CARACCIOLO, Domenico
Nacque il 2 ott. 1715 a Malpartida de la Serena, in Spagna, dove suo padre Tommaso, marchese di Villamarina e Capriglia, era tenente colonnello in un reggimento al servizio di Filippo V. A Napoli il C. fu educato nel collegio detto del Caracciolo, dove venivano accolti i giovani provenienti dai diversi rami della famiglia. Ricevette il genere di istruzione che ordinariamente si impartiva ad uno della sua condizione: un po' di tutto, poesia, matematica, musica, diritto. Le lezioni del Genovesi giovarono successivamente a porlo a contatto con i problemi economici e sociali del tempo, anche se egli non divenne mai un economista. Cominciò con la carriera di magistrato, nella qualità di giudice di Vicaria. Già fin d'allora, però, non mancò di dimostrare una forte insofferenza per l'ambiente che lo circondava, nei cui confronti mostrava un'antipatia ricambiata. Fenomeno allora tutt'altro che raro, questo del "ribelle da salotto", tra i rampolli - specie se cadetti - delle aristocrazie delle zone più depresse della penisola, di fronte ad un mondo in uno stato di avanzata disgregazione, le cui tradizioni frantumandosi non offrivano più solidi agganci per trovarvi una propria collocazione personale. Su un tale cumulo di macerie ingombranti spirava un certo venticello d'oltralpe, col risultato di alimentare insoddisfazioni e propositi di evasione. Fu così che il C., entrato assai per tempo nelle grazie del Tamicci, ne fu incoraggiato ad abbracciare la carriera diplomatica. Per lungo tempo egli verrà considerato come una creatura del Tanucci, da cui ricevette istruzioni orali ed epistolari. Avrebbe del resto concluso la sua carriera occupando a Napoli il posto già del Tanucci.
Nel 1752 ottenne di recarsi all'estero con una missione governativa. Nel 1753 è a Parigi, incaricato di sostituire temporaneamente l'ambasciatore principe di Ardore. Nella qualità di inviato straordinario trascorse un decennio a Torino (1754-1764). Come diplomatico non aveva modo di affrontare problemi di livello elevato, essendo egli il rappresentante di uno Stato di importanza marginale e trovandosi ad agire in un periodo che fu di lunga pace per l'Italia. Non era però privo di spirito di osservazione e amava ragionare, soprattutto nelle lettere al Tanucci, sulle situazioni in cui si trovava a svolgere la sua attività. Il suo soggiorno torinese venne a coincidere con il periodo della guerra dei Sette anni, durante il quale il Piemonte si trovò in difficoltà, dato che la Francia e l'Impero erano ora alleati. Venivano così a mancare, per il re di Sardegna, le possibilità di destreggiarsi, come nel passato, fra l'uno e l'altro dei contendenti, in vista di qualche foglia da strappare del tradizionale "carciofo", la Lombardia. Le difficoltà in cui versava la monarchia sabauda non erano però quelle del Regno di Napoli, interessato al mantenimento della pace in Italia ed alla conservazione del dominio imperiale in Lombardia inteso come freno alle ambizioni dei Savoia. Ciò che colpiva il C. era il modo di sentire unanime dei Piemontesi, le cui simpatie, ovviamente, andavano all'Inghilterra e a Federico II di Prussia. Una unanimità di orientamenti tanto più rilevante se paragonata all'anarchia dei sentimenti dominante fra i Napoletani. Non mancava così il C. di apprezzare i lati positivi dell'indole dei Piemontesi: un senso vigile del proprio interesse, la capacità di riflettere prima di prendere delle decisioni, la laboriosità, la fedeltà alla parola data "affine di mantenersi il credito e di facilitarsi somiglianti aiuti nelle occasioni". Il lato negativo dei Piemontesi era per lui rappresentato dall'essere "disprezzatori delle umane lettere... sepolti profondamente nella ignoranza". Volentieri però egli avrebbe visto la nobiltà napoletana seguire l'esempio di quella piemontese, dedita in maggioranza alla carriera delle armi. Lo entuasiasmava poi addirittura - e ne riferiva al Tanucci - la sistemazione data da Vittorio Amedeo II al problema dei rapporti fra Stato e Chiesa nel senso dell'assoluto predominio dell'autorità del monarca e di un totale svuotamento delle prerogative del clero, oggetto di una deferenza oramai puramente formale. A Torino infine il C. ebbe modo di osservare da vicino l'ordinamento del catasto, che diverrà in Sicilia una delle sue idee fisse. Sono anche di questo periodo i giudizi negativi dati su Venezia, di cui egli prevedeva la fine come Stato indipendente, e sulla Spagna, verso la quale a Napoli si continuava a nutrire un timore reverenziale, anche da parte del Tanucci. Della Spagna il C. constatava la decadenza inarrestabile, e prevedeva la perdita delle colonie americane.
Dal 1764 al 1771 il C. è a Londra, sempre nella qualità di inviato straordinario. Non mancano suoi acuti giudizi sulla situazione del paese e sull'indole degli abitanti. Ciò che più lo impressionò fu l'assoluta subordinazione della politica agli affari. In tal senso non mancò di orientare il Tanucci in sede di trattative per un trattato di commercio fra il Regno di Napoli e la Gran Bretagna. Niente discorsi, ma misure concrete ed estremamente persuasive, come quella di proibire l'importazione nelle Sicilie del pesce salato. Interessanti anche i giudizi sulle "Virtù morali" e sulla "buona fede" delle classi medie in genere ed in particolare degli uomini d'affari. Il commercio rimaneva pur sempre la base per l'esercizio anche delle buone qualità morali, praticate spesso addirittura con "ferocia", ma sempre presupponendo il fatto che la fiducia reciproca deve presiedere al buon andamento degli affari. Al di là di queste notazioni il C. non andò: rimase uno dei tanti visitatori dell'isola incapaci di apprezzare le innovazioni suggerite dalla costituzione inglese e gli spunti che una società dallo sviluppo così insolito poteva offrire alla meditazione dei riformatori. Il clima di splendido isolamento e la singolarità stessa dell'esperimento facevano velo ad una considerazione più approfondita. Le riserve del C. erano anche quelle del Tanucci; la sua problematica era e rimaneva quella dell'assolutismo illuminato, soprattutto dei paesi latini. A Londra il C. strinse ottimi rapporti con l'Alfieri, un altro nobile italiano insoddisfatto del proprio ambiente di origine, girovagante per l'Europa, ma con un senso della propria indipendenza assai più spiccato, proporzionato alla superiorità dell'ingegno ed al rifiuto di inserirsi in qualche modo nel proprio secolo. E paternamente lo assistette e consigliò nelle sue avventure amorose, soprattutto durante il suo secondo soggiorno nella capitale britannica. L'Alfieri nella Vita definirà il C. "uomo di alto sagace e faceto ingegno", nei propri confronti "più che padre in amore".
