BARONE, Domenico
Nacque a Napoli il 29 genn. 1879. Compiuti gli studi giuridici, entrò nel 1902 nella magistratura come uditore giudiziario. Dopo aver raggiunto nel 1906 il grado di pretore, nel 1913 passò come referendario al Consiglio di stato, divenendone consigliere nel igig. L'Anno successivo fu nominato segretario della commissione reale per la riforma dei codici, e in tale qualità si occupò in modo particolare della materia delle obbligazioni nel codice civile e della riforma del codice della marina mercantile. Nel 1925 fu chiamato a far parte della commissione per lo studio della riforma costituzionale, nota anche come "commissione dei 18", o "dei Soloni", nominata il 31 gennaio con decreto del presidente del consiglio, e che fu presieduta da G. Gentile.
Nei lavori della commissione, che si riunì per la prima volta il 26 febbr. 1925, il B. ebbe una parte di primo piano, ed a lui venne affidata la stesura della relazione "Sui rapporti fra potere esecutivo e potere legislativo", che reca la data del 10 luglio 1925.
Il criterio fondamentale cui egli si ispirò, interpretando pure le tendenze della grande maggioranza dei comnússari, fu di stabilire, quale limite pregiudiziale ai lavori della commissione, la necessità di lasciar salvo nelle sue linee fondamentali l'ordinamento politico vigente: le innovazioni avrebbero dovuto mirare a integrare e correggere gli istituti esistenti, che si fossero rivelati manchevoli alla luce dell'esperienza. Su questa base, che corrispondeva alle concezioni e aspirazioni di quel vasto settore della classe dirigente conservatrice, che aveva aderito al fascismo in funzione antisovversiva e tendeva ora alla così detta "normalizzazione", la conunissione si preoccupò essenzialmente di studiare i mezzi per rafforzare il potere esecutivo nei confronti del parlamento, e in particolare della camera elettiva, svincolandolo da ogni diretta dipendenza da quest'ultima e meglio definendo il carattere del governo quale organo dell'Autorità della corona piuttosto che del potere legislativo e, attraverso questo, della sovranità popolare. In concreto, le raccomandazioni della commissione furono condensate in quattro proposte di legge, che vennero allegate alla relazione del B., e precisamente: "Proposta di legge diretta a regolare alcuni rapporti fra il governo e la Camera"; "Proposta di modificazione dell'Art. 33 dello Statuto" (nel senso di ampliare le categorie di cittadini, nel cui novero dovevano essere scelti i senatori); "Proposta di legge sulla sostituzione ai sottosegretari di stato dei segretari generali e sulla costituzione di un dicastero della Presidenza del Consiglio dei ministri"; "Proposta di legge sulla procedura da osservare per la emanazione delle leggi e dei regolamenti". Numerosi altri suggerimenti per una diversa articolazione dei rapporti fra potere esecutivo e potere legislativo erano ancora contenuti nella relazione del B., la quale, tuttavia, specialmente per il tono generale, ispirato a grande cautela e moderazione nell'indicare le vie della riforma costituzionale, soddisfece solo in parte Mussolini. Questi non gradì molto, in particolare, il mantenimento del Senato come organo di esclusiva nomina regia e a carattere vitalizio, e osservò pure, in un appunto nel quale sintetizzò le conclusioni della relazione, come la maggior parte delle riforme proposte avevano già ricevuto di fatto attuazione ad opera del governo. Tale constatazione fu ribadita nell'ordine del giorno con cui il Gran Consiglio, nella seduta del 6 ott. 1925, definendo il proprio atteggiamento nei confronti della relazione del B., accoglieva, delle restanti riforme da lui proposte, quelle concernenti la costituzione del ministero della Presidenza del Consiglio, l'istituzione dei segretari generali presso i singoli ministeri e la presentazione di un disegno di legge che modificava l'Art. 10 dello Statuto.
