), al Trattato della mondizia del cuore, versione del De modo confitendi et de puritate conscientie, che peraltro è un’operetta spuria (scritta da Matteo di Cracovia, morto nel 1410). Molto incerta è pure l’attribuzione dell’Esposizione del Pater Noster, conservata in duplice redazione. In un eccesso opposto caddero quei critici che, dubitando della testimonianza della Cronaca di S. Caterina e dei codici, e adducendo un passo del Chronicon Ordinis Heremitarum S. Augustini di Ambrogio da Cori (morto a Roma nel 1485), vollero dare all’agostiniano Simone Fidati da Cascia i trattati che andavano sotto il nome del Cavalca. La questione si può dire risolta a favore del frate domenicano, soprattutto dopo l’intervento del Volpi, e basterà accennarvi. Già nel sec. XVIII un agostiniano, Giacinto della Torre, pubblicando nel 1779 a Torino le opere di Simone da Cascia, sostenne che a lui dovevano attribuirsi anche gran parte dei trattati recentemente stampati da G. Bottari come opere del Cavalca. Questa affermazione fu radicalmente smentita dal domenicano G. B. Audiffredi; ma a distanza di un secolo fu ripresa da L. Franceschini, A. Morini e N. Mattioli. In particolare il Mattioli, dei tre il più attivo e attendibile, giunse ad attribuire lo Specchio di Croce, la Disciplina degli spirituali e il trattato delle Trenta stoltizie a Giovanni da Salerno, discepolo del Fidati. Queste ipotesi, come pure la teoria conciliante che suppone un originale latino del Fidati tradotto dal C. (sostenuta dal Manni, dal Tiraboschi e a un certo punto anche dal Bottari), sono cadute in discredito, ma non dimenticate del tutto. Recentemente il Dufner ha espresso qualche dubbio sull’autenticità dei trattati cavalchiani, soprattutto della Disciplina e delle Trenta stoltizie. Va precisato che esiste almeno un codice dello Specchio di Croce (Ms. Ital. I, 36 della Biblioteca Marciana di Venezia), in cui a f. 1 si indica come autore Simone da Cascia. Questa testimonianza, tarda (del sec. XV) e contraddetta da molti altri codici, non cambia i termini della questione; ma dimostra che Ambrogio di Cori non fu il solo a equivocare sull’autore dei trattati cavalchiani. Forse l’errore derivò dalla presenza di alcuni trattati del C. in codici che non ne precisavano l’autore e iniziavano con il diffusissimo Ordine della vita cristiana di Simone da Cascia. Così, ad esempio, nel codice 505 della Biblioteca Trivulziana di Milano all’Ordine seguono, senza indicazione d’autore, la Disciplina degli Spirituali e le Trenta stoltizie.
Nell’ambito del programma culturale domenicano del primo Trecento il C. rappresenta la corrente più popolare. Dopo Giordano da Pisa, che volgarizza le novità filosofiche della matura scolastica, e accanto al classicheggiante Bartolomeo da San Concordio, egli si riallaccia alla più antica e genuina letteratura monacale. I testi da lui tradotti, uscendo dal chiuso dei cenobi, si impongono alla fantasia e alla devozione laicali come modello di un nuovo sistema narrativo. I volgarizzamenti eseguiti dal C. e dai suoi collaboratori rappresentano il momento più felice in quel programma di diffusione della cultura religiosa, che gli Ordini mendicanti perseguono con la predicazione volgare e con le traduzioni dei più importanti monumenti della letteratura sacra. La prosa del C. tocca la misura di un’eleganza raccolta e uniforme esercitandosi nella libera traduzione dei testi fondamentali del monachesimo orientale e occidentale: le Vitae Patrum e i Dialogi libri IV di s. Gregorio.
Il Dialogo è uno dei libri più popolari della civiltà medievale: dopo la Bibbia è certo il più tradotto nelle lingue moderne. Il volgarizzamento del C. è nuovo per la Toscana, ma non è il primo in Italia, poiché già verso il 1320 il francescano Giovanni Campulu aveva ridotto in volgare siciliano quest’opera a istanza di Eleonora di Valois, sposa di Federico II d’Aragona, aprendo così la via ad una serie di volgarizzamenti che si susseguono ininterrottamente nel Trecento (due in Toscana, uno a Verona) e nei secoli seguenti, fino all’edizione cinquecentesca di Torello Fola, canonico di Fiesole. Il Dialogo è tra i libri più diffusi del C., come attestano i quasi cento codici che rimangono, i sei incunaboli e le quattro cinquecentine note ai bibliofili; ed è anche l’unico testo cavalchiano che sia oggetto di studi recenti. Le ricerche di U. Moricca sulla tradizione latina del Dialogo hanno consentito a Giuseppina Traina (e quindi a Georg Dufner) l’identificazione del modello su cui lavorò il C., un codice del gruppo più tardo, al quale appartengono i codici siglati V3 C O2, con ritocchi classicheggianti dell’originale; e quindi di verificare il comportamento del traduttore. I saggi della Traina e del Dufner dimostrano che egli si attiene ai principi esposti nel Prologo: si rispetta l’originale, ma badando al senso globale della frase piuttosto che al preciso ordine delle parole, glossando i termini latini che non hanno un equivalente volgare, abbreviando le amplificazioni retoriche del testo latino. Nel complesso la traduzione è tra le più attente di quelle dovute al C.: pochi gli errori e i passi accorciati o eliminati totalmente. Eppure non si può scambiare il lavoro del domenicano per una versione nel senso moderno della parola: il suo stile è ben evidente negli ampliamenti didascalici (spesso introdotti da formule fisse, per esempio “cioè”), nello studio attento delle immagini, sempre chiare e realisticamente sottolineate, nelle smorzature dei preziosismi e degli esotismi del testo latino. È un’interpretazione stilisticamente coerente, che si affida a una sintassi personale, costruita su chiare simmetrie, su armoniose dittologie, da cui scaturisce la persuasiva compostezza della narrativa cavalchiana. Il Dialogo, soprattutto il secondo libro dedicato alla vita di s. Benedetto, che ebbe circolazione a parte, ha pagine di dolce e calma evidenza, dove la materia a volte arcigna e paurosa trova una sua misura umana e fiabesca. Le conversazioni tra Gregorio e il diacono Pietro accompagnano familiarmente il lettore lungo la trama degli episodi agiografici, riconducendo anche i casi più meravigliosi ad una morale concreta e sicura. Attorno alle Vite dei santi Padri vi è un nodo di problemi