VACCARO, Domenico Antonio
VACCARO, Domenico Antonio. – Nacque a Napoli il 3 giugno 1678, primogenito di Lorenzo, scultore (v. la voce in questo Dizionario), e di Caterina Bottigliero, e venne battezzato nella parrocchia di S. Arcangelo agli Armieri (Mormone, 1961-1962, p. 51 nota 11).
Pittore, scultore e architetto (in ordine non gerarchico, bensì di percorso artistico), e personalità di punta per la prima metà del Settecento napoletano, dal Viceregno austriaco agli inizi del Regno borbonico, Vaccaro fu l’ingegno proteiforme che praticò tutt’e tre le arti non solo a un alto livello tecnico-formale, ma anche in una qualificante unione di programma. I contemporanei gli riconobbero presto «la potenza del suo inventare, la franchezza delle bizarrie, la libertà del genio»; insomma un «cervello [...] tutto fuoco e vivezza» (Roviglione, 1731). Amplissimo il campo dei suoi interventi progettuali e direttivi, assolti in specie nell’attività matura, e con l’assistenza delle tante maestranze specializzate: dalle macchine d’altare in marmi ai rivestimenti in stucco o maioliche, dall’ideazione alla ristrutturazione di fabbriche sia religiose sia civili, pubbliche o private, sino alla disposizione d’apparati effimeri (per una sintesi, F. Lenzo, in Blunt, 1975, 2006, pp. 305-313). In architettura l’altro nome di riferimento per Napoli fu quello del quasi coetaneo Ferdinando Sanfelice: entrambi contribuirono alla crescita del ruolo dell’architetto quale figura professionale tendenzialmente autonoma e partecipe del clima culturale della società in cui vissero (Maglio, 2009).
Vaccaro respirò sin da fanciullo l’operosità della bottega paterna. Sedicenne, il suo nome è documentato in un pagamento, nel 1694, per l’altare maggiore dell’Annunziata di Aversa, opera diretta da Giovan Domenico Vinaccia e cui lavorava Lorenzo (Rizzo, 1984, p. 405, doc. 12).
Nondimeno i suoi inizi si ebbero, a prevalenza, nella pittura. Sebbene il genitore volesse indirizzarlo agli studi letterari e giuridici (come racconta in via più o meno topica il biografo Bernardo De Dominici, 1742-1745 circa), il giovane si esercitò nel disegno e si perfezionò con il colore, e fu per tale inclinazione che Lorenzo lo raccomandò al proprio amico Francesco Solimena. Da questa frequentazione, che dové essere ben poco accademica, non venne fuori un discepolo deferente, ma un pittore dal linguaggio personale, poco disposto ad allinearsi alla svolta classicista della maturità di quel maestro, e più in sintonia, semmai, con un barocco di matrice romano-genovese, e con lo sperimentalismo fantasioso, su tutti, di un Giacomo del Po (per la pittura: Spinosa, 1993; N. Spinosa, in Settecento napoletano, 1994; Pavone, 1997).