Nel complesso, i principi contenuti nella relazione del B. influirono solo in maniera indiretta e sussidiaria sulle due leggi fondamentali, emanate poco tempo dopo, riguardanti i rapporti fra l'esecutivo e il legislativo (legge 24 dic. 1925, n. 2263, sulle attribuzioni e prerogative del Capo del governo, e legge 31 genn. 1926, n. 100, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche). Di assai maggiore rilievo fu la parte che il B. svolse negli anni seguenti nel corso delle trattative fra il governo italiano e la S. Sede, che avrebbero portato alla stipulazione dei Patti Lateranensi, l'ii febbr. 1929: prima di giungere alla loro fase conclusiva a carattere ufficiale, tali trattative ebbero a protagonisti il B. per la parte italiana e l'Avv. Francesco Pacelli per la S. Sede.
Il punto di partenza per i negoziati fu rappresentato dalla lettera indirizzata da Pio XI al segretario di Stato, cardinale P. Gasparri, in data 18 febbr. 1926, con la quale il pontefice prendeva apertamente posizione contro i disegni di legge per la revisione delle vigenti leggi ecclesiastiche, predisposti dall'Apposita commissione istituita dal governo italiano nel febbraio del 1925, ammonendo che qualsiasi rielaborazione della legislazione ecclesiastica non avrebbe potuto prescindere dal consenso della Chiesa, consenso che mai avrebbe potuto esser concesso fintanto che perdurasse "la iniqua condizione fatta alla Santa Sede ed al Romano Pontefice*. Il 4 maggio 1926 Mussolini, in una lettera al guardasigilli A. Rocco, raccogliendo l'implicito invito di Pio XI, si esprimeva chiaramente a favore di un tentativo di accordo con la S. Sede per risolvere l'Annosa "questione romana" e invitava il Rocco a prendere riservatamente notizia del punto di vista della S. Sede intorno alle forme che avrebbe potuto assumere una soddisfacente sistemazione giuridica dei suoi rapporti con lo statoitaliano.
Il 26 luglio 1926 mons. Luigi Haver, della Congregazione di Propaganda Fide, dopo alcuni sondaggi infruttuosi presso l'on. Federzoni, si rivolse al B., al quale era legato da antica amicizia, e lo mise in rapporto con l'Avv. Francesco Pacelli, legale della S. Sede, che godeva della piena fiducia del pontefice. I due giuristi, dopo aver riferito rispettivamente a Mussolini e a Pio XI, e forti del benestare di questi ultimi, ebbero un primo colloquio il 6 agosto, al quale altri seguirono nel corso di quello stesso mese. Il giorno 30 il B., in una lettera al capo del govemo, indicava i principi fondamentali che la S. Sede intendeva porre a base delle trattative, e che miravano al sostanziale superamento della formula cavouriana "libera Chiesa in libero Stato", quale era stata intesa tradizionalmente dalla classe dirigente liberale, e della analoga concezione giolittiana delle "due parallele che non s'incontrano mai", al fine di costituire uno "Stato veramente cattolico", in cui avesse realtà di contenuto la proposizione statutaria secondo la quale la "Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato".
Il 4 ottobre Mussolini inviò al B. una lettera nella quale, riferendosi ai colloqui di quest'ultimo con il Pacefli, confermava la propria convinzione circa l'utilità di eliminare ogni ragione di dissidio fra l'italia e la S. Sede e lo incaricava formalmente, ma in via strettamente confidenziale, di mettersi in relazione con rappresentanti della S. Sede, per conoscere le condizioni alle quali essa fosse disposta ad addivenire ad una amichevole e definitiva sistemazione dei suoi rapporti con lo stato italiano.