irrisolti. Nella mancanza di un’edizione critica e perfino di studi preliminari sulla tradizione manoscritta non è neppure possibile stabilire dove si fermi la mano del C., e dove intervenga quella dei suoi collaboratori. È imprudente attribuirgli tutti i quattro libri di cui si compone l’opera, ma sarebbe eccessivo limitare il suo lavoro al libro terzo (come volle il Pasqualigo). Si ha l’impressione che il piano dei primi tre libri sia pensato ed eseguito dallo stesso scrittore, secondo il modello di antiche compilazioni monastiche, dove le grandi biografie erano seguite da profili brevi e quindi dai detti dei Padri del deserto; il quarto libro, che convoglia anche materiali agiografici tardi, sembra una prosecuzione poco coerente del piano originario, ma non si può escludere che anche qui si trovino pagine cavalchiane. Il frate domenicano traduce alcuni dei testi latini che vanno sotto il titolo di Vitae Patrum, pubblicati in dieci libri da Eriberto Rosweyde nel 1615 (e ristampati dal Migne nei volumi 73 e 74 della Patrologia Latina). Il primo libro delle Vite dei santi Padri inizia con i più antichi e illustri modelli della agiografia monacale: la Vita di s. Paolo primo eremita, la Vita di s. Ilarione di s. Gerolamo, e la Vita di s. Antonio abate scritta da Atanasio e volta in latino da Evagrio. Segue per intero, ma con ordine diverso dei capitoli (I, VII - Epilogo, II-III-IV-VI-V), la Historia Monachorum in Aegypto, resoconto di una visita di sette viaggiatori presso gli eremiti della Tebaide, scritto probabilmente da Timoteo arcidiacono di Alessandria e tradotto in latino da Rufino verso il 402. Il secondo libro traduce il Paradisus Heraclidis, cioè la più antica e autorevole versione latina della Historia Lausiaca di Palladio, discepolo di Evagrio Pontico e vescovo di Hermopolis in Bitinia. L’opera, scritta nel 420 a istanza di Lauso, ciambellano di Teodosio II, evoca con tratti vivaci e rapidi le grandi figure dei Padri, come l’autore li conobbe per esperienza diretta e attraverso più antichi racconti, in parte di origine copta. Il C. segue la traduzione latina eseguita da un anonimo autore, forse africano, nel sec. V, e qui trova la falsa attribuzione a Eraclide; probabilmente ha sott’occhio un codice della redazione rimaneggiata, che il Butler indica con la sigla l2 (App. al vol. 74 della Patrologia Latina). Egli non segue l’ordine originale dei capitoli (il VI, il VII e il XIII sono trasposti alla fine del libro I delle Vite), ne omette alcuni (VIII, X e XXIX), e opera tagli vistosi nell’originale latino.
Il terzo libro è dedicato in gran parte agli Apophthegmata o Verba Seniorum, dove si riflette una delle più autentiche forme della letteratura monastica, che consiste nella registrazione delle risposte dei Padri alle domande dei loro discepoli. Questi “detti”, raccolti già nel secolo V in grandi sillogi greche, giungono in Occidente attraverso varie traduzioni, che conservano in gran parte gli stessi materiali. Il C. si serve della raccolta di Pelagio (papa dal 555 al 560), completata verso il 560 dal suo suddiacono Giovanni (libri V e VI dell’edizione del Rosweyde delle Vitae Patrum); e anche della silloge tradotta dallo Pseudo-Rufino (libro III delle Vitae Patrum). L’adattamento cavalchiano confonde i contorni di questi diversi originali, ne elimina le caratteristiche più marcate (ad esempio la distinzione per capitoli della raccolta di Pelagio e Giovanni), vi immette altri materiali eterogenei, derivati dal Dialogus di Sulpicio Severo e dalle Collationes di Cassiano, dando così forma ad un'opera personale. Con il quarto libro delle Vite si torna alla formula delle biografie estese. Il primo testo, la Vita di Giovanni Patriarca o Elemosiniere, scritta nel secolo VII da Leontio, vescovo di Cipro, e tradotta da Anastasio bibliotecario, comprende ben quarantadue capitoli; e conosce una circolazione manoscritta notevole come testo isolato. Seguono alcune delle vite più famose dell’intera raccolta: la romanzesca Vita di Malco, stranamente separata dalle altre due biografie di s. Gerolamo, la Vita di s. Abraam romito; e poi la splendida serie dei profili femminili tra i quali spicca indimenticabile quello di S. Maria Egiziaca. La fonte principale di queste agiografie è il libro I delle Vitae Patrum, ma qui si aggiungono malamente altri racconti tratti non solo dal libro IV delle stesse Vitae, ma perfino dalla Legenda Aurea di Iacopo da Varazze (ad esempio la Leggenda di s. Eustachio). Fin dall’origine i racconti destinati a confluire nelle Vitae Patrum costituiscono una letteratura popolare di grandissima circolazione, in grado di commuovere non solo intellettuali come s. Agostino, che fu toccato dalla Vita Antonii (com’egli racconta in Conf., VIII, 6, 14) in un momento cruciale della sua conversione, ma di appassionare i più vari e modesti lettori. Per secoli, lungo tutto il Medioevo, non vi fu rinnovamento della vita religiosa che non si richiamasse all’esempio di Antonio e dei suoi seguaci orientali. Il Petrarca non si sottrae al fascino di questa grande letteratura, da lui definita “copiosa et amena et varia et penetrabilis atque ignea” (De vita solitaria, II, 2). Il C. restituisce ad una facile lettura un corpus agiografico che per la sua veste latina rischiava di divenire geloso possesso delle cerchie monastiche. Egli, come avverte nel prologo, “lascia i latini molto esquisiti e sottilmente dettati”, le “sottigliezze” e i” colori retorici” prendendo “uno stile semplice” adatto a “uomini semplici e non litterati”. Ne vien fuori una raccolta di exempla ad uso di devoti lettori e di predicatori, dove i temi fondamentali dell’ascesi cristiana (la fuga dal mondo, la milizia contro le tentazioni del demonio, la lode di Dio) rivivono sullo sfondo delle solitudini egiziane. Lo stile del C. coglie adeguatamente la dolcezza fiabesca che emana da queste “short stories” del deserto. Certi paesaggi, che si ripetono uguali nel loro disegno, e pur sempre variati di nuove coloriture romanzesche, hanno ispirato un fortunato genere di pittura, che va dagli affreschi degli Anacoreti nel Camposanto di Pisa, distribuiti secondo l’ordine del testo cavalchiano, fino alla Tebaide degli Uffizi attribuita allo Starnina (o al Beato Angelico).