I dipinti giovanili si datano a partire dalla metà dell’ultimo decennio del Seicento. Non tutti i quadri indicati dalle fonti, tuttavia, sono stati individuati o ci sono giunti. Si sono perse le tracce, ad esempio, dell’Addolorata per la chiesa (distrutta) di S. Monica a Napoli, forse il primo numero di Vaccaro pittore. Dovrebbe seguire da presso l’Immacolata che appare a s. Bonaventura, documentata al 1696, per S. Lorenzo Maggiore (oggi nell’omonimo Museo dell’Opera; Rizzo, 1981): puntello per la datazione di altri dipinti stilisticamente coerenti, come la Madonna col Bambino e s. Felice da Cantalice della chiesa madre di Perdifumo (Salerno). A questo momento dovrebbero risalire pure i dipinti en pendant, con immagini di Salomone, al Detroit Institute of arts e in Banca Carime a Cosenza; così come le due coppie di dipinti laterali per altrettante cappelle di S. Agostino degli Scalzi a Napoli (il Cristo flagellato e il Cristo coronato di spine; dell’altra coppia è notevole soprattutto il S. Guglielmo d’Aquitania in penitenza, il quadro forse più tardo, e assai indicativo dello svolgimento pittorico acceso e del cromatismo vibrante dell’autore). Appena prima o sul 1700 si datano i ‘rametti’ richiesti a Vaccaro dall’argentiere Paolo Perrella come ornamento di due scrigni destinati a Carlo II di Spagna, ma non finiti per la morte del re (1700): due di essi – Apollo e Diana che uccidono i figli di Niobe e Meleagro che caccia il cinghiale calidonio – sono stati individuati nella collezione Riechers a Neuilly-sur-Seine (N. Spinosa, in Civiltà del ’700 a Napoli, 1979); e altri pezzi via via si vanno radunando intorno a questa serie o ad analoghe altre, dove il pittore dà prova di estrema vivacità inventiva ed esecutiva nel breve formato (Lattuada, 2005, pp. 51-53; Spinosa, 2015). Consentaneo è l’Apollo e Marsia dipinto come coperchio di clavicembalo (Londra, Victoria and Albert Museum).
Oltre ai quadri profani per il collezionismo privato, ancor giovane Vaccaro sfiorò la possibilità di condurre in pittura una grande commessa pubblica sacra: la decorazione della volta della sacrestia di S. Domenico Maggiore, di cui esiste il bozzetto con S. Domenico che resuscita Napoleone Orsini nipote del cardinal Stefano (Napoli, Museo di Capodimonte; Spinosa, 1975); ma l’incarico fu svolto poi, entro il 1707, da Solimena con affresco di altro soggetto. A quest’altezza il divario di stile tra i due era già significativamente sancito (Bologna, 1958, p. 147). In pittura dall’esempio vaccariano mosse Filippo Falciatore (Lattuada, 2001).
Domenico Antonio, frattanto, doveva essersi fatto anche come scultore. La collaborazione con il padre al monumento equestre di Filippo V di Spagna, inaugurato nel 1705 e distrutto due anni dopo, rivestì un’importanza facilmente intuibile. Opera notevole d’esordio è il Cristo deposto (1705) in marmo nel paliotto dell’altare maggiore di S. Giacomo degli Spagnoli a Napoli. Il tirocinio ‘di casa’ ebbe modo di evidenziarsi in specie nella prosecuzione di singoli lavori scultorei o di interi cantieri iniziati da Lorenzo, allorché quest’ultimo morì all’improvviso nel 1706. Domenico Antonio ne ereditò la bottega. Fu così, ad esempio, che gli subentrò nell’opera delle statue marmoree di David (solo da rifinire) e di Mosè (in pratica tutta da fare) per il cappellone dell’Immacolata nella chiesa gesuita di S. Francesco Saverio (poi di S. Ferdinando), ricevendo pagamenti ancora nel 1715 (Rizzo, 2001, p. 237, docc. 242, 247).
Un altro cospicuo settore di produzione plastica per Domenico Antonio, anch’esso ereditato, riguarda i modelli in creta destinati alla traduzione in argento. Di contro alle tante prove documentarie, tuttavia, non risultano molte le opere superstiti di tal genere, eseguite da vari argentieri, che gli possono essere riferite con certezza. Tra di esse sono la S. Anastasia (1705; chiesa di S. Maria la Nova) e il S. Antimo (1712; chiesa omonima) dei rispettivi omonimi centri campani. Di altre opere analoghe – busti-reliquari – gli vengono attribuiti i modelli su base stilistica, com’è il caso del S. Costanzo di Capri (1715; sull’argomento: Borrelli, 1984; Catello, 1994, p. 245; Catello - Catello, 2000; Borrelli, 2012). Del 1711 è il progetto del paliotto d’argento per la cattedrale di Amalfi (manomesso, e oggi nel locale Museo diocesano: Rizzo, 2003).