Il periodo più piacevole e più splendido della vita del C. è rappresentato dal soggiorno a Parigi (1771-1781). Egli vi fu inviato come ambasciatore titolare. Il suo successo mondano fu assai notevole, per non dire addirittura strepitoso. Vi contribuirono perfino il suo fisico (il suo "air épais et massif, avec lequel on peindra la bêtise", verrà anche detto) e il suo francese pessimo ma pittoresco per i suoi napoletanismi, aiutato da un gesticolare abbondante. Il suo modo di definire uomini e cose e di raccontare facezie gli procurò una reputazione salottiera non solo parigina ma europea. Piaceva la sua spregiudicatezza nel giudicare, sorprendente in bocca a un diplomatico, di cui però facilmente si dimenticava che, rappresentando uno Stato che contava poco, poteva senza rischi permettersi atteggiamenti non tollerabili se assunti dall'ambasciatore di una grande potenza. In tal senso va anche ridimensionata la portata del suo ostentato rifiuto di fare la corte alla du Barry, gesto che gli procurò una grande popolarità. Perfettamente fuso con il bel mondo parigino, poteva fare tutto ciò che voleva, senza dover mantenere con l'ambiente quelle distanze che un diplomatico è tenuto ad osservare. I salotti più rinomati se lo disputavano e se lo coccolavano. A gara gli furono amici uomini come Necker, Holbach, Helvétius, e soprattutto d'Alembert. All'hotel de Broglie organizzava magnifiche feste, alle quali assistevano i più cospicui esponenti dell'alta società. Occorre però rilevare che tanto successo va oltre l'abilità del C., organizzatore di festini e conversatore piacevolissimo.
Certo da un lato, con le sue caratteristiche personali, col suo modo di presentarsi tipicamente napoletano, egli veniva incontro ad una certa inappagata libidine del pittoresco che già allora le classi elevate delle società più progredite d'Europa cercavano di soddisfare utilizzando un quadro convenzionale del Meridione d'Italia. C'era Napoli con Pulcinella: più in là c'era la Sicilia feudale che a Parigi e a Londra faceva presentire il "buon selvaggio" Il C. era "divertente", qualità che nei salotti parigini si pretendeva da un napoletano. Oltretutto, in tal modo, un aristocratico meridionale compendiava nella propria figura - esasperati ed elevati alla massima potenza e patenti come in uno spaccato - tendenze, gusti e difetti che, dove più dove meno, erano della nobiltà di ogni paese. In un tipo come il C. un po' tutti si potevano specchiare, riconoscere con maggiore consapevolezza e trovare una giustificazione di vita. Così l'ambasciatore napoletano rifletteva agevolmente una delle due facce dell'età dei lumi: quella del disfacimento di un'aristocrazia sempre più irresponsabile in quanto progressivamente svincolata da una precisa funzione sociale, e sempre più avida di piaceri: disposta, pur di abbracciare una moda qualsiasi che riempisse il vuoto, ad assumere atteggiamenti sbarazzini o di fronda e ad incontrarsi coi riformatori, anche in vista di una tardiva rivincita sul potere reale. Dall'altro lato, agli enciclopedisti il meridionale marchese offriva un utile completamento della loro geografia politica, un "pretesto", un'"occasione" per conglobare nella propria ideologia e nella propria azione un "modello" tipicamente feudale o semifeudale. Ci voleva, insomma, un rappresentante di questo mondo in seno alla compagine degli enciclopedisti. Gli si farà dire tutto ciò che si vorrà; fin troppo, anzi. Così ci fu persino chi arrivò a depositare le proprie uova nel nido del C., proprio quando stava per lasciare Parigi. Il conte di Grimoard, uno dei più attivi organizzatori della campagna contro il Necker specie dopo il Compte rendu au roi del 1781, pubblicò, con la falsa indicazione del C. come autore, un pamphlet antineckeriano. In esso il futuro consigliere militare di Luigi XVI nel periodo costituzionale e futuro editore delle opere del Re Sole faceva assumere all'ambasciatore napoletano atteggiamenti polemici talmente violenti da diventare spesso caricaturali. La Lettre à M. d'Alembert aveva il tono confidenziale di chi, ufficialmente grande amico del ministro, in privato se ne faceva beffe. Il documento getta una luce su quello che doveva essere il tono delle chiacchierate del C. con i suoi amici, e fa leva su certe intemperanze di linguaggio e sulla contraddittorietà dei giudizi su uomini e cose da lui emessi. Dagli storici, in relazione alla sua azione in Sicilia, gli sono stati rimproverati certi suoi eccessi di spontaneità, l'abitudine di prender la gente di petto, l'uso frequente e spesso irresponsabile della raillerie. Certo, caratteristiche del genere non potevano non nuocere a un C. viceré in Sicilia impegnato in una difficilissima battaglia. A Parigi invece lo rendevano simpatico, anche se poi non mancava chi ci speculasse sopra.