Di minore interesse appaiono gli altri due volgarizzamenti del C., che pure ebbero una notevole diffusione. Gli Atti degli Apostoli seguono con un certo scrupolo l’originale latino, ma con continue glosse, tanto da far supporre a qualche studioso (Berger, Minocchi) che egli rimaneggiasse una traduzione più antica. Anche in questa prova minore dell’arte cavalchiana vi sono pagine di notevole bellezza: come il capitolo della conversione di Saulo, dove l’originale è arricchito da qualche tocco novellistico, (l’aggiunta dei “masnadieri” che accompagnano il persecutore) e variato con glosse assai espressive (“subito circumfulsit eum lux de caelo” è reso con “subitamente lo circumfuse una luce dal cielo, per la quale occhibaglioe”). L’Epistola a Eustochio, ventiduesima dell’Epistolario di s. Gerolamo, è un’appassionata esortazione alla verginità e una sferzante satira del mondo cristiano di Roma. Nella traduzione del C. prevale un tono pianamente didascalico, ma la violenza del testo latino è adeguatamente resa in certe acri pagine sulla corruzione delle religiose romane; e lo stile si fa più personale e delicato là dove si tocca dell’argomento prediletto dell’anacoretismo egiziano (ad esempio nel capitolo XI).
I nove trattati del C. derivano in gran parte, come ha dimostrato lo Zacchi, dalle Summae virtutum ac vitiorum del domenicano Guglielmo Peyraut: un’opera, terminata prima del 1248, che riflette una cultura attardata nella tradizione agostiniana, e ancora poco familiare coi temi speculativi della scolastica. Era il repertorio più adatto a chi, come il C., intendeva “come semplice” parlare in volgare “per uomini semplici e idioti”, evitando le sottigliezze dei teologi. I prologhi ai trattati definiscono bene il sistema di lavoro del compilatore: nella Medicina del cuore egli dichiara di mettere “niente o poco” di suo, limitandosi a raccogliere la materia da diversi libri, e ad ordinarla chiaramente in capitoli; nel Pungilingua precisa di tradurre dalla Somma de’ vizi del Peyraut, salvo poche aggiunte. La sensibilità letteraria del C. è quella di un abile predicatore, che vuole tenere avvinto il suo uditorio, curandosi di “dire utile” piuttosto che di “dire bello”: “Se la midolla è buona – scrive nel prologo allo Specchio di Croce – e le sentenzie sono vere, della scorza di fuori e del parlare dipinto e ordinato poco curo”. Il suo pensiero in proposito è ulteriormente precisato nella parte centrale dei Frutti della lingua (capitoli XXV-XXVIII), una sorta di trattatello sulla predicazione, dove sono ripetuti gli argomenti fondamentali delle Artes praedicandi, a cominciare dal De eruditione praedicatorum di Umberto di Romans, quinto maestro dell’Ordine domenicano. Se Umberto biasima i predicatori che disertano i piccoli centri, il C. ha parole durissime contro i superbi che “non vogliono predicare se non a gran popolo, ed a onorabili persone e letterate, per mostrare la scienza loro più che per insegnare la via di Dio” (cap. XXV). In particolare egli mette in guardia da un tipo di predicazione ai laici che vuole imitare inopportunamente il sermone universitario: sono vani e superbi quelli che spiegano dal pulpito le “sottilità” della filosofia “rifiutandosi di predicare gli esempi e li miracoli delli santi, dicendo che sono cose da fanciulli e da femmine, non pensando che a mutare li cuori delli peccatori queste cose sono più utili” (cap. XXVIII). Sotto questo aspetto l’idea di predicazione e di letteratura del C. si differenzia da quella realizzata all’inizio del secolo dal suo confratello Giordano da Pisa. Non per nulla la più vivace delle operette cavalchione è il Pungilingua, la più ricca di aneddoti esemplari, di miracoli, di proverbi e di altri materiali folclorici. Il trattato vuol mettere in guardia dai vizi che nascono dal cattivo uso della lingua. Precedono alcune considerazioni sulla nobiltà e l’utilità del linguaggio (quasi un abbozzo dei Frutti della lingua), poi si passano ordinatamente in rassegna i peccati che l’uomo commette parlando: la bestemmia, la mormorazione, lo spergiuro, la menzogna, la detrazione, l’adulazione, la maledizione, il “convizio” o improperio, la beffa, e così via con precisione sempre crescente, fino al parlare scurrile dei giullari. L’autore segue lo schema del De peccato linguae, che fa da conclusione della Summa vitiorum del Peyraut, ma si comporta molto liberamente rispetto all’originale: salta le parti meno interessanti (il capitolo III non traduce per intero il corrispondente cap. II “De peccato murmuris”), fonde diversi capitoli (il capitolo XXI riassume i XIV e XV del De peccato linguae), aggiunge altri materiali desunti dalla medesima Summa o di diversa provenienza. Così gli ultimi capitoli dedicati al ballo e agli indovini derivano dal De luxuria e dal De superbia. La struttura del trattato non è delle più equilibrate, ma ha il vantaggio di raccogliere in un repertorio di facile consultazione, anche per i frequenti rimandi interni e le sistematiche ripetizioni, i più comuni argomenti della predicazione popolare. I bersagli più insistentemente colpiti sono i giullari che distolgono i fedeli dalle prediche, e con loro i prelati che li mantengono, lasciando morire di fame i poveri di Cristo (cap. XXVII); le mezzane disposte “per un bicchiere di vino” a perdere le anime e a vituperare i corpi delle giovani (cap. XIX), le donne fatue che si acconciano con capelli posticci e uccidono le anime dei giovani coi loro canti e coi balli seducenti; e poi i malefici, gli incantatori, i negromanti. In queste notazioni di costume il C. non si