Anche e soprattutto nella certosa di S. Martino, Domenico Antonio si trovò inizialmente a raccogliere il testimone dal padre. Vi lavorò, tra il 1706 e il 1708, due coppie di statue in marmo di Virtù commesse a Lorenzo poco prima: la Profezia (o Fama buona) e l’Eloquenza (di cui una quasi finita) per la cappella di S. Giovanni Battista e la Solitudine e la Penitenza per la cappella di S. Bruno. Scolpì inoltre, l’anno seguente, le mezze figure di S. Gennaro e di S. Martino per due sovrapporte nel chiostro grande (Faraglia, 1892; Fittipaldi, 1980, pp. 32-35, 83-85; Rizzo, 2001, pp. 232-234, docc. 194, 204-205).
Al 1710 risale la cona in marmi all’altar maggiore di S. Maria in Portico a Napoli (p. 234, doc. 212).
Nel 1712 Domenico Antonio scolpì una delle sue opere più rappresentative: il gruppo dell’Angelo custode per la cappella Frasconi in S. Paolo Maggiore a Napoli (appena rifatta, e scoperta il 14 novembre di quell’anno: Lenzo, 2005, pp. 268 s.). In questo marmo, oggi nella navata della stessa chiesa, è ormai esplicito il rinnovamento formale rispetto al retaggio paterno (Mormone, 1961-1962a, p. 50), in chiave sia di rinnovato confronto con la pittura solimenesca, sia di recupero e interpretazione locale del berninismo tardo (Lattuada, 2005, pp. 40 s.).
Nel 1713 Vaccaro ricevé un acconto per la pala d’altare in marmo della cappella di S. Gennaro nella certosa di S. Martino (Rizzo, 2001, p. 236, doc. 235), con la Madonna che consegna le chiavi di Napoli al patrono, opera fondamentale, sia per tenuta compositiva sia per sapienza di variazione del rilievo: l’autore si misurava con un tipo di manufatto decisivo nel Seicento romano, rinverdendo al contempo la fortuna del genere nel Rinascimento a Napoli. Di questa cappella l’artista fu responsabile dell’intero corredo plastico, con le due statue della Fede e del Martirio, e le quattro mezze figure degli Evangelisti a rilievo.
I rapporti con i certosini di S. Martino furono continui e proficui, dando luogo, tra l’altro, ad alcuni degli esempi più pregevoli di definizione organica per un interno sacro, ivi compresa la tendenza a impaginati di gusto scenico. Lo provano, differentemente l’una dall’altra, le cappelle del Rosario e di S. Giuseppe, ai fianchi del pronao della chiesa, le quali risultano compiute entro il 1724 (Celano, 1692, 1724, VI, pp. 24 s.), sebbene non siano molti i sicuri appigli cronologici per questi due cantieri. È soprattutto nella cappella del Rosario, il cui pavimento è documentato al 1718 (Causa, 1973, p. 111 nota 160), che si mostra l’integrazione, favorita dalla luce, tra lo spazio, il ciclo pittorico e gli elementi d’ornato, dominati dallo stucco bianco: ogni cosa partorita da Domenico Antonio. Nell’allestimento della cappella di S. Giuseppe, anch’esso databile intorno al 1718, si optava per il colore a fingere il marmo e la doratura degli stucchi: di Vaccaro sono rimarchevoli in specie gli ovali da sovrapporta; mentre i dipinti, stavolta, spettano a Paolo de Matteis (Pestilli, 1994).
Pitture di De Matteis sono pure nella chiesa di S. Sebastiano a Guardia Sanframondi (Benevento), per la quale, nel 1719-22, Vaccaro lavorò agli altari e agli stucchi (De Martini, 1979; da ultimo: Ciarlo, 2016).