Non si vede neppure fino a che punto possa costituire, in questo quadro, un particolare titolo di merito la protezione accordata al musicista barese Niccolò Piccinni, piovuto a Parigi dietro chiamata di un gruppo capeggiato dal C., sostenitore del dramma metastasiano, eminentemente melodico e cantabile, contro la tradizione del Lulli e del Rameau. Accanto all'ambasciatore napoletano erano schierati il d'Alembert, il Laharpe, madame d'Houdetot: e altri, gravitanti intorno al partito dell'Enciclopedia. Il problema era squisitamente politico e la musica non c'entrava per niente, così come il povero Piccinni, sempre più spaesato, costretto a musicare drammi di Quinault e Marmontel di cui a stento capiva il testo. Il lancio del Piccinni avvenne appunto con l'audizione di alcune parti del Roland in casa del Caracciolo. Non mancò un certo successo, destinato però ad estinguersi presto. Il C., come al solito, prestava il suo nome e la sua casa. Così andarono le cose anche per quanto riguarda la lettera del C. al d'Alembert sulla facile soppressione del S. Uffizio a Palermo nell'anno 1782, pubblicata sul Mercure de France, ma limitatamente alla prima parte, la più éclatante, mentre venivano deliberatamente omesse le rimanenti considerazioni che finivano col minimizzare la portata dell'avvenimento. Al d'Alembert e al suo partito conveniva presentare l'episodio su scala europea, come una clamorosa vittoria dei lumi contro le tenebre del Medioevo; mentre in realtà si trattava della soppressione di uno dei tanti organismi di sottogoverno dell'epoca, destinato a dar da mangiare ad un certo numero di famiglie (a cui, comunque, si continuò ad assicurare il pane) e - gestito com'era dai giansenisti ad assicurare a questi ultimi la conservazione di determinate posizioni di potere nei confronti di altre correnti della Chiesa in Sicilia. A ben altre verifiche sarebbero andati incontro i propositi del C., sul terreno concreto della lotta per le riforme, contro una delle aristocrazie più compatte d'Europa.
È del maggio 1780 la nomina a viceré di Sicilia. Che indugiasse un anno a raggiungere la nuova sede e arrivasse a Palermo "col cuore infranto" non depone certo a favore di una particolare dedizione alla causa delle riforme. E certo, un conto era fare il non conformista a Parigi, protetto dalle malattie del secolo e coccolato dai salotti mondani; un altro conto affrontare seriamente a Palermo - e sia pure edendo dell'autorità inerente all'alta carica - un mondo fra i più refrattari alla mentalità illuministica. Un tale stato d'animo di antipatia per l'ambiente siciliano - di risentimento per Palermo tanto diversa da Parigi e per la Sicilia che non quadrava entro i suoi schemi - peserà negativamente su tutta la sua attività di viceré, contribuirà ad impedirgli di formare un vero e proprio "partito delle riforme", mentre vi riuscirà, su altre basi, il suo successore principe di Caramanico. È anche vero che egli non aveva una conoscenza diretta dell'isola. In verità nel 1763, durante il soggiorno in Inghilterra, aveva pubblicato a Westminster un opuscolo, oggi introvabile, sulle sete siciliane vendute su quei mercati a circa sei tarì in meno rispetto a quelle lombarde. Ma l'opuscolo rispondeva solo agli insegnamenti del Genovesi e al fine patriottico di attirare l'attenzione del suo governo su un'industria i cui prodotti, superiori qualitativamente a quelli lombardi, rendevano meno dato che venivano esportati allo stato grezzo per mancanza di spirito di iniziativa da parte dei produttori siciliani, non al corrente dei nuovi metodi di lavorazione. È anche vero che nel novembre del 1773, dopo la cacciata del viceré Fogliani da Palermo, al Tanucci che vedeva in quel moto di popolo un accenno di Vespro, egli aveva risposto con un giudizio positivo sull'indole della "nazione siciliana" che aveva "maggior nervo e meno buon cuore dei Napoletani, ed infinitamente più unione tra la nobiltà ed il popolo". Ma si trattava pur sempre di un giudizio piuttosto semplificativo. Al fondo c'era il disprezzo del C. per il "lazzaronismo" dei Napoletani ed un'ammirazione mai smentita per tutto ciò che significasse unità di classe dirigente e popolo. Del resto, fino al 1780 le correnti riformistiche che a Napoli si erano venute affermando in alleanza con il potere monarchico avevano esercitato un'influenza assai scarsa nell'isola, rimasta separata dal Mezzogiorno continentale fin dai tempi della guerra del Vespro. Con l'avvento di Carlo di Borbone, si erano fatte gradualmente strada a Napoli tendenze unitarie che ricercavano precedenti ideali nel "Regnum Siciliae" anteriore al 1282, concepito come modello di Stato accentratore. Non si teneva conto del fatto che di mezzo c'erano stati cinque secoli, nel corso dei quali si era venuto plasmando ed attuando il concetto di "nazione siciliana" incentrato su motivi e istituzioni quali l'antica funzione dirigente del baronaggio che mirava ad affermare la propria autonomia anche nei confronti della monarchia.