Il punto maggiormente controverso, in questa prima fase delle trattative, fu la questione della natura giuridica del nuovo organismo territoriale facente capo alla S. Sede, e della capacità di questa come soggetto di diritto internazionale; ciò a causa della iniziale riluttanza di Mussolini e del B. a riconoscere alla S. Sede una piena sovranità sul proprio sia pur piccolo territorio e la qualifica stessa di Stato. Sia il B. sia il Pacelli erano comunque animati da una ferma volontà di superare gli ostacoli e di gettare le fondamenta di un accordo, e il 24 nov. 1926 furono in grado di apporre la loro firma a uno schema di trattato, che servi di base per le trattative ulteriori. Secondo tale schema, il territorio attribuito alla S. Sede comprendeva, oltre alla Città Leonina, anche villa Doria-Pamphili sul Gianicolo e una striscia di terreno collegante quest'ultima ai palazzi apostolici. Il 31 dic. 1926 il B. trasmetteva al Pacelli una lettera indirizzata da Mussolini al cardinal Gasparri in pari data, con la quale il capo del governo comunicava di aver delegato il B. stesso a trattare ufficialmente con la S. Sede, con il vincolo della segretezza e ad referendum. Nel frattempo, i due negoziatori avevano già iniziate le conversazioni per la redazione di un progetto di concordato da affliancare al trattato e alla convenzione finanziaria. Per la discussione di tale progetto si unì ad essi, a partire dal 3 genn. 1927, mons. F. Borgoncini-Duca, segretario per gli affari ecclesiastici straordinari. A questo punto, però' le trattative andarono incontro a serie difficoltà in seguito alla tensione venutasi a creare tra il governo italiano e la S. Sede a proposito della nuova legislazione sull'opera Nazionale Balilla, che sanciva in pratica il monopolio esercitato dallo stato sull'educazione dei giovani, a tutto danno delle organizzazioni giovanili cattoliche. Pio XI, di fronte all'intransigenza dimostrata, nonostante le sue rimostranze, dal governo fascista sulla delicata questione, decise in un primo tempo la sospensione delle trattative, di cui tuttavia autorizzò la ripresa verso la fine di febbraio. Lungo tutto il 1927, comunque, i negoziati procedettero a rilento, inframezzati da nuovi malintesi fra il governo italiano e la S. Sede. Nel 1928 i lavori ripresero con maggiore lena; le difficoltà principali vertevano ora sulla delimitazione del territorio e sulla convenzione finanziaria. Nel mese di aprile, le trattative andarono incontro a un'ultima grave crisi, originata dal decreto-legge 9 apr. 1928, n. 88, con il quale venne stabilito lo scioglimento di tutte le organizzazioni giovanili al di fuori dell'o.N.B. Pio XI, fortemente irritato, revocò il mandato a trattare che aveva conferito al Pacelli; la rottura definitiva fu' però' evitata, grazie anche alla tattica temporeggiatrice adottata dal B., il quale riusci a impedire la trasmissione al capo del governo del documento pontificio. Nel frattempo, egli faceva pervenire a Mussolini una sua relazione riservata, recante la data del 12 apr. 1928, sulle "Ragioni ed utilità dell'Accordo con la S. Sede per la sistemazione della 1 Questione Romana", nella quale spezzava vigorosamente una lancia in favore della conciliazione fra Stato e Chiesa, riallacciandosi a motivi e argomentazioni del movimento conciliatorista conservatore degli ultimi decenni del secolo precedente.
Riprese le trattative verso la fine di magglo, il 21 agosto il B. presentava al Pacelli i testi del trattato, del concordato e della convenzione finanziaria, nella stesura approvata da Mussolini. Il territorio da attribuirsi alla S. Sede comprendeva ancora villa DoriaPamphili, ceduta, però' non in piena sovranità' ma in uso perpetuo e irrevocabile, con il beneficio della extraterritorialità. A questo punto, tuttavia, il pontefice dichiarò di rinunciarvi, preferendo insistere invece sul riconoscimento del carattere statuale dell'Autorità della S. Sede sul proprio territorio e su certe clausole concordatarie. Nell'ottobre, le trattative potevano ormai considerarsi condotte a buon fine, e il B., in un suo promemoria indirizzato al capo del governo, così commentava, facendo il punto sulla situazione: "In conclusione, sembra al sottoscritto che la nobile arrendevolezza dimostrata dal Sommo Pontefice nella valutazione della fondamentale questione territoriale possa indurre a considerare con benevolenza le Sue richieste d'ordine morale e spirituale, tanto più che esse armonizzano col nuovo spirito, che in materia religiosa domina ormai l'italia, dovuto alle sagge e lungimiranti e veramente consapevoli direttive del Duce".
Si era giunti all'ultima fase dei negoziati. Il 22 nov. 1928 il re, con sua lettera a Mussolini, autorizzava quest'ultimo a iniziare con la S. Sede trattative ufficiali sulla base delle direttive fino allora seguite, con facoltà di subdelegare il Barone. Questi avrebbe dovuto così accingersi, insieme con il Pacelli, a un'ulteriore revisione dei testi che avrebbero formato oggetto delle discussioni definitive, ma una sopraggiunta grave malattia gli impedì di portare a termine il suo compito. Morì a Roma il 4 genn. 1929.