Il 1719 è l’anno del completamento della chiesa di S. Michele Arcangelo ad Anacapri (Napoli), articolata su un invaso ottagono: il coinvolgimento di Vaccaro vi è documentato (Cantone - Fiorentino - Sarnella, 1982), e il suo ruolo come autore del progetto, pur non del tutto sicuro, è in genere accolto (Adriani - Malangone, 2005).
A ogni modo, in particolare la cappella del Rosario a S. Martino dové costituire una sorta di laboratorio, coevo o appena precedente, per la sperimentazione condotta da Domenico Antonio nel suo capolavoro totale: la SS. Concezione a Montecalvario, nei quartieri spagnoli (analizzata su tutti, anche sotto il profilo simbolico-concettuale, da Pisani: 1994, 2001, e 2005).
Nata dalla ricerca sulla pianta centrale, questa chiesa, costruita e ornata tra il 1718 e il 1724, presenta uno schema ottagono allungato, con cappelle, maggiori e minori, collegate da un deambulatorio. La geometria di base è ripresa nell’imposta della cupola, sfumata in ovale, e largamente bucata da finestre: l’interno è plasmato in unità dalla luce, accolta nel corredo di stucchi bianchi, tra cui spiccano le coppie d’angeli con fiori mariani nei pennacchi: nessun rimpianto – scrisse De Dominici – a non vedere tali spazi affrescati (agli stucchi collaborò Domenico Catuogno, già allievo di Lorenzo). La continuità tra forma e struttura è deputata ai nessi tra il sistema tettonico e quello decorativo: quasi intercambiabili nella percezione dell’osservatore. Nei piloni l’architetto dispose dei coretti, esaltati da caratteristici mensoloni, e a mo’ di palchetti, per consentire alle monache di assistere alle funzioni. Di Vaccaro, oltre alle principali tele, tra cui spicca l’Addolorata, sono il capoaltare in marmi, con fastigio a baldacchino, e il pavimento a riggiole (G. Cantone, in Campania barocca, 2003).
Sempre a Montecalvario, e subito a seguire la Concezione, sorse uno degli edifici più ingegnosi, e ammirati all’epoca, di Domenico Antonio: il teatro Nuovo, distrutto nell’Ottocento. Su commessa degli impresari Giacinto de Laurentiis e Angelo Carasale, nel 1724 l’architetto concepì e realizzò, disponendo di un piccolo spazio, un organismo dal moderno impianto a ferro di cavallo, con scale angolari, funzionale e insieme ricercato, e all’avanguardia per efficienza della visione e dell’acustica: modello addirittura per il successivo teatro di S. Carlo (Tortora, 2005).
Nel terzo decennio del Settecento, per i teatini di S. Paolo Maggiore a Napoli, l’artista fece quattro rilievi in marmo nella cappella inferiore, ovvero nel succorpo della chiesa, dove sono custodite le spoglie di s. Gaetano da Thiene. Tali rilievi, che coniugano la qualità della resa chiaroscurale e spaziale con l’efficacia del racconto, raffigurano storie e miracoli del santo e sono citati e descritti nel 1724 (Celano, 1692, 1724, II, pp. 136 s.; Fittipaldi, 1980, pp. 85-87), a onta dei pagamenti che sembrerebbero posticiparne la consegna sino al 1726 (Rizzo, 2001, pp. 242-248, docc. 306, 331, 333, 358, 361). Risalenti al 1719-20, i modelli in terracotta dei due rilievi tondi, quelli con S. Gaetano e Niccolò Caffarelli, si conservano nel Royal Ontario Museum di Toronto (D’Agostino, 2015). A questo momento di stile sono prossimi i rilievi marmorei con Apollo e Marsia e Mercurio e Prometeo, nell’Art Institute di Chicago, convincentemente attribuiti a Domenico Antonio, come sue rare sculture a soggetto mitologico (Lattuada, 2005, pp. 38-40).