A Palermo il C. veniva ad impersonare una politica, in cui le più povere e schematiche derivazioni illuministiche si incrociavano e venivano a fondersi con le ragioni dinastiche accentratrici della monarchia dei Borboni. Anche dopo l'avvento di Carlo e la creazione di un regno indipendente, i predecessori del C. avevano nella sostanza seguito il metodo "spagnolo" del lasciar correre in materia di usurpazioni di privilegi da parte della nobiltà ai danni degli altri ceti e dello stesso governo centrale. I provvedimenti migliorativi adottati dal Tanucci - a parte il sabotaggio cui venivano fatti segno - erano come le classiche gocce d'acqua in un oceano. Il C. veniva indubbiamente a rompere con questo stato di cose e con una ormai secolare tradizione di governo. Bisogna riconoscere che nella sua azione egli rivelò una dirittura ed una tenacia irriducibili, che nemmeno la fiacchezza delle reazioni o addirittura la mancanza di appoggio concreto da parte della corte di Napoli riuscirono a piegare o semplicemente a scoraggiare. E non mancavano in tal senso certi suoi sfoghi, ché egli sapeva parlar chiaro anche al suo re. Ma, a misurare adeguatamente la portata dei suoi sforzi, non si insisterà mai abbastanza sul loro impatto con una situazione preesistente. Ancor più che ai propositi del viceré o alla sua ideologia occorrerà guardare alle componenti di resistenza rappresentate e dal blocco di forze isolane capeggiate dalla nobiltà siciliana e, soprattutto, dalla crisi economica in cui l'isola versava. Non si terrà mai sufficientemente conto del fatto che i tentativi del C. in pratica si ridussero a colpi di spillo inferti ad una nobiltà destinata a sopravvivere ancora per un secolo e mezzo; e ciò, non solo per la resistenza degli interessati, ma anche e soprattutto perché obiettivamente lo stato di crisi permanente dell'economia siciliana non permetteva di edificare su altre basi. Le riforme costano, e devono necessariamente agire su spostamenti già in atto nelle strutture di una società. In una fase di contrazione delle risorse disponibili - conseguenza diretta della sclerosi del tessuto economico-sociale - il volere imporre riforme "dall'alto", a colpi di decreti reali e vicereali, significava condannarsi a rimanere nel limbo dei buoni propositi o, tutt'al più, rassegnarsi a seminare per il futuro, ignorando preventivamente il fatto che i semi avrebbero dovuto allignare in un terreno ingombro di erbacce.
Un primo sforzo del C. fu quello di formarsi gli strumenti e di crearsi dei collaboratori fidati per attuare i suoi propositi di riformatore. Ridotto a far leva soltanto sul segretario del viceregno e sul consultore, più che sul primo (Giuseppe Gargano, funzionario integerrimo e buon lavoratore, ma limitato nelle sue vedute e quindi non molto adatto per una profonda azione riformatrice), il C. fece leva sul secondo, Saverio Simonetti, calabrese di nascita, ma educato a Napoli e nutrito delle teorie regalistiche allora in voga. Il Simonetti, che proveniva dall'amministrazione centrale napoletana, si impadronì rapidamente della caotica legislazione siciliana, che però ebbe la tendenza ad interpretare troppo schematicamente alla luce della propria visione delle cose, venendo così in urto - e talora anche gratuitamente - col mondo in cui si trovava a lavorare. Troppo rigido, insomma, e portatore di una mentalità burocratica laddove occorreva l'abito mentale del politico, la capacità di aderire con prontezza alle situazioni per trasformarle. Intanto in primo luogo era necessario, per il C., assicurarsi il controllo dell'amministrazione statale, settore in cui l'interferenza dei baroni e la corruzione dei funzionari generavano ogni sorta di arbitri. Non mancarono le misure efficaci. Per quanto riguarda le funzioni collegate alla sua carica, il C. ordinò che i sudditi, prima di indirizzare a Napoli le loro istanze, ne chiedessero licenza al viceré, in ottemperanza ad un vecchio dispaccio reale per lungo tempo trasgredito. Avocò inoltre a sé il monopolio della censura, già attribuito al presidente della Gran Corte civile e criminale, di cui continuò a colpire certe tendenze ad usurpare funzioni vicereali. Il comando delle truppe di stanza in Sicilia lo volle effettivo e non puramente nominale qual era stato fino ad allora. Furono così eliminati inutili o addirittura pericolosi dualismi. Fu richiamato in vigore il sistema del "sindacato" o controllo periodico sulle pubbliche magistrature. Allo scopo di salvaguardare i proventi dell'erario, messi in forse dal disordine in cui versava l'amministrazione finanziaria, venne estesa alla Sicilia la prammatica de culpis et defectibus, già vigente a Napoli, contro ogni sorta di malversazioni. Altre volte il C. introdurrà nell'isola disposizioni legislative in vigore nel Regno di Napoli, al fine di combattere abusi e privilegi odiosi o privi di fondamento; non senza suscitare il malcontento di magistrati ed avvocati siciliani, ligi a certe tradizioni - fondate o no che fossero - di autonomia della Sicilia nel campo legislativo. D'altronde, nel settore giudiziario furono combattute le ingerenze baronali che ne perturbavano l'attività. Il viceré delimitò accuratamente le competenze dei supremi tribunali, allo scopo di porre fine ai continui conflitti in materia di giurisdizione ed ai rinvii originati da questioni di carattere procedurale. In tal modo veniva snellita la amministrazione della giustizia. Vennero anche aboliti diversi fori privilegiati. Fedele ai principi dell'assolutismo, il viceré intervenne ripetutamente e con energia nell'attività della magistratura, soprattutto in materia di reati contro la dignità dei pubblici ufficiali, e contro l'ordine pubblico. Durissimo fu nel perseguire malviventi che, per essere al servizio di questo o quel patrizio, si ritenevano coperti da immunità e al di sopra della legge. Il suddito doveva sentirsi tutelato da una giustizia imparziale, a qualunque strato sociale egli appartenesse. Bisogna riconoscere che in questo campo l'azione del C., oltre a suscitare profondi risentimenti, riscosse anche il consenso di magistrati i quali non chiedevano di meglio che lavorare onestamente. Durante tutto il suo viceregno fioccheranno senza riguardi arresti e condanne, anche nei confronti di esponenti di casate illustri. Tipico il caso del principe di Pietraperzia, già uno degli artefici della sommossa popolare contro il viceré Fogliani, rinchiuso per oltre un anno nel forte di Castellammare per avere favorito corti "marmorari" (Pietro e Salvatore Palazzo, così detti dal loro mestiere di segatori del marmo), rei di assassinio e di turbamento della quiete pubblica. A onor del vero i due fratelli avevano dovuto reagire ad una provocazione e, ancora latitanti, avevano cercato di fermare la carrozza del viceré per implorarne la grazia. Ma, essendosi presentati armati, erano stati respinti come malintenzionati. Di conseguenza il viceré, severissimo in materia di porto d'armi, aveva fatto aumentare la taglia posta sulla loro testa. L'opinione pubblica si era mobilitata in favore dei due fratelli, poscia arrestati. La nobiltà si sentiva minacciata nel suo diritto di armare chi voleva; il popolo vedeva menomato il diritto di difendersi individualmente e con mezzi propri. I magistrati, infine, nella sentenza non vollero accogliere in tutto e per tutto le indicazioni del viceré. Ciononostante il C. colse l'occasione per ribadire ancora una volta il suo punto di vista in materia di amministrazione della giustizia.
