Dolcino
Capo della setta degli apostolici, dopo il supplizio (1300) di G. Segarelli. Nulla praticamente di certo si sa sulle sue origini: si potrebbe ritenerlo nato a Novara o comunque in un paese di quella diocesi, anche se le numerose testimonianze in questo senso non eliminano il dubbio che sia stata proprio l'ultima furibonda resistenza di Dolcino tra le montagne di quei luoghi a farlo ritenere originario di là. Il primo fatto certo della sua vita ci riporta all'agosto del 1300 quando egli appare, grazie al testo di una sua lettera conservataci in estratto dall'inquisitore Bernardo Gui, alla testa del movimento degli apostolici.
Secondo il racconto di Salimbene costoro erano apparsi nella diocesi di Parma intorno al 1260, in seguito alla predicazione di penitenza di Gerardo Segarelli: movimento pauperistico e penitenziale, che pretendeva di ripetere la vita che era stata degli apostoli, senza sedi fisse e gerarchie, esso fu fatto segno inizialmente alla violenta ostilità dei minori, timorosi della loro concorrenza non priva di un certo successo popolare, soprattutto in Emilia. Il concilio di Lione (1274) si occupò indirettamente anche degli apostolici quando prescrisse la soppressione di tutte le ‛ religioni ' e gli ordini mendicanti sorti dopo il IV concilio Lateranense. Secondo Salimbene, Gregorio X ordinò in particolare agli apostoli (o apostolici) il blocco delle ammissioni, in modo che il movimento (che in questa prospettiva appare tuttavia già configurato in ordine) avesse a scomparire gradatamente. Nel 1286 Onorio IV prescrisse agli apostolici di deporre l'abito e di entrare eventualmente in qualcuna delle ‛ religioni approvate '. Nel 1290 Niccolò IV ripeté queste disposizioni, aggiungendo tuttavia che venissero interrogati " de articulis fidei ". Nel 1294 il Segarelli venne incarcerato dal vescovo di Parma Obizzo, e dopo alterne vicende fu incolpato di eresia dall'inquisitore Manfredo da Parma, e, condannato, fu bruciato il 12 luglio 1300.
Dolcino ci appare alla testa del movimento quando la rottura con Roma e con le gerarchie locali era ormai consumata; ma era ancora rottura eminentemente disciplinare: la prima lettera enciclica di Dolcino nega al papa la capacità d'interferire nei destini del movimento, ma non impugna radicalmente la gerarchia ecclesiastica, né rifiuta, in nome dell'imitazione delle origini apostoliche, la successiva storia della Chiesa. L'ispirazione gioachimitica, che appare evidente in questa e nelle successive sue lettere, permetteva di prospettare in un futuro prossimo l'avvento di un ‛ papa angelico ' e di una Chiesa dello spirito che avrebbero superato le debolezze e le storture proprie della storia della Chiesa: ma è significativo tuttavia che i quattro periodi in cui si distingue la storia dell'umanità, che si riassume nella storia dell'attesa del Cristo e nel suo avvento (padri dell'antico Testamento, dal Cristo a Silvestro, da Silvestro al Segarelli, da questi alla fine del mondo), pur presentando tutti, salvo l'ultimo, elementi di corruzione interna, vengono d'altra parte a rivalutare anche la tradizione più strettamente temporalistica, che solo ora, nella nuova situazione, deve essere, secondo Dolcino, superata.
In quegli anni Dolcino sembra essersi dato a un' attivissima opera di proselitismo nel nord-Italia: ma il frequente suo spostarsi da un luogo all'altro si spiega anche con la necessità di sfuggire alla caccia sempre più serrata dell'Inquisizione: e appunto numerose testimonianze dei successivi processi inquisitoriali lo segnalano tra il 1302 e il 1304 nella Lombardia, in Emilia, nel Trentino. Nel 1304 Dolcino con alcuni seguaci appare nella Valsesia, fosse stato invitato o meno da quel " rusticus dives " di cui parla il cosiddetto Anonimo Sincrono che per tutte le vicende successive costituisce per noi il testimone più informato e sicuro benché fieramente antidolciniano. Braccato dall'Inquisizione e da un piccolo esercito vescovile e signorile costituitosi nel frattempo, Dolcino con i suoi risalì progressivamente le valli, fino ad attestarsi, in posizione di difesa, sulla ‛ parete Calva ': è qui che iniziò da parte degli apostolici una vera e propria azione armata. Stretti sempre più da presso, nel marzo 1306 i dolciniani fecero una sortita portandosi tra le montagne del biellese e attestandosi nella forte posizione del monte Zebello o Rubello sopra Trivero, da dove ripresero le loro rapide scorrerie verso il piano. Nell'estate del 1306 il vescovo Rainerio di Vercelli si rivolse al papa, Clemente V, che nel settembre 1306 rispose da Bordeaux con tre bolle, sollecitando le principali autorità civili e religiose delle regioni circostanti ad aiutare vercellesi e novaresi nella loro crociata antidolciniana. Dolcino e i suoi resistettero ancora tutto l'inverno, nonostante l'assedio e l'inclemenza della stagione li riducessero alla fame, finché nel marzo 1307 l'assalto decisivo dei crociati riuscì a debellare l'ultima resistenza. Dolcino con Margherita, sua donna, e i principali compagni non caduti in combattimento furono condannati al rogo e bruciati pochi mesi dopo. Un segno della risonanza e del timore largamente suscitato da questa vicenda può essere costituito dal fatto che allora, e per alcuni anni, l'accusa di essere " de secta Dulcini " fu sentita tra le più gravi che un tribunale dell'Inquisizione potesse muovere: già nel 1305 l'inquisitore Tommaso di Aversa, volendo colpire alcuni ‛ zelatori ' della regola francescana seguaci di fra Liberato, li accusò di essere " haereticos de secta Dulcini ", con evidente intenzione di coprirli d'infamia e di aggravarne la pena. Fin d'allora, comunque, le abbastanza numerose testimonianze che di Dolcino ci parlano tendono a recepire soprattutto le sue azioni degli ultimi anni, di brigantesco e battagliero combattente nelle valli del Piemonte, impegnato in un'azione che il polemico ricordo dei posteri isolò sempre più in una sfera di arti diaboliche e magiche.