distacca dalla sua fonte, ma talvolta aggiunge osservazioni originali, espresse con vivace precisione. Autentica è l’indignazione del C. contro falsi profeti, eretici e visionari, che vanno predicando senza l’autorizzazione dei superiori ecclesiastici (cap. XXIII). In lui, come in tutti i maggiori predicatori domenicani del primo Trecento, vi è una vivissima preoccupazione per il diffondersi di nuovi movimenti ereticali, in particolare quello degli “apostoli”, seguaci di Gherardo Segarelli. Il problema è trattato con particolare interesse nei Frutti della lingua, dove più volte si richiama la necessità di estirpare il pericolo di quei poveri “che comunemente si chiamano Apostoli, e vanno cantando per aver da mangiare” (cap. II). Ma non meno insidiosi sono “certi fraticelli e Sarabaiti [dal nome di antichi monaci egiziani celebri per la loro indisciplinatezza] li quali ingannano le feminelle ed i semplici con loro falsi segni e sermoni ipocriti” (cap. XV). Costoro peccano soprattutto usurpando l’ufficio della predicazione: “Onde molto offendono in ciò molti presuntuosi fraticelli e femminelle che, essendo rozzi ed idioti, presumono di parlare e predicare delle Scritture sante” (cap. XXVII). I Frutti della lingua sono scarsamente originali dal punto di vista dottrinale (i capitoli sull’orazione – I-XXIV – derivano dal De iustitia del Peyraut, e le altre parti sulla predicazione e sulla confessione, sebbene non riflettano fonti chiaramente identificabili, ripropongono argomenti ben noti alla cultura del tempo); la loro novità, come quella del Pungilingua, è nella chiarezza espositiva e soprattutto nell’arte della narrazione. Soltanto nel Pungilingua, a parte gli aneddoti tratti dalle Scritture, si contano più di sessanta exempla; più di cinquanta sono quelli che ricorrono nei Frutti della lingua. Di questi solo una piccola parte è tradotta dalla Summa del Peyraut, gli altri derivano dalle più diffuse raccolte esemplari del primo Trecento: soprattutto dall’Alphabetum Narrationum compilato dal domenicano Arnoldo da Liegi verso il 1308. Un esempio di come il C. si preoccupi di variare ed arricchire l’originale latino si può vedere nel capitolo II del Pungilingua, che traduce il capitolo I del De peccato linguae (“De blasphemia”). Egli non accoglie soltanto l’exemplum del “fanciullo bestemmiatore” (che deriva dal Dialogo di s. Gregorio), ma vi aggiunge altri tre racconti che si trovano assieme a quel primo nell’Alphabetum Narrationum (nn. CXVI, CXVII, CXVIII); al contrario sopprime un altro aneddoto tratto dalle Vitae Patrum (lib. III, n. 57: lib. VII, cap. I, n. 5, “l’abate Parmene prende su di sé la bestemmia involontaria di un monaco”). Purtroppo non esistono studi, salvo i cenni preziosi del Monteverdi, su questo aspetto saliente dell’arte del C., importante non solo per una giusta valutazione della sua originalità di scrittore, ma soprattutto per la storia di un genere letterario che nel Trecento presenta numerosi contatti con la novellistica. Il corpus cavalchiano rappresenta un documento fondamentale per la storia della diffusione e rielaborazione di un’enorme quantità di “motivi” novellistici. Così nel capitolo XXIII del Pungilingua (“Del peccato del rivelare i secreti”) si registra una variante fino allora non documentata di un racconto popolare: quello del marito che per mettere alla prova la segretezza della moglie le confida di aver fatto un corvo (un uovo secondo il Cavalca). L’exemplum è raccolto nei più importanti repertori, dai Gesta Romanorum agli Hecatomythia di Lorenzo Abstemio, e troverà la forma più brillante (con la variante cavalchiana) ne Les femmes et le secret di La Fontaine.
Le caratteristiche della scrittura cavalchiana qui rilevate sono presenti, ma non sempre con la stessa evidenza, negli altri trattati, tra i quali spicca per ampiezza e ricchezza di dottrina le Medicina del cuore ovvero Trattato della Pazienza. Il titolo è giustificato dall’essere l’opera composta di due libri, ognuno col suo prologo, dedicati il primo all’Ira e l’altro alla Pazienza, due rivali familiari all’allegorismo medievale fin dalla Psychomachia di Prudenzio. Le due parti, che ebbero anche circolazione manoscritta separata, sono concluse da un Trattato di quattro capitoli di argomento vario: i dieci comandamenti (tema d’obbligo nella predicazione ai laici), la speranza e la disperazione, la gloria di vita eterna (a volte isolato nei codici). Il canovaccio è fornito anche questa volta dal Peyraut (De ira e De fortitudine), ma il testo latino è sistematicamente trasformato da una lingua aderente alla realtà e nello stesso tempo capace di esprimere le immagini più delicate e fantasiose. Soprattutto nel libro I si leggono pagine di forte rilievo sulla guerra. Il vecchio motivo dei “martiri del demonio”, noto alla predicazione contemporanea, è rinnovato con un sincero soprassalto di orrore dal mite domenicano: per lui è mirabile e assieme orrendo lo spettacolo dei mercenari, “uomini venderecci che sono sì vili, che per soldo si mettono a guerreggiare eziandio le guerre che non sono loro” (cap. IX). La sensibilità del C. è naturalmente inclinata ai temi del secondo libro, una lettura ideale per gli ambienti monastici del tardo Medioevo. Il grande argomento della Pazienza è ampiamente svolto in ventisei capitoli, con un tono suadente e analitico, per serie di immagini attinte ad uno sperimentatissimo linguaggio religioso. In questo trattato la similitudine ha un particolare rilievo retorico, ed è usata con insistente frequenza, spesso in serie, con effetti stilistici non trascurabili.