Certo, non sempre era facile discernere nettamente il torto dalla ragione; ed egli obbediva ad una logica, che era pur sempre quella dell'assolutismo, in funzione del rafforzamento ad ogni costo del potere regio. Questi limiti emergono con tutta evidenza nella sua azione in direzione degli enti locali. Da un lato egli ravvisava nei comuni dei possibili vivai di forze sane, dei centri di iniziative dal basso contro il ceto nobiliare; dall'altro lato - e spesso la giustificazione c'era - era costretto a colpire dall'alto per eliminare malsane tendenze centrifughe. Rispetto poi alla moderazione dei suoi propositi sul piano pratico e alla modestia dei risultati ottenuti, riuscirono sproporzionate le sue clamorose - e spesso formulate in tono irriverente, di una irriverenza che ne riduceva ulteriormente l'efficacia - professioni di anticlericalismo. Nella sua azione egli fece perno sul privilegio dell'Apostolica legazia - per cui il re in Sicilia era anche responsabile del governo della Chiesa - affinché esso rimanesse sempre operante e non si riducesse ad una funzione meramente decorativa.
Nel quadro di questa politica difese i giansenisti da persecuzioni, poiché cercava in questa corrente - in Sicilia divenuta potente proprio all'ombra dell'Apostolica legazia -un appoggio in funzione regalistica. In genere nella sostanza, se non proprio nella forma, fu piuttosto cauto. A parte i consigli di moderazione del Tanucci, il mantenere rapporti di concordia discorde con l'episcopato senza rompere i ponti significava per il viceré avere dalla sua o quanto meno neutralizzare forze autorevolissime in vista della lotta contro l'aristocrazia feudale. Si trattò, più che altro, di richiami alla disciplina spesso condivisi da vescovi per lo più giansenisteggianti; di ripristino della osservanza di leggi emanate per tutto il territorio del Regno e rimaste nell'isola lettera morta; di sforzi effettuati al fine di moralizzare situazioni che davano scandalo, e ciò con edificazione di una parte rilevante del clero. Furono sottoposti a revisione gli statuti delle confratemite; venne intensificato il controllo sulle Opere pie. Fu decretata la soppressione dei conventi dei benedettini bianchi e ne vennero incamerate le rendite. Inoltre il C. volle intervenire nella disciplina interna dei seminari e limitò l'uso del diritto di asilo e del foro ecclesiastico. Frappose ogni sorta d'ostacoli ai contatti diretti fra gli organismi ecclesiastici siciliani e la S. Sede. Insomma, capo della Chiesa era in Sicilia il re: e bisognava se mai rafforzare ed epurare questo suo strumento di potere, piuttosto che spezzarglielo in mano.
Certo, l'alto clero partecipava dei privilegi della nobiltà, e quella era una zona d'attrito inevitabile, ma non era più così facile, per i colpiti, mescolare il sacro col profano. La "guerra" (come il C. stesso la definiva) contro gli abusi feudali era destinata ad oscillare costantemente fra due poli. Da un lato egli era venuto per estendere e consolidare il potere regio nell'isola. Egli era in primo luogo un funzionario regio, e tale rimase anche in seguito. Suo primo compito era quindi imporre il rispetto della legge eliminando gli abusi e spezzando le resistenze dei ceti privilegiati. Obiettivo finale: assicurare all'erario napoletano più lauti proventi attuando criteri di più esatta giustizia tributaria. In parole povere: spillare più quattrini da chi più ne aveva. Scontro, quindi, con l'aristocrazia fondiaria in vista di una netta delimitazione dei suoi poteri e di un ridimensionamento delle sue attribuzioni.