In tema di rilievo, ma con funzione ritrattistica e memoriale, si ricordano di Vaccaro i monumenti di Cesare Ligorio nella chiesa di Monteoliveto (1727) e di Anna Caterina Doria in S. Pietro a Maiella (1730) a Napoli. Del 1738 è il suo progetto per il sepolcro di Ettore Carafa della Spina in S. Domenico Maggiore, scolpito dall’allievo Francesco Pagano (Rizzo, 1979).
Nel 1728 Vaccaro firmò e datò la vasta tela centrale nel soffitto di S. Maria di Montevergine a Napoli, detta Monteverginella, raffigurante la Madonna in gloria e santi verginiani (di questa scena e delle altre due contigue sono noti i bozzetti, appartenenti a Capodimonte: Spinosa, 1993, p. 150). Per tale chiesa, poi, diresse la realizzazione di marmi, pavimenti e stucchi, questi ultimi rimossi nell’Ottocento (Ruotolo, 1968). Frequenti, del resto, furono i contatti con questa congregazione monastica: Vaccaro lavorò per S. Maria del Plesco a Casamarciano, presso Nola, rimodernando la chiesa (sin dal 1719) con marmi, stucchi e tele compiute entro il 1733 (il complesso ha subito un profondo abbandono e perdite; la tela dell’altare maggiore, con l’Annunciazione, è ricoverata al Museo storico-archeologico di Nola).
Del periodo è il dipinto con la Madonna col Bambino e i ss. Gaetano da Thiene e Filippo Neri nella cattedrale di Ostuni (V. Pugliese, in Il Barocco a Lecce e nel Salento, 1995). Altra rilevante impresa pittorica di questi anni è quella della collegiata di S. Maria delle Grazie a Marigliano, presso Nola: il dipinto maggiore del soffitto, con il Martirio di s. Sebastiano, è del 1730. Per questo ciclo è noto inoltre un pagamento del 1732 (Rizzo, 2001, p. 252, doc. 417). Il modello della pala d’altare è nel Worcester Art Museum (Teza, 1983-1984). Al 1730 o poco prima si datano le tele con la Natività e il Gesù tra i dottori nell’Assunta a Castel di Sangro (L’Aquila; Sansonetti - Savastano, 1995).
Databili all’inizio degli anni Trenta sono gli ovali su tela con i Misteri che circondavano, entro elaborata cornice rocaille, la Madonna del Rosario di Del Po (rubata) in S. Maria di Betlemme a Napoli; ovali (ne restano cinque: M. Santucci, in Ritorno al Barocco, 2009) cui si affianca per punto di stile il Martirio di santo nel Belvedere di Vienna (da ultimo: Lattuada, 2015). Questi dipinti, squillanti e svelti, confermano la caratura internazionale del cosiddetto barocchetto napoletano, di cui Domenico Antonio è esponente assodato.
Dal 1729 Vaccaro edificò la piccola chiesa di S. Michele Arcangelo (aperta nel 1731: Sigismondo, 1788-1789, p. 240), nuova sede della Congregazione dei 72 sacerdoti, presso Port’Alba, a Napoli. Al progetto originario, giocato sul compromesso tra lo schema centrale e l’andamento longitudinale, appartiene la cupola, su tamburo ottagono, e traforata quasi per intero da finestre. Spettano a Vaccaro anche il capoaltare e i dipinti agli altari laterali (Adriani - Malangone, 2005). Nel 1729 l’artista progettò il presbiterio con l’altare maggiore della chiesa napoletana del Rosario di Palazzo (Ruotolo, 1977).
Al 1730 circa risale il progetto di Vaccaro per S. Maria della Purità e Anime del Purgatorio a Giugliano, un’altra chiesa a impianto ottagono, con ampia cupola. In questo centro campano, inoltre, l’artista fornì disegni per stucchi nell’Annunziata, dove forse fu responsabile della costruzione della cupola (1727), e per arredi marmorei in S. Sofia (1735; F. Lenzo, in Blunt, 1975, 2006, pp. 307 s.). Nella vicina Calvizzano, più tardi, nel 1743-44, fece l’apprezzo degli stucchi di S. Maria delle Grazie (Rizzo, 2001, pp. 264 s., docc. 547, 561).