La dipendenza del C. dalla Summa del Peyraut è meno continua nella Disciplina degli spirituali, che prendendo spunto dal capitolo V dell’epistola ai Galati esamina i dieci vizi delle persone spirituali “più di vista che di fatti”: cioè tiepidezza, vanagloria, superbia, invidia, crudeltà verso i difetti altrui, sicurezza di sé, impazienza, negligenza nello studio delle Scritture, ingratitudine verso i maestri, accidia. Alcuni passi derivano dal De acedia, ma gran parte del trattato deriva da altre fonti, purtroppo non ancora ben indagate. Qui la letizia del narrare cede a un piglio insolitamente arcigno: scarseggiano gli exempla, ridotti a una ventina, e abbondano le invettive ora contro i prelati avidi, ora contro i nuovi e rozzi santi “che leggere non vogliono né studiare” (cap. XIV); e naturalmente contro gli apostoli “i quali vivono contra gl’instituti della Chiesa e vita di Cristo, e apostolica, usurpandosi cotal nome” (cap. XIV). Di gradevole lettura è il Trattato delle trenta stoltizie, che seguendo uno schema suggerito dal De Prudentia e arricchito con materiali del De fortitudine del Peyraut, parla in trenta agili ed eleganti capitoli degli errori che si commettono nella battaglia contro il demonio. L’autore descrive con puntigliosa attenzione le difficoltà dell’esperienza morale ed ascetica, sviluppando dettagliatamente il topos antico della milizia cristiana. La realtà psicologica è tutta risolta in un netto ed esteriore disegno allegorico, dove il C. può sfoggiare le sue doti di rapido e distaccato bozzettista. Egli lavora pazientemente sul senso letterale, tratteggiando scene di guerra con gusto sicuro, ma senza movimento drammatico. Perfino le allegorie sono marcate da una netta forza realistica, sicché la conversione del peccatore può essere descritta come un crudele corpo a corpo.
Tra le opere meno diffuse del C. è lo Specchio de’ peccati, una “generale forma di confessione” ad uso di devote persone: non un manuale ad uso dei confessori, ma uno schema che può servire ad un ciclo di prediche sul sacramento della penitenza o alla riflessione del penitente. Nel prologo egli avverte che scriverà “non per modo di confessione, ma quasi per modo di predicazione”, tacendo prudentemente quei particolari scabrosi che si svelavano nei confessionali latini, perché sarebbe “vituperosa e vergognosa cosa” trattare di tali argomenti in volgare. Ogni peccato ha la sua radice nel cuore dell’uomo, e quindi la materia del trattato viene distribuita in dieci capitoli tenendo presenti i sei movimenti fondamentali dell’anima (amore, odio, dolore, gaudio, timore e speranza), e analizzando i peccati di pensiero, di lingua, di opera e di omissione, causati da ciascuna di quelle passioni. L'ultimo capitolo tratta delle condizioni della confessione, servendosi opportunamente di versi mnemonici latini; in appendice si dà una formula di confessione. L’opuscolo è scritto in uno stile secco e frettoloso, e propone una casistica generica, raramente variata da qualche aneddoto (una decina in tutto) o da qualche immagine più concreta. L’esperienza personale del frate domenicano si fa viva in certe invettive contro i superbi che sdegnano “li poveri e gl’infermi”, fuggendone la compagnia, e mostrando “grande pompa e vanità in vestimenti, e ornamenti, e conviti e in molti altri atti e modi contrari a Cristo umile” (cap. II); la sua prudenza si rivela in certe perplessità morali, come quando dichiara “Non m’ardisco però a diffinire che [ ... ] ogni allegrezza, quantunque vana e mondana, sia peccato mortale” (cap. VII). Anche in questo testo, soprattutto nel capitolo X dedicato all’inesauribile materia dei sogni e della magia, vi sono osservazioni interessanti e bizzarre; ma queste poche pagine non bastano a riscattare un’opera grigia e poco attraente, che ha un certo rilievo solo se studiata nell’ambito più vasto, e storicamente assai interessante, delle Summe penitenziali.
Una lettura del C. fatta solo con criteri estetici sarebbe inopportuna, poiché le sue opere costituiscono soprattutto un momento fondamentale nella evoluzione della pietà laicale alla fine del Medio Evo. In lui vi è una autentica conoscenza dell’esperienza ascetica e della sensibilità popolare, che gli consentono di porsi tra i maestri più sicuri e ascoltati della spiritualità medievale. Lo dimostra in particolare lo Specchio di Croce, la sua opera più originale (anche se manca uno studio approfondito sulle sue componenti dottrinali), e la più letta, come dimostrano i più che cento codici a noi giunti e le trentotto edizioni. Il breve trattato svela chiaramente il nucleo cristocentrico della spiritualità cavalchiana: “Cristo – così scrive nel prologo – è lume e specchio d’ogni perfezione; ed è in croce, quasi come maestro in cattedra che insegna, a qualunque vi pone la mente, ogni perfetta dottrina”. Levato da terra, il redentore attira a sé tutto l’uomo, composto di intelletto, affetto e memoria. Questa distinzione, basata su una comunissima clavis psicologica usata dai predicatori, dà l’avvio al trattato, sapientemente organizzato secondo le tecniche più semplici della predicazione: divisioni e suddivisioni, a volte prolungate per più di un capitolo (così come si prolungavano per più di un sermone), catene di ragionamenti scritturali, sintesi finali. Lo Specchio di Croce assomiglia a un ciclo continuo di prediche per la Passione sia per l’argomento sia per il linguaggio crudamente patetico. Qui il C., allontanandosi dai consueti registri moralistici, si ispira alla prosa lirica dei Sermones in Cantica di s. Bernardo, riproducendone gli artifici di stile isidoriano (soprattutto nel capitolo XXV, dove si notano versi e homoioteleuta), e l’audace gioco delle metafore. La realtà quotidiana scompare quasi del tutto (e quindi scarseggiano gli exempla e i proverbi, che ne colgono il profilo più concreto), mentre lo scrittore si concentra nell’evocazione commossa delle pagine più drammatiche dei Vangeli, a volte col soccorso di dettagli apocrifi. Anche in questo libro non mancano rimproveri contro il clero, tanto avido da potersi dire santo “quello prelato il quale, poniamo che non distribuisca del suo, non toglia e rapisca quello d’altrui” (cap. VII), contro i monaci che si scelgono vesti delicate come quelle dei cavalieri, scusandosi col dire che “il buon panno dura più” (cap. XIX); contro i ricchi che hanno “molto maggior cura... dei loro cani, uccelli e cavalli, che dei loro famigli e prossimi” (cap. XXX). Tuttavia queste allusioni alla società contemporanca non distraggono dal discorso principale, che è fuori dalla storia, e ripete il linguaggio fortemente immaginoso della tradizione mistica. Ciò è vero soprattutto nei capitoli centrali, dove si addensano con efficace sintassi enumerativa metafore che a torto un tempo si giudicarono grottesche o barocche. Le rubriche di alcuni dei capitoli più felici bastano a suggerire il tono della scrittura cavalchiana: il capitolo XXXII spiega che “Cristo in croce sta come uomo innamorato e come cavaliere armato”; nel seguente si dice che “è assomigliato a’ mantici d’accendere il fuoco”; nel capitolo XXXVI si descrive “Come Cristo in croce sta come libro, nel quale è scritta ed abbreviata tutta la legge, e specialmente la carità del prossimo”. Ma di questo linguaggio metaforico, audace e sublime, vive tutto il libro, violento e dolce assieme, crudamente realistico nei particolari epperò assorto in una poesia visionaria.