Tutto qui. Si può infatti parlare di "provvedimenti" del C.; è del tutto improprio, invece, parlare di "riforme", come sempre si è fatto. Furono del resto costanti, nella sua azione, gli scrupoli legalitari, almeno in questioni di fondo. Deciso a stroncare abusi, egli ne ricercava sempre l'origine e procedeva inflessibilmente contro tutto ciò che mancasse di basi giuridiche. Non mancava però, a volte, di essere rigido sostenitore di quei privilegi di cui gli constava l'autenticità. In linea di massima, a Napoli i reali lo lasciarono fare, impegnati anche com'erano - soprattutto la regina - in una politica di sganciamento dalla Spagna, di sconfessione di quelle tradizioni di governo che si ricollegavano al lungo dominio spagnolo. Salvo poi a sconfessare lo stesso viceré o a negargli l'appoggio necessario, ogni volta che essi sentivano vicino il limite di rottura con la classe dirigente isolana. D'altro canto, non si può negare al C. sincerità di propositi nel voler promuovere il progresso dell'isola sul piano dei rapporti umani e sociali, nei suoi tentativi di avviare a soluzione problemi dell'economia siciliana e di risollevare le sorti degli umili, soprattutto dei contadini "certo che le due linee - quella degli interessi dinastici e quella rappresentata dalle nuove idee - potevano, almeno per il momento, incontrarsi; il che avveniva abbastanza spesso. Mancavano però, in una Sicilia per di più immiserita e depredata dai baroni delle ultime, generazioni, le basi materiali per la formazione di un nuovo ceto dirigente che prendesse il posto degli ordini privilegiati. E, d'altronde, cosa poteva fare per un ipotetico nuovo ceto una monarchia come quella napoletana, poggiante sui paglietti e su quei "lazzari" che proprio il C. detestava? La presenza a Napoli di un folto gruppo di intellettuali di solida quadratura mentale non deve produrre illusioni ottiche; non ci autorizza a pensare che la parte continentale del Regno fosse più avanzata, sul piano economico e sociale, della Sicilia. Per certi aspetti era anzi il contrario. Ora, a parte i limiti peculiari di tutte le dinastie compresa quella francese, cosa poteva offrire il monarca di uno dei regni più arretrati d'Europa? Se mai, la logica ferrea delle cose lo spingeva a prelevare la ricchezza senza possibilità di compensazione. La monarchia dei Borboni nel 1799 si salverà mobilitando i lazzari contro un gracile ceto medio illuminato. Quando, nel primo quinquennio della Restaurazione, il Medici riprenderà certi temi caraccioliani, il risultato sarà un rigido accentramento sul piano amministrativo, con conseguente soppressione del Parlamento siciliano e della costituzione del 1812. Verrà in tal modo consacrato lo sfruttamento della Sicilia da parte del Mezzogiorno continentale, verrà consolidata una situazione di miseria permanente. Nel valutare l'azione antinobiliare del C. occorre individuarne le linee salienti senza lasciarsi disperdere nei mille rivoli degli episodi marginali o addirittura dei dispetti quotidiani che egli faceva ai nobili. E non è facile. La sua appare più come un'azione di disturbo che come un tentativo approfondito di varare un programma organico. Gli schemi parigini non potevano certo quadrare con una realtà così spinosa e inclassificabile: si infransero subito. Entro certi limiti, ne ebbe coscienza anche lo stesso Caracciolo. Uno sforzo inadeguato di rielaborazione, di adeguamento alla realtà del paese è rilevabile anche nell'opuscolo suo, che venne pubblicato anonimo, Riflessioni su l'economia e l'estrazione dei frumenti della Sicilia fatte in occasione della carestia dell'Indizione terza 1784 e 1785, Palermo 1785. Povera cosa, per il resto; imparaticcio di scuola, dal punto di vista teorico. Il vistoso lancio dell'operetta fu piuttosto la conseguenza della pubblicità che il mondo dell'illuminismo aveva fatto al suo autore. Che fare, allora? Il limite di fondo dell'azione del viceré era rappresentato dal fatto che egli non era in grado di colpire l'aristocrazia nella base economica del suo potere; non poteva cioè togliere ai baroni le loro terre. Un programma del genere non rientrava d'altronde nel suo ordine di idee. La lotta agli abusi ed ai privilegi una parte dei quali sopravviventi per forza di inerzia: i baroni vi potranno rinunciare graziosamente nel 1812 - scalfiva appena la potenza del baronaggio. Le reazioni ai provvedimenti del viceré furono spesso tempestose più che altro per il carattere di novità che questi presentavano e per il modo di fare del Caracciolo. Presto però l'aristocrazia ne scorgerà i limiti; regno matureranno - già sotto il vice; del più flessibile principe di Caramanico - altre condizioni, sul piano interno e su quello internazionale, che la porteranno a riassumere il controllo della situazione ed a farsi veicolo di idee liberali.
Già nel 1781 il C. aveva cominciato col liquidare ancora persistenti residui di servitù della gleba. I baroni continuavano a pretendere che ai contadini loro soggetti fosse impedito di andare a lavorare altrove se prima non avessero lavorato nelle terre situate entro i limiti della loro giurisdizione. La questione venne sottoposta alla Giunta dei presidenti e consultore che, legata ai baroni, diede loro ragione. Il C. ricorse al re avverso la decisione ed ottenne che venisse emanato un dispaccio in base a cui essa veniva cassata e venivano richiamate in vigore le leggi del Regno. Successivamente ai baroni si vietò di obbligare i propri "borgesi" e "massari" a coltivare nei loro feudi terre diverse da quelle loro affidate. Furono aboliti, oltre alle corvées, diritti privativi e proibitivi di caccia, di pedaggio, di dogane interne. Non pochi erano i baroni che percepivano tali diritti per consuetudine; non potendo esibire adeguata documentazione, furono obbligati a rinunciarvi. Fu concessa l'estrazione di derrate dalle terre feudali, senza necessità di chiederne licenza al barone. I vassalli poterono per la prima volta vendere liberamente i loro prodotti. Fu posto un freno alle tante gabelle che i feudatari esigevano per ogni genere esportato. Venne altresì eliminata la pretesa secondo cui i vassalli dovevano portare i loro prodotti sui mercati solo dopo che i baroni vi avevano piazzato i propri. Facendo leva sui fondi demaniali e su quelli sequestrati ai gesuiti, il C. studiò forme di contratti agrari (basati sull'enfiteusi e sulla mezzadria) atte a suscitare nuove leve di contadini interessati al lavoro della terra. Il proposito tutto illuministico di formare un ceto di piccoli proprietari, fulcro di un risanamento economico della Sicilia, gli suggerì di trasformare il Monte di pignorazione frumentaria di Palermo, mettendolo al servizio della piccola proprietà come istituto di credito agrario, mentre prima serviva solo per permettere ai baroni di ritardare la vendita dei grani provocandone un artificioso aumento di prezzo. Ma in questo caso non si andò oltre le sue buone intenzioni. A