Nel 1732 iniziava, su progetto di Vaccaro, il cantiere del palazzo napoletano di Vincenzo Spinelli principe di Tarsia, alla salita Pontecorvo (Pisani, 1996, e 2005; Manzo, 1997; Rizzo, 1997).
Premiando la collocazione sopraelevata, l’architetto enfatizzò in special modo il potenziale della veduta. Degrado a parte, oggi resta poco di un’opera che, pur se mai completata, allora doveva distinguersi nell’edilizia nobiliare della città per estensione, architettura, sfarzo e capriccio: singolarità e ambizioni da spiegarsi con la conoscenza più che probabile di progetti di residenze principesche viennesi, tra Fischer von Erlach e Johann Lukas von Hildebrandt. L’esterno di palazzo Tarsia secondo il programma – con il prospetto, la corte, le rampe d’accesso, i giardini e gli artifici d’acqua, su più livelli digradanti – è illustrato in una notevole incisione di Francesco Sesone, su disegno dello stesso Vaccaro (1737; Società napoletana di storia patria).
Restando all’architettura civile e privata, Vaccaro progettò varie residenze e casini nell’allora deliziosa periferia di Napoli, tra il mare e il Vesuvio (Di Mauro, 2005): esempio ne era villa Caramanico, poi inglobata nella realizzazione del Palazzo Reale di Portici.
Nel 1733 si stabilì la riedificazione del palazzo abbaziale verginiano di Loreto a Mercogliano (Avellino), su progetto di Vaccaro (modificato poi da Michelangelo di Blasio), dov’è presente il tema del cortile-piazza attorno al quale si articolano gli ambienti. Due anni dopo, per la stessa committenza verginiana e sempre in Irpinia, l’architetto iniziò a pianificare il ripristino del complesso di S. Guglielmo al Goleto, dove ricostruì la chiesa del SS. Salvatore, oggi ridotta a rovine (Cantone, 2004; Adriani - Malangone, 2005). A questi anni risalgono le quattro didascaliche tele con Storie di s. Guglielmo da Vercelli, forse bozzetti preparatori di dipinti, non più realizzati, per il santuario di Montevergine (oggi nel museo dell’Abbazia: Lotoro, 2012).
Dal 1735, inoltre, Vaccaro era chiamato all’ammodernamento, a Bari, della cattedrale di S. Sabino, cripta compresa, e del seminario arcivescovile (Buono, 1983; Pasculli Ferrara, 1984): molto è stato rimaneggiato, o cancellato, nei restauri di epoche successive, inclini al recupero delle strutture medioevali. Anche l’adiacente chiesa di S. Giacomo delle Monache fu rinnovata.
Tra i vari incarichi per S. Domenico Maggiore a Napoli, come il nuovo pavimento della chiesa (1731-32), Vaccaro attese nel 1736-37, nell’omonimo largo, al completamento della guglia marmorea, rimasta incompiuta dal secolo precedente. Vi si riferisce il disegno autografo al Cooper-Hewitt Museum di New York: ma l’esecuzione definitiva se ne distacca per la rinuncia agli aspetti progettuali più innovativi (Pane, 2005). L’artista fornì anche il modello della statua sommitale di S. Domenico, eseguita in rame da Francesco Manzone.
Nel 1738 partecipò, insieme ai migliori pittori napoletani del momento, alla campagna decorativa del Palazzo Reale per i nuovi sovrani Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia, sposi in quell’anno. Vi dipinse (con una tecnica murale mista) le volte nei ‘passetti’ dell’alcova della regina, con due raffinate composizioni allegoriche, allusive alla Maestà regia e all’Amore coniugale, che, a lungo celate da controsoffitti, sono state riscoperte solo nel 1990 (Porzio, 1994).