La prova ultima e dottrinalmente più ambiziosa, quasi obbligatoria nella carriera di un domenicano (non vi si sottrasse neppure Tommaso d’Aquino), è l’Esposizione del Simbolo degli Apostoli, rimasta interrotta al capitolo XXII del secondo libro. Nel prologo l’autore afferma di attenersi alle sentenze dei dottori, e di attingere alla Summa Theologiae dell’Aquinate (già solennemente citato nell’ultimo capitolo dello Specchio de’ peccati). In realtà egli si serve solo parzialmente della esposizione In articulos fidei et Ecclesiae sacramenta, uno degli Opuscula di Tommaso; la vera fonte è ancora il Peyraut (De Fide). Il C. lo segue fedelmente, ma salta i passi dottrinalmente più impegnativi (come nei capitoli XVIII e XIX del libro I, tradotti dal capitolo VIII del De Fide), spesso sacrifica le citazioni classiche dell’originale, talvolta utilizza altre fonti, dimostrando una cultura teologica molto solida e ampia, se non del tutto originale.
La diffusione delle opere del C. costituisce un grande fenomeno di cultura, che tocca il culmine nel Quattrocento. Infatti gran parte dei manoscritti e delle stampe sono di quel secolo, mentre l’interesse dei lettori devoti pian piano diminuisce lungo il Cinquecento, fino a restringersi ad una curiosità puramente linguistica nel primo Seicento. Il censimento dei codici, avviato dal Dufner e dal Kaeppeli, ci mostra un circuito di diffusione che va dai conventi ai più modesti scriptoria di laici devoti, con eccezionali casi di inversione del movimento, quando codici usciti dalle mani dei laici vengono acquisiti da biblioteche conventuali. L’ambito geografico di questa circolazione si estende dalla Toscana a tutta l’Italia, in particolare al Veneto; e tocca perfino la penisola iberica con le traduzioni castigliane dei trattati più famosi (Specchio di Croce, Pungilingua e Trattato della Pazienza). Il pubblico ideale dei C. è formato dai laici “senza gramatica”, ma le sue opere vengono copiate e lette soprattutto nei conventi. Non soltanto i domenicani, ovviamente interessati alla diffusione di questa letteratura, ma anche gli altri ordini ne promuovono efficacemente la fortuna: dai benedettini agli agostiniani, dai francescani ai carmelitani. La prova è nelle numerose soscrizioni di copisti e nelle note di possesso sparse nei più che cinquecento codici di cui consta la tradizione cavalchiana. I nomi dei copisti sono per lo più modesti ed oscuri; e talvolta si tratta di religiose, come la suor Angelica, domenicana di S. Iacopo di Ripoli, che esempla lo Specchio di Croce nel Riccardiano 2102, definendosi “indegna serva e schiava di Jesù Cristo”; o la “meschinella” che copia il codice 46 della Comunale di Verona, miscellanea domenicana che raccoglie opere del C. e frammenti della predicazione di fra’ Giordano da Pisa. Tuttavia non mancano presenze estremamente significative sul piano culturale: uno dei più importanti protagonisti della storia religiosa del Quattrocento, Iacopo della Marca, è il committente di un’antologia dell’opera cavalchiana, che comprende il Dialogo, lo Specchio di Croce e il Pungilingua (codice 57 dell’Archivio comunale di Monteprandone). Intensa è anche l’attività dei laici: notai, come il ferrarese Bongiovanni di Agnello che copia i sonetti delle Trenta stoltizie nel Vaticano Urbinate lat. 1439; artigiani, come Francesco di Iacopo di Gianni, speziale in Mercato Vecchio, che trascrive in trenta giorni, nel 1378, il Dialogo e lo Specchio di Croce nel codice Riccardiano 1315, oppure Bianco di Ghinozzo dei Cancelieri, di Doffo lanaiuolo, copista nel 1454 di un autorevole codice delle Vite dei santi Padri (codice II I 110 della Biblioteca nazionale di Firenze, già della Crusca); maestri, come Antonio Perdi da Lucca, precettore dei figli di Carlo Macinghi, copista del Laurenziano Plut. 89 Sup. 98, che contiene il Trattato della Pazienza. Di particolare interesse è l’intervento, come copisti o come possessori, di letterati: così il rimatore senese Mariano di Matteo Dati trascrive il Dialogo nel Chigiano L V 174; e Tommaso Benci, intrinseco del Ficino, possiede il codice II IV 79 della Biblioteca nazionale di Firenze, dove si legge lo Specchio di Croce, e dove egli trascrive, forse di proprio pugno, il sonetto “Quand’io penso talvolta all’ultim’ora”. La fortuna moderna del C. inizia nella prima metà del Settecento con le monumentali edizioni di D. M. Manni, che nel 1731-35 stampa le Vite dei santi Padri (con app. di leggende), e di G. Bottari, il quale tra gli anni 1738 e 1764 pubblica gli altri volgarizzamenti e tutti i trattati cavalchiani (eccetto lo Specchio de’ peccati, che fu edito nel 1828 da Francesco Del Furia). A quest’epoca, e soprattutto nel caso del Bottari, la filologia è ancora a servizio di preoccupazioni devozionali, sicché i testi del C. sono presentati come classici della lingua, ma anche della spiritualità cristiana. Più avanti, nell’età del purismo, con le edizioni del Cesari, le antologie di Basilio Puoti e di Francesco De Sanctis, e i lavori di altri eruditi (soprattutto dell’oratoriano Bartolomeo Sorio), il C. diventa il prototipo del puro stile trecentesco. L’ultimo serio sforzo per pubblicare degnamente il corpus cavalchiano è di quest’epoca; poi, nonostante le lodi dei critici e dei poeti (dal Carducci al D’Annunzio al Croce), l’opera del domenicano è riproposta in ristampe o in antologie di poco valore.