completare il quadro dei provvedimenti a favore della libertà di movimento ormai garantita agli abitanti dei feudi, venne loro concesso di panificare e di molire le olive ovunque, senza più essere obbligati a servirsi dei forni o dei frantoi del padrone. A ragione il C. considerò la soluzione del problema della viabilità come uno strumento indispensabile di scardinamento delle posizioni di forza baronali e di penetrazione nei feudi. Aveva cominciato con provvedimenti di lastricatura delle strade, anche allo scopo di favorire i traffici. Le spese di lastricatura e di manutenzione furono fatte gravare sulle famiglie abbienti, come quelle che con le loro carrozze più usufruivano delle relative comodità loro offerte. Il malcontento serpeggiò tra i colpiti, usi a riversare sui poveri gli oneri di qualsiasi sorta. Avendo il C. fatto adottare un provvedimento di sequestro a carico di una dama che non intendeva pagare le dodici onze impostele, il conseguente ricorso presentato a Napoli fu accompagnato da un coro di lamenti di tutti coloro che si sentivano danneggiati ed infine fu accolto favorevolmente. Fu deciso che al sequestro erano soggetti i beni immobili e le rendite, e non i beni mobili. Venne concepito il grandioso progetto di una rete stradale che doveva collegare Palermo con i centri più importanti dei tre Valli. I lavori, iniziati, non giunsero però mai a compimento, a causa della partenza del C. che aveva seguito da vicino l'attuazione dei progetti. La ostilità dei proprietari terrieri, la rivalità e le gelosie dei comuni, la grettezza degli amministratori del pubblico denaro ebbero partita vinta. Allo scopo anche di suscitare contro il baronaggio energie popolari sopite, il C. decretò che nei comuni feudali i magistrati fossero nominati per elezione popolare e non per designazione dei baroni, che videro così ridotto il loro potere sui comuni dipendenti. Le popolazioni vassalle ottennero di poter riscattare il "mero e misto imperio", un coacervo di attribuzioni e di giurisdizioni baronali che moltiplicandosi aveva dato luogo ad abusi di ogni genere, e di cui fu limitata la portata e la funzione. In questo quadro fu eliminato l'uso di incarcerare sulla base della formula "per motivi a noi ben visti": di ogni provvedimento di limitazione della libertà personale fu richiesta la motivazione scritta. Altri limiti furono posti alla cosiddetta mano baronale, per cui i feudatari potevano ordinare ad ufficiali propri il sequestro dei beni dei vassalli loro creditori.
Tutta questa massa di provvedimenti produsse un certo fermento nei feudi, un fermento su cui in seguito, a più riprese, cercheranno di far leva i giacobini per tentativi insurrezionali. I contadini si agitarono; la piccola borghesia cittadina, sentendosi incoraggiata dal viceré, ingaggiò battaglie rivendicative sul piano locale contro i feudatari. Il C. non era insensibile alla necessità di creare movimenti di opinione pubblica in appoggio alla sua "guerra". In tal senso insistette a lungo sulla pubblicità delle decisioni e degli atti amministrativi. Intenti del genere non erano però agevolmente conciliabili con l'idea che le riforme dovessero essere il parto di una testa sola. Questo groviglio di contraddizioni emerse in tutta la sua paradossale chiarezza a proposito del progetto di catasto, il cui problema era stato già posto nel Parlamento del 1782. I baroni avrebbero dovuto pagare i dovuti tributi in proporzione dei loro patrimoni. Andava quindi effettuato un regolare censimento delle anime e delle proprietà. Il progetto intendeva sottrarre tale funzione alla Deputazione del Regno, che veniva privata dell'unica funzione importante. Inoltre il progetto sottintendeva la soppressione del diritto del Parlamento di votare i donativi richiesti di volta in volta dal potere centrale. Ma la reazione del Parlamento fu così decisa che il progetto naufragò. Soltanto nel 1853 la Sicilia avrà il suo catasto! Da un lato, un Parlamento monopolio di una casta, che però si presenta come baluardo di franchige e garanzia di libertà sia pure di sapore medievale. Dall'altro lato, un potere regio portato dal vento del secolo e dai propri interessi dinastici a bandire ed attuare principi di giustizia sociale dall'alto, in forme autoritarie. Certo gli spostamenti d'aria operati dall'azione del C. furono pur sempre utili, contribuirono a chiarire i termini del problema. Sarà comunque, in ultima istanza, la nobiltà ad inserirsi in questo processo di chiarificazione e di maturazione e ad avvantaggiarsene. Gli stessi intellettuali progressisti dell'isola, i portatori di idee, non saranno col C.; saranno col suo successore. Eppure non era nemmeno mancato, da parte del C., un nutrito gruppo di provvedimenti miranti a promuovere lo sviluppo culturale e l'istruzione pubblica, provvedimenti che certo gli fanno onore.
Il 19 genn. 1786 il C. lasciava Palermo per Napoli, chiamato ad occupare il posto di primo ministro, titolo corrispondente a segretario di Stato per gli Affari Esteri. Egli succedeva al marchese della Sambuca che aveva sostituito il Tanucci. La regina aveva reclamato il posto per l'Acton; ma il re si era opposto al cumulo delle cariche. Così al vecchio marchese era stato conferito un incarico che Maria Carolina andava presentando come meramente onorifico. Probabilmente a corte si faceva affidamento su di un assopimento senile delle energie del marchese. Non fu certo un letto di rose quello in cui il C. venne a trovarsi. Desideroso di ritrovare pace e tranquillità col rientro a Napoli, dovette fronteggiare le manovre dell'Acton, con cui aveva avuto buoni rapporti durante il viceregno, ma che ora era desideroso di affermare la propria supremazia. Inoltre queli non erano più i tempi del Tanucci. Maria Carolina non ascoltava più nemmeno i consigli degl'imperiali suoi fratelli; la trama degli intrighi da lei ordita era divenuta fittissima. Rientravano nelle mansioni del primo ministro la sorveglianza sull'amministrazione della casa reale, le poste e gli affari esteri.
Non risulta che nel primo di questi tre settori il C. sia stato fautore di novità, nemmeno in funzione di uno sfoltimento del pletorico personale della real casa. Una qualche opera di aggiustamento egli meditò, per quanto riguarda l'esuberanza di personale docente nell'università di Napoli (l'istruzione pubblica rientrava nelle competenze di quella amministrazione). A tale scopo egli aveva chiesto all'amico Angelo Fabbroni, provveditore della università di Pisa, gli statuti di quella università. Ma non ne fece niente. Per le poste concepì il disegno di fare di Napoli il centro unico o preferito delle comunicazioni fra l'Europa e l'Oriente. Ma, mentre egli si affannava a moralizzare la situazione, sorgevano complicazioni e conflitti di ordine internazionale e scoppiavano meschine beghe fra rappresentanti di potenze estere. Un po' troppo, per continuare a pensare di poter fare qualcosa di serio. E il C. smise.