L'Attívità scientifica del B. non fu, in complesso, di grande rilievo.
Numerosi i suoi contributi alla Rivista di diritto pubblico, e precisamente: Le giurisdizioni amministrative sui ricorsi riguardanti la costituzione dei consorzi stradali e comunali, VII, 2 (1915), pp. 290-296; Le spese di culto a carico dei comuni nella giurisprudenza amministrativa, VII, 2 (1915), pp. 381-384; La legittimazione per decreto reale nel sistema della legge e nella pratica amministrativa, VIII, 1 (1916), pp. 30-79; I ricorsi elettorali e la recente giurisprudenza della quinta sezione del Consiglio di Stato, VI I I, 1 (19 16), pp. 113. - Una buona monografia è quella intitolata Tipografia ed arti affini, compilata per il Digesto Italiano, XXIII, 1, pp. 1443-1477, in cui è dato inquadramento sistematico alla legislazione relativa all'esercizio dell'Arte tipografica. In collaborazione con F. Vassalli il B. scrisse Sul termine di durata in vigore dei decreti emanati in forza della legge 22 maggio 1915, n. 671. Relazione alla Commissione per lo studio dei provvedimenti occorrenti per il passaggio dallo stato di guerra a quello di pace, in Riv. di diritto commerciale e del diritto delle obbligazioni, XVII, 1 (1919), nn. 7, 8, s. In collaborazione con G. P. Gaetano pubb!icò La legislazione di Fiume raccolta e coordinata, Roma 1926; la raccolta, in due volumi, contiene nel primo i provvedimenti legislativi dei governi provvisori, e nel secondo quelli della monarchia austro-ungarica. Nel Foro amministrativo, II, 4 (1926), parte 4, coll. 89-115, venne pubblicata la sua prolusione Sui caratteri della nuova legislazione italiana, detta l'11 maggio 1926 in occasione del corso speciale "Le riforme costituzionali e amministrative italiane", tenuto presso la facoltà di scienze politiche dell'università di Roma. Le direttive fondamentali della nuova politica legislativa in Italia furono qui indicate dal B. nel rafforzamento del potere esecutivo, con la sanzione della preminenza del governo sul parlamento; nel ripudio del principio delle autonomie locali ed in particolare di quelle comunali; nel sempre maggiore intervento dello stato nei rapporti di lavoro e nelle questioni sindacali, culminante nell'istituzione della magistratura del lavoro.
Infine, bisogna ricordare la già citata relazione Sui rapporti fra Potere esecutivo e potere legislativo, pubblicata nel volume Relazioni e proposte della commissione per lo studio delle riforme costituzionali (Firenze 1932), a cura dell'istituto nazionale fascista di cultura.
Fonti e Bibl.: Arch. Centr. dello Stato, Segreteria partic. dei Duce, Carteggio riservato, fasc. Gran Consiglio, sotto fasc. 3, inserto C, e fasc. Questione Romana, sottofasc. 8 e 9; C. A. Biggini, Storia inedita della Conciliazione, Milano 1942, passim; A. Giannini, Il cammino della "Conciliazione", Milano 1946, p. 66; G. Pini-D. Susmel, Mussolini. L'uomo e l'opera, III, Dalla dittatura all'impero (1925-1938), Firenze 1955, ad Indicem; L. Salvatorelli, G. Mira, Storia d'italia nel Periodo fascista, Torino 1957, ad Indicemi; L. Villari, Come si giunse alla Conciliazzione, in 1870-1929. Il grande ideale: la Conciliazione, Roma 1957, VI, pp. 31-101 (ma specialmente pp. 77 ss.); A. Barone, Mio padre, D. B., ibid., pp. 451-454; F. Pacelli, Diario della Conciliazione con verbali e appendice di documenti, a cura di M. Maccarone, Città del Vaticano 1959, passim; A. Martini, Studi sulla questione rotnana e la conciliazione, Roma 1963, passim; Encicl. Catt., IX, coll. 502 s., sub voce Pacelli Francesco, a cura di M. Maccarone, e col. 991, sub voce Patti Lateranensi, a cura di R. Danieli.