Nella statuaria d’argento una delle opere più impegnative della maturità dell’artista fu il grande gruppo, non più esistente, della SS. Trinità con l’Immacolata per l’altare maggiore del Gesù Nuovo (1739, 1742): l’assieme rifletteva un processo di ‘stabilizzazione’ di un apparato effimero, da festa, secondo le strategie di persuasione, coinvolgenti e spettacolari per il fedele, adottate della Compagnia di Gesù (Borrelli, 1984, pp. 130-135).
Vaccaro era da anni l’architetto ordinario del convento di S. Chiara quando, sotto il badessato di Ippolita Carmignano (1739-42), cominciò lo svecchiamento del chiostro gotico, riconfigurato a parterre, secondo il gusto della regina Maria Amalia. La decorazione claustrale è famosa per le maioliche, prodotte dalla fabbrica dei Massa, che ricoprono sedili e schienali e i pilastri ottagoni con scene amene e paesaggi e fogliami, dove i variopinti paramenti ceramici assurgono a valori d’ambiente (Pane, 1954); si è notata, al riguardo, una parentela con casi iberici. Infine, dal 1744, Vaccaro fu coinvolto, con il collega Gaetano Buonocore, nella rifazione barocca dell’interno della basilica francescana, coperto da una nuova volta (Mormone, 1959).
Dal 1740, insieme a Giovanni Antonio Medrano, Vaccaro era impegnato nella risistemazione del porto di Napoli, voluta da re Carlo: qui gli è tradizionalmente attribuito l’edificio detto Immacolatella, nato come sede della deputazione della Salute (Garms - Cantabene, 2005).
Tra i dipinti più tardi di Vaccaro si ricordano la documentata Madonna del Rosario con s. Domenico in S. Michele Arcangelo a Piano di Sorrento (Napoli; 1736-37: Pavone, 1997, pp. 136, 430); i laterali della cappella di S. Oronzo in S. Pietro a Maiella, databili intorno al 1740 (Rizzo, 2001, pp. 115-118), e il Martirio di s. Giacomo, firmato e datato 1741, in S. Giacomo degli Spagnoli. E, ancora, il gruppo di tele nella chiesa di S. Mauro a Casoria (Napoli), tra cui la Visitazione firmata e datata 1742 (Spinosa, 1971, p. 532 nota 14). La pittura matura del maestro, in specie nei grandi formati, si andava assestando su moduli più piani rispetto alle innovazioni di gioventù. Nella fase tarda collaborò con lui, imitandone i modi ma con esiti più deboli, il figlio Ludovico.
Non trascurabile, infine, la parte di Vaccaro nell’editoria del suo tempo. L’artista disegnò il frontespizio, inciso da Antonio Baldi, nella seconda edizione dei Principj d’una scienza nuova (1730) di Giambattista Vico, di cui era amico: immagine il cui significato è minutamente spiegato all’inizio dell’opera a mo’ d’introduzione e insieme summa (Pisani, 2003; Bredekamp, 2016). Contribuì, poi, alla stampa delle Vite degli artisti napoletani di De Dominici (1742-1745 circa; un pagamento all’editore Ricciardi è del 1743; da ultimo: Zezza, 2017, pp. 33, 83).
Morì a Napoli il 13 giugno 1745 e fu sepolto nella Congregazione di S. Carlo Borromeo (parrocchia di S. Maria d’Ognibene ai Sette Dolori: Mormone 1961-1962b, p. 149 nota 11).
Aveva a lungo abitato alla salita Magnocavallo (pp. 136 s.). Suoi eredi furono i figli Alessandro, Lorenzo, Ludovico, Andrea e Ferdinando, nati dal matrimonio con Giuseppa Pierro (o Perla, o Perez). Si conoscono due inventari dei suoi beni, redatti nel 1745 e nel 1751 (Labrot, 1992; per i soli dipinti). Il suo esempio connotò ancora per vari anni una buona parte del linguaggio decorativo napoletano, grazie ad allievi e collaboratori più o meno diretti.
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