Per quanto riguarda la politica estera, vi si può scorgere una continuità di indirizzo con l'azione esplicata in Sicilia, anche se diverso è ora il campo di azione. Un regno ancora giovane, su cui il ramo dei Borboni di Spagna continuava ad accampare delle pretese, non poteva non adottare una politica di raccoglimento, senza impegnarsi in avventure pericolose e destreggiandosi fra le grandi potenze. E il C. diede prova della saggezza tipica di chi, avendo soggiornato presso i due maggiori centri della politica mondiale, aveva acquistato un senso invalicabile dei limiti della posizione del proprio paese nel contesto internazionale. Anche in questo giova naturalmente ripetere quanto già affermato a proposito della fine che successivamente faranno in altre mani i propositi riformatori spiegati dal C. in Sicilia: depurati ed impoveriti di ogni velleità riformatrice a cui avrebbero dovuto far da supporto, i principi a cui il C. informò la sua politica estera si ridurranno alla pratica dell'isolamento fra l'acqua santa e l'acqua salata. Equidistanza, quindi, fra le grandi potenze; sforzi miranti a smussare gli attriti, a favorire innanzitutto la stipulazione di trattati di commercio, a quei tempi così in voga. Ne furono firmati con il Regno di Sardegna, con Genova, con Tripoli (a garanzia dei traffici insidiati dai corsari); con la Russia, dopo trattative laboriose, col risultato di offrire sbocchi nel Mar Nero al commercio del Regno di Napoli. Nel quadro dei delicati rapporti con la Spagna, il C. si sforzò di attenuare e di minimizzare la tensione esistente fra Carlo III e poi Carlo IV da un lato, e Ferdinando IV e Maria Carolina dall'altro. Avverso alla Spagna per sentimento e per convinzione, egli avvertiva però la necessità di non cadere nell'eccesso opposto, di non consegnarsi agli Asburgo. Riuscì infine ad impedire un intervento a fianco di Giuseppe II e di Caterina II nella guerra contro la Turchia, resistendo al miraggio delle facili conquiste in Oriente. L'avere poi egli auspicato un concordato col papa - "il gran muftì", secondo una nota definizione di cui a torto gli venne attribuita la paternità - suscitò l'indignazione degli anticurialisti, i quali ben altro si attendevano da lui. L'eco di un tale stato d'animo perdurò fino al Croce, che peraltro si sforzò di dare una valutazione equilibrata dei pro e dei contro. Nel fondo però dell'atteggiamento del C. persistevano le preoccupazioni di un servitore devoto di sua maestà. I suoi principi, nei momenti decisivi, cedevano il posto ad una valutazione realistica della situazione. Lo preoccupava lo stato di abbandono in cui rimanevano non poche diocesi, con conseguente danno per la cura spirituale delle plebi. E in questo non si può davvero rimproverare al C. di non essere andato oltre la visione che comunemente i riformatori illuminati avevano della funzione della religione fra le masse. Mettersi contro la Curia romana significava poi dover paventare conseguenze negative per la posizione internazionale del giovane Regno. Non solo lo Stato della Chiesa era uno Stato confinante e in grado di fomentare disordini all'interno del Regno; ma influiva in un modo o nell'altro sulla politica estera di altri Stati, a cominciare dalla Spagna. Purtuttavia il concordato allora non si fece, per le resistenze del re alimentate dal C. stesso. Venne attuata l'abolizione dell'omaggio della chinea.
Il C. morì la sera del 16 luglio 1789: al momento giusto, in fondo, per un riformatore della sua generazione. Che sia morto di colpo per il dolore causatogli dell'annuncio della presa della Bastiglia è difficile provare. È vero che in precedenza il marchese Circello, ambasciatore a Parigi, non aveva mancato di informarlo sulle gravi difficoltà della situazione francese. La morte lo sottrasse alle dure prove che, con lo scoppio della Rivoluzione, attendevano riformatori più giovani di lui, come il Caramanico e il Medici.
Fonti e Bibl.: Lettere del C. a Paolo Frisi si conservano nella Bibl. Ambros., Ms. Y 154 sup.; numerose altre sono state pubblicate da F. Nicolini, L'abate Galiani e il marchese C., in Pegaso, II (1930), pp. 641-694; E. Pontieri, Letteredel marchese C. viceré di Sicilia al ministro Acton1782-1786, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., XV (1930), pp. 206-311; XVI (1931), pp. 201-312; XVII (1932), pp. 251-296; B., Croce, Unaraccoltina di autografi, in Aneddoti di varia letter., III, Bari 1954, pp. 104-113; Illuministi italiani. Riformatori delle antiche repubbliche,dei ducati,dello Stato pontif. e delle isole, a cura di G. Giarrizzo - G. Torcellan - F. Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 1021-37 (sul C., nota introduttiva di G. Giarrizzo seguita da estratti dalle Riflessioni e da una scelta della corrispondenza edita). Cfr. inoltre I. La Lumia, Ilmarchese C., in Storiesiciliane, IV, Palermo 1883, pp. 565-613; B. Croce, Il marchese C., in Uomini e cose dellavecchia Italia, II, Bari 1927, pp. 83-112; E. Pontieri, Iltramonto del baronaggio sicil., Firenze 1943, pp. 161-297; Id., Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell'Ottocento, Roma 1945, pp. 172-202; F. Brancato, Il C. e il suo tentativo diriforme, in Sicilia, Palermo 1946; R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari 1950, pp. 50-65 (con esauriente bibl.); F. Catalano, Il viceré C. e laSicilia alla fine del sec. XVIII, in Illuministi egiacobini del'700 ital., Milano-Varese 1959, pp. 7-26.