Un primo avvio del censimento dei manoscritti del C. si trova in F. Di Mauro di Polvica, Di un codice cartaceo del XIV sec. inedito contenente le opere minori di frate D. C. posseduto da un sozio della Comissione pei Testi di Lingua, in Il Propugnatore, II (1869), parte 2, pp. 3-27; IX (1876), parte 1, pp. 82-106, 424-429; parte 2, pp. 90-104 (con edizione del Prologo e dei primi cinque capitoli dello Specchio di Croce); C. e L. Frati, Indice delle carte di P. Bilancioni, I, Bologna 1893, pp. 191-199; G. Volpi, Per il trattato delle “Trenta Stoltizie”, in Rassegna bibliografica della lett. ital., XII (1905), pp. 179-183 (descrive sedici codici fiorentini del trattato); O. Coppoler Orlando, Un codice del “Credo in Dio” di Fra D. C. ignoto ai bibliofili, in Arch. stor. sicil., n.s., XXX (1905), pp. 298-300; A. Tenneroni, Inizii di antiche poesie italiane religiose e morali..., Firenze 1909; L. Frati, Per due antichi volgarizzamenti, in Giornale storico della lett. ital., LXVIII (1916), p. 186 (sull’Epistola a Eustochio); Id., Per un volgarizzamento del C., in La Rassegna, XXIX (1921), pp. 265-266 (su un codice delle Vite); G. Dufner, Die Dialoge Gregors des Grossen im Wandel der Zeiten und Sprachen, Padova 1968, pp. 73-118 (elenco dei codici del Dialogo); T. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medis Aevii, I, Romae 1970, pp. 304-314 (elenca codici e stampe di tutte le opere). Il censimento dei codici delle Vite dei santi Padri è stato avviato da chi scrive (Per l’edizione delle “Vite dei santi Padri” del Cavalca. La tradizione manoscritta: i codici delle Biblioteche fiorentine, in Lettere italiane, XXIX [1977], pp. 265-289; XXX [1978], pp. 47-87). Di un codice delle Vite della prima metà del sec. XIV (messo all’asta da Hoepli nel 1933, e non rintracciato) si dà notizia nella Bibliofilia, XXXV (1933), p. 119 (con una tavola).
Molte delle opere del C. furono pubblicate da G. Bottari: Lo Specchio di Croce, Roma 1738; Il Pungilingua, ibid. 1751; I Frutti della lingua, ibid. 1754; Medicina del cuore ovvero Trattato della Pazienza, ibid. 1756; Disciplina degli spirituali col Trattato delle trenta stoltizie, ibid. 1757; Esposizione del Simbolo degli Apostoli, ibid. 1763; Volgarizzamento del Dialogo di s. Gregorio e dell’Epistola di s. Gerolamo a Eustochio del padre D. C. con alcune poesie dello stesso, ibid. 1764. Questa serie di testi fu ristampata a Milano (dal 1837 al 1842) da Giovanni Silvestri. Questi tuttavia preferì riprodurre (nel 1837) lo Specchio di Croce secondo l’edizione di G. Taverna (Brescia 1822); e dell’Esposizione del Simbolo diede un nuovo testo a cura di F. Federici (I-II, 1842). Il Silvestri completò l’edizione del corpus cavalchiano pubblicando nel 1830 (in sei tomi) il Volgarizzamento delle Vite dei santi Padri, per la prima volta sotto il nome del C., secondo l’edizione di D. M. Manni (Firenze 1731-1735, in quattro tomi, di cui gli ultimi due contengono le Vite di alcuni santi scritte nel buon secolo della lingua toscana); nel 1838 Lo Specchio de’ peccati, secondo l’edizione di F. Del Furia (Firenze 1828); nel 1842 il Volgarizzamento degli Atti Apostolici, rifatta su quella curata da Bonso Pio Bonsi (Firenze 1769). L’edizione milanese del Silvestri rimane la più accessibile, ma per le Vite dei santi Padri il testo meno infido è quello dell’edizione a cura di B. Sorio e A. Racheli (Trieste 1858). Moltissime le antologie: basti ricordare le più recenti a cura di M. Bontempelli (I-II, Milano 1915) e di C. Naselli (Torino 1926). Qualche saggio di edizione secondo criteri moderni si trova nelle antologie di A. Levasti, Mistici del Duecento e del Trecento, Milano 1960 (dallo Specchio di Croce e dai Frutti della lingua); C. Segre, Volgarizzamenti del Due e Trecento, Torino 1953 (dal libro II del Dialogo); G. De Luca, Prosatori minori del Trecento. Scrittori di religione, Milano 1954 (dal Trattato della Pazienza, dalle Vite e dal Dialogo). Non esiste una raccolta completa delle rime del C., stampate sparsamente: si veda per un primo orientamento il Saggio di poesie di fra D. C., per cura di L. Simoneschi, Firenze 1888. Per le edizioni di opere attribuite al C. si vedano i rimandi di F. Zambrini, Le opere volgari a stampa, Bologna 1878, col. 258, e G. Paci, D. C. volgarizzatore della “Legenda Maior”, in Italia francescana, XLIV (1969), pp. 322-328. Per le stampe delle Vite v. A. Cioni, Bibliografia de “Le Vite dei santi Padri” volgarizzate da fra D. C., Firenze 1962.