D. colloca Dolcino nella nona bolgia, tra i seminatori di discordie: là infatti egli incontra Maometto che gli affida una sorta di raccomandazione per il ribelle piemontese: " Or di a fra Dolcin dunque che s'armi, / tu che forse vedra' il sole in breve, / s'ello non vuol qui tosto seguitarmi, / sì di vivanda, che stretta di neve / non rechi la vittoria al Noarese, / ch'altrimenti acquistar non saria leve " (If XXVIII 55-60). Sembra un'inutile insistenza psicologistica discettare sull'ironia o meno di questi versi (perché i dannati conoscono generalmente il futuro, e quindi Maometto non potrebbe non rendersi conto dell'inutilità della sua raccomandazione). Altro è ciò che importa del discorso dantesco. Dolcino è l'unico esponente dei moti ereticali del suo tempo di cui D. ci parli nella Commedia. Indizio della larga fama - almeno a livello di un elementare dato di conoscenza - raggiunta dalla vicenda dolciniana, la particolare presentazione che D. fa brevemente di essa indica tuttavia ancora una volta come Dolcino, prima che quale eretico, fosse visto e ricordato quale capo militare. Egli è posto sotto il segno di Maometto, il grande seminatore di scandali e di scismi: l'ultima disperata lotta tra le montagne piemontesi sopraffà completamente le precedenti esperienze degli apostolici. Secondo una linea già chiaramente presente nei cronisti, i versi danteschi suonano come piena conferma del tipo di risonanza che il nome di Dolcino aveva tra i suoi contemporanei: unico, il motivo dell'assedio e della lotta armata ritorna in essi; e non vi manca la commozione per quella disperata lotta e l'ammirazione per il valore dell'eretico, chiaramente percepibile in quel ch'altrimenti acquistar non saria leve che chiude la breve apostrofe.
Un raffronto tra i versi di D. e il testo del Villani (VIII 84) permette forse di stabilire tra essi un qualche rapporto. Il Villani conclude il suo racconto così: " Alla fine rincrescendo a quelli che seguivano la detta dissoluta vita, molto scemò sua setta, e per difetto di vivanda e per le nevi ch'erano, fu preso per gli Noaresi, e arso con Margherita sua compagna, e con più altri uomini e femmine che con lui si trovaro in quegli errori ". Se i versi di D. da un lato, quasi con esplicito ammirativo riconoscimento per le due doti di capitano, attribuiscono alle nevi e alla mancanza di vettovaglie la sconfitta di fra Dolcino, va sottolineato il fatto che il Villani ripeta gli stessi elementi come unica causa della sua caduta, pur senza evidentemente alcuna intenzione ammirativa per l'eresiarca. Non solo, ma quel Noarese, che nasconde probabilmente in D. l'esercito dei crociati, ritorna anche nel Villani, unico dei contemporanei, con parziale falsamento dei fatti, quando e dall'Anonimo Sincrono e dal Gui si testimonia il peso precipuo sostenuto nella lotta dalla città di Vercelli. Sembrerebbe quindi potersi concludere con la legittima supposizione che anche qui, come in altri casi (cf. R. Morghen, D., il Villani e Ricordano Malaspini, in " Bull. Ist. Stor. Medio Evo " XLI [1921] 171 ss.), il Villani abbia avuto presente, stendendo le sue notizie, la Commedia.
Bibl. - Le principali fonti coeve riguardanti la vicenda dolciniana, con una scelta di atti inquisitoriali, sono raccolte da A. Segarizzi, in Rer. Ital. Script. IX 5, Città di Castello 1907, LVI 104; ma vedi anche per i processi E. Dupré Theseider, L'eresia a Bologna nei tempi di D, in Studi storici in onore di G. Volpe, I, Firenze 1958, 383-444 (spec. 430-433). Per i versi danteschi in particolare, cfr. F. Tocco, D. e l'eresia, Bologna 1899, 88 ss., e M. Fubini, in Lect. Scaligera I 1014 ss. Per la vicenda dolciniana E. Dupré Theseider, Fra Dolcino: storia e mito, in " Boll. Società Studi Valdesi " LXXVII (1958) 5-25, ed E. Anagnine, Dolcino e il movimento ereticale all'inizio del Trecento, Firenze 1964, 283 (ma cfr. al riguardo in " Studi Mediev. " s. 3, VII [1966] 474). Per il ‛ gioachimismo ' dolciniano cfr. E. Benz, Ecclesia Spiritualis. Kirchenidee und Geschichtstheologie der franziskanischen Reformation, Stoccarda 1934, 358-368. Alcuni rilievi importanti, anche se certe affinità restano dubitose, in R. Guarnieri, Il movimento del Libero Spirito dalle origini al secolo XVI, in " Archivio per la storia della pietà " IV (1965), 394 ss., 409 ss. Per la ‛ fortuna ' di fra Dolcino, oltre alla prefazione preposta dal Segarizzi alla sua edizione (che tratta anche ampiamente dei commenti danteschi del Trecento), cfr. G. Miccoli, Note sulla fortuna di fra Dolcino, in " Annali Scuola Norm. Sup. Pisa " XXV (1956) 245-259.