BISCEGLIA, Domenico
Nacque a Donnici Soprano (Cosenza) il 3 genn. 1756 da Pasquale, sarto, e da Teresa Trutta. Dopo aver ricevuto la prima istruzione da uno zio sacerdote, nel 1771 fu inviato a continuare gli studi superiori a Cosenza, ove ebbe maestro P. Clausi, allievo del Genovesi, e conobbe uomini come B. Gagliardi, F. Golia. Il B. completò gli studi giuridici a Napoli, ma prima del 1780 ritornò a Cosenza. Qui s'impose presto per le sue brillanti doti professionali e, fra i giovani, come educatore e propugnatore fervido delle nuove idee. Partecipò, insieme col Gagliardi, a F. S. Salli e a G. Lamanna, all'Accademia dei Pescatori Cratilidi, e fu con quegli accademici progressisti che nel 1784 chiesero che da società letteraria essa si trasformasse in una organizzazione capace di dare un contributo al rinnovamento culturale e al progresso economico della loro terra. Ma le forze conservatrici non cedettero, sicché essi furono costretti ad abbandonare l'Accademia, confluendo probabilmente nelle logge massoniche, a Cosenza e in Calabria Citra numerose e ben collegate.
Nel 1791 al B. fu affidato l'incarico di sostenere le ragioni dei possessori di "difese" nel territorio silano nella controversia insorta dopo la missione del preside Dentice.
Enormi erano gli interessi in gioco: su una estensione totale della Sila di moggia napoletane 299.511, ben 248.175 (pari all'82,86%) erano state usurpate, dal 1500 in poi, al demanio regio da famiglie in gran parte del ceto borghese, che si erano costituite così immensi possedimenti (i Poerio avevano una "difesa" di 13.000 moggia). Nell'allegazione Per li possessori di difese nel tenimento della Sila di Cosenza (Napoli 1791) il B., nel rifare la storia del possesso della regia Sila, rifiuta le sottigliezze giuridiche: per conoscere il titolo di proprietà non occorre, secondo lui, cercarne il fondamento nelle antiche testimonianze, ma risalire alle pure sorgenti della ragion di natura, cosicché il verace titolo dei domini sta nel pregevole impiego delle proprie facoltà sulla terra. A favore della propria tesi porta soprattutto argomenti di natura economica: l'iniziativa degli occupatori ha reso possibile la messa a coltura e l'utilizzazione di larghe estensioni di terra con beneficio anche delle popolazioni, per l'inevitabile riflusso su tutta la società della produzione di una nuova ricchezza. Non superficiale appare il bagaglio culturale del B., che mostra di conoscere approfonditamente Robertson e Raynal, Grozio e Vico, oltre a G. Palmieri, di cui accetta, non certo per suggestione culturale, ma per piena aderenza con la situazione cosentina, l'idea che uno sviluppo dell'agricoltura meridionale può assicurarsi solo attraverso la grande proprietà.
G. Zurlo, che aveva avuto l'incarico dal governo di risolvere la questione della Sila, apprezzò le doti non comuni del B. e lo invitò ad andare insieme con lui a Napoli per difendere i diritti di Cosenza sulla Sila. Qui il B. si ritrovò col Salfi e poté conoscere e farsi stimare da uomini come Pagano, V. de Filippis, S. Mattei e V. Russo. Nell'ambiente napoletano, frattanto, si affermò brillantemente nel campo professionale; i rapporti con l'ambiente cosentino però non furono mai rotti. Anzi è certo che da Napoli, dove insieme col B. erano il Salfi, A. Jerocades, P. Baffi, il de Filippis, il Mattei, venivano le direttive politiche per le logge massoniche di Cosenza e di altri centri della Calabria Citra. La situazione frattanto precipitava a Napoli e nel 1794, insieme con altri, il B. era accusato di "reità politica" e incarcerato. Nella prigionia maggiormente si legò con gli amici di sventura, I. Ciaia, T. Monticelli, D. Forges Davanzati, e sopra tutti N. Fasulo e N. Fiani. Messo in libertà provvisoria nel 1798, quando il crollo del regime borbonico era già maturo, il 24 genn. 1799 divenne membro del governo provvisorio repubblicano. Attraverso la fitta rete di amicizie e conoscenze che aveva in Cosenza, il B. riuscì anche col prestigio acquisito con la nuova carica, a far prevalere il partito rivoluzionario nella sua città e nel vicino centro di Belmonte. In seno al governo provvisorio presiedette l'amministrazione interna.
Gli atti più importanti del B. furono la sua presa di posizione durante la discussione sull'abolizione dei feudi e l'iniziativa (poi aspramente criticata dal Cuoco) di inviare nelle provincie i cosiddetti democratizzatori per stimolare schieramenti favorevoli al nuovo governo. Le contraddizioni che nascevano fra le iniziative delle vecchie autorità provinciali non rimosse e quelle dei "democratizzatori" erano purtroppo la conseguenza di rapporti di forza oggettivi che non si risolsero mai a favore del nuovo ordine di cose. Nella discussione sull'abolizione della feudalità il B. si schierò col Pagano. Propose che una commissione stabilisse in base ai titoli i fondi da reputarsi incontrastabilmente feudali. Quindi si sarebbe calcolato il compenso da doversi alla nazione per la cessione del suo dominio eminente. Per le decime sarebbero state confermate solo quelle risultanti legittime. Tutti i diritti personali o reali illegittimi sarebbero stati aboliti senza compenso. Una posizione, come ritenne lo stesso Cuoco, eccessivamente moderata, anche se mascherata dietro la cortina delle sottigliezze giuridiche, per le quali però il B. non aveva mostrato altrettanta simpatia quando si era trattato di definire a chi appartenesse il demanio della Sila. L'unica proposta spregiudicata del B. consistette nel sostenere che le liti pendenti fra Comuni e baroni dovessero essere decise in favore dei Comuni.
Con la riorganizzazione del governo operata nell'aprile da A. J. Abrial e suggerita da C. Paribelli, il B. non fu riconfermato. Lo stesso Paribelli, in una lettera al Ciaia, dà ragione della estromissione del B., definendolo "troppo paglietta ed attaccato alla clientela" (Croce, p. 325)Negli ultimi mesi il B. ricoprì tuttavia la carica di procuratore generale presso la Cassazione. Il 3 giugno, nel precipitare della situazione, fece parte di una commissione creata per la riorganizzazione della guardia nazionale e partecipò coraggiosamente all'estrema difesa della Repubblica. Dopo la sua cattura, essendo uno degli ottanta di Castel Nuovo, la sentenza fu in un primo momento sospesa, ma il 17 ottobre la Giunta lo condannò definitivamente a morte. L'esecuzione avvenne il 28 nov. 1799 in piazza Mercato.
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