Fonti e Bibl.: Una rassegna della recente critica sul C. si veda in F. Monterosso, D. C. sette secoli dopo, in Cultura e scuola, XII (1973), pp. 99-107. Per la collocaz. del C. nella storia della letter. religiosa e della pietà si vedano: M. Petrocchi, Scrittori di pietà nella spiritualità toscana e ital. del Trecento, in Arch. stor. ital., CXXV (1967), pp. 3-33; G. Cracco, La spiritualità ital. del Tre-Quattrocento, in Studia Patavina. Riv. di scienze religiose, XVIII (1971), pp. 1-45; G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, II, 1, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 793-875. Sulla biogr. e sulle opere in generale si vedano J. Quetif-J. Echard, Scriptores Ordinis Praedicatorum recensiti, I, Parisis 1719, pp. 878 s. (ma con gravi inesatt.); G. Tiraboschi, St. della letter. it., V, Modena 1788, p. 159; Chron. antiqua conv. Sanctae Catharinae de Pisis, a cura di F. Bonaini, in Arch. stor. ital., s. 1, VI (1845), 2, pp. 399-593 (n. CLXVIII); F. Bonaini, Mem. ined. intorno alla vita e ai dipinti di F. Traini, Pisa 1846 (in append. il testamento di Albizzo delle Stadere); P. Dazzi, Della prosa di fra D. C., Palermo 1863 (estr. da La Favilla); F. Falco, D. C. moralista, Lucca 1892; C. Di Pierro, Di alcuni trattati ascetici, in Esercitazioni sulla letteratura religiosa in Italia nei secc. XIII e XIV, a cura di G. Mazzoni, Firenze 1905, pp. 211-218 (e qui vedi anche l’esercitazione di A. Simioni, Alcune leggende, pp. 96-97, sul C. e il ciclo di affreschi del Camposanto pisano). A. Zacchi, Di fra D. C. e delle sue opere, in Il Rosario. Memorie domenicane, XXXVII (1920), pp. 272-281, 308-320, 431-439; Id., La prosa del C., ibid., XXXVIII (1921), pp. 288-295; C. Naselli, D. C., Città di Castello 1925 (rec. di E. Rho, nel Giorn. storico della lett. ital., LXXXVIII [1926], pp. 172-173); R. Barsotti, I manoscritti della Cronica e degli Annales del Convento di S. Caterina di Pisa, in Il Rosario. Memorie domenicane, XLV (1928), pp. 211-219, 284-296, 368-374; T. Taddei, La vita del C. dai suoi scritti, ibid., LIX (1942), pp. 170-175; I. Taurisano, Fra D. C. padre dei poveri (1260-1342), ibid., pp. 161-169; A. Levasti, D. C., ibid., LXVI (1949), pp. 230-242; B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte, Bari 1952, pp. 171-174; A. Monteverdi, Gli esempi dello “Specchio di vera penitenza”, in Giorn. stor. della lett. ital., LXI (1913), pp. 266-339; LXIII (1914), pp. 240-290 (ora in Studi e saggi sulla letter. ital. dei primi secoli, Milano 1954, pp. 240 ss., con importanti osservazioni sugli esempi del C.); G. Getto, Umanità e stile di Iacopo Passavanti, Milano 1943 (ora in Letter. relig. del Trecento, Firenze 1967, pp. 14, 71, 82, 88). Per la quest. dell’attrib. delle opere del C. si veda L. Franceschini, Fra Simone da Cascia e il C., Roma 1897; Id., Tradizionalisti e concordisti in una questione letter. del sec. XIV, Roma 1902; N. Mattioli, Il b. Simone da Cascia..., Roma 1898, prefazione (rec. di A. Galletti nel Giorn. storico della lett. ital., XXXIV [1898], pp. 213-225); Id., Fra Giovanni da Salerno dell’Ordine romitano di Sant’Agostino e le sue op. volgari ined., Roma 1901, pp. 165-319 (rec. di A. Galletti, nel Giorn. stor. d. lett. ital., XI, [1902], pp. 217-219); A. Morini, Le opere di Simone da Cascia attribuite al C., Perugia 1899 (nota non firmata in Giorn. stor. della lett. ital., XXXVI [1900], pp. 244-245); G. Volpi, La questione del C., in Arch. stor. ital. s. 5, XXXVI (1905), pp. 302-318. Sul Dialogo, oltre al citato studio del Dufner, sono da segnalare A. Cenname, Il Dialogo di Gregorio Magno nei volgarizzamenti italiani, in Archivum Romanicum, XVI (1932), pp. 51-95; G. Traina, Sui Dialoghi di s. Gregorio nelle traduzioni di Giovanni Campulu e di D. C., Palermo 1937 (si basa sulla classificazione dei manoscritti fissata da U. Moricca nell’edizione critica dei Dialoghi, Roma 1924, in particolare pp. LXXXIII-LXXXV); M. Porro, Ligure e piemontese in un codice trecentesco del “Dialogo” di s. Gregorio, in Studi di gramm. ital., II (1972), pp. 23-50. Per le Vite dei santi Padri vedi C. Pasqualigo, rec. all’ediz. di C. Gargiolli (Torino 1887), in Riv. critica della lett. ital., IV (1887), pp. 73-76; S. Morpurgo, Le epigrafi volgari in rima del “Trionfo della Morte”, del “Giudizio Universale” e “Inferno” e degli “Anacoreti” nel Camposanto di Pisa, in L’Arte, II, (1899), pp. 51-87 (e sullo stesso argom. L. Bellosi, Buffalmacco e il Trionfo della Morte, Torino 1974); E. Teza, Noterelle alle Vite dei Padri, in Atti e mem. dell’Acc. di scienze, lett. ed arti in Padova, XXII (1905-1906), pp. 37-55; Id., Macario e il demonio, ibid., XXIV (1907-1908), pp. 145-153; A. Salsano, Il volgarizzamento cavalchiano della “Vita Beati Antonii Abbatis”, Firenze 1972. Sui trattati vedi E. Teza, Mescolanze critiche, in Atti e mem. della Acc. di scienze, lett. ed arti in Padova, XIII (1896-97), pp. 78-81 (su una citaz. della Esposizione del Simbolo); Id., Versi nello “Specchio di Croce”, in Bibl. per le scuole class. ital., VI (1893), pp. 1-4; A. O. Rossi, Questione del C. More Findings, in Italica, XXVI (1949), pp. 117-120 (Sul Pungilingua). Sulla traduzione della Bibbia si vedano S. Debenedetti, rec. all’ediz. di C. Negroni (Bologna 1882-1884), in Riv. critica della lett. ital., IV (1887), pp. 10-18; S. Berger, La Bible italienne au Moyen Age, in Romania, XXIII (1894), pp. 390-395; S. Minocchi, La Bibbia nella storia d’Italia, in Studi religiosi, V (1904), pp. 10-12; G. Traversari, La Bibbia volgare in Italia, nelle cit. Esercitazionz sulla letteratura religiosa, pp. 42 s.; A. Vaccari, in Encicl. Ital., Roma 1949, VI, p. 900, sub voce Bibbia; G. De Poerck, La Bible et l’activité traductrice dans les pays romans avant 1300, in Grundriss der roman. Literaturen des Mittelalters, VI, 1, Heidelberg 1968, p. 41; VI, 2, ibid. 1970, p. 72; K. Foster, Vernacular Scriptures in Italy, in The Cambridge History of the Bible, a cura di C. W. Lampe, Cambridge 1969, pp. 456 ss., 462.