Dogme 95
Collettivo di cineasti fondato a Copenaghen il 13 marzo 1995 su iniziativa dei registi Lars von Trier e Thomas Vinterberg, le cui firme appaiono in calce all'atto costitutivo del gruppo, un breve manifesto, formato da un'introduzione programmatica e da una seconda parte, il "voto di castità", che elenca le dieci regole cui dovrà attenersi ogni regista che voglia aderire a tale movimento.
Definito dai suoi fondatori "un atto di salvataggio" (L. von Trier, Idioterne: manuskript og dagbog, 1998; trad. it. Gli idioti: Dogma 95, la sceneggiatura, il diario di lavorazione, 1999, p. 9), D. 95 ha lo scopo di contrapporsi a "una "certa tendenza" del cinema di oggi", espressione, quella virgolettata, che richiama il titolo di un importante articolo di François Truffaut, Une certaine tendance du cinéma français, apparso sui "Cahiers du cinéma" nel gennaio del 1954 (nr. 31, pp. 15-29), in cui si ponevano le basi della Nouvelle vague. Come negli anni Cinquanta Truffaut aveva preso di mira una tradition de qualité, considerata accademica, legata a un'idea letteraria di cinema e impersonata da registi privi di una significativa cifra di messinscena, così i registi di D. 95 attaccano nel cinema contemporaneo una tendenza a loro dire "individualista" e "decadente". Il manifesto esordisce indicando proprio nella Nouvelle vague un movimento che ha avuto grande importanza ma che poi sarebbe stato tradito dai suoi stessi iniziatori: "Nel 1960, ne avevamo abbastanza. Il cinema era morto e invocava la resurrezione. Lo scopo era giusto, ma non i mezzi. La Nouvelle vague si rivelava uno sciabordio che, andando a morire sulla riva, si trasformava in fango. […] Il cinema antiborghese divenne borghese, poiché era fondato su teorie che avevano una percezione borghese dell'arte. Il concetto di autore, nato dal romanticismo borghese, era dunque… falso" (L. von Trier 1998; trad. it. 1999, p. 9). Passando all'oggi, i cineasti di D. 95 vedono infuriare "una tempesta tecnologica" che in breve permetterà a chiunque di girare un film: "Ma più i media diventano accessibili, più l'avanguardia è importante. Non è un caso che il termine "avanguardia" abbia una connotazione militare. La risposta è la disciplina […]".Contro la "cosmetizzazione" del cinema, contro l'uso "delle illusioni per comunicare le emozioni", i registi devono quindi darsi delle regole rigorose, quelle del "voto di castità" (p. 9). Le regole del 'voto' sono le seguenti: 1) le riprese devono aver luogo in ambienti reali, non ricostruiti, senza uso di accessori o scenografie; 2) i suoni e la musica devono essere sempre prodotti e registrati insieme alle immagini: non si può quindi far uso di musica, "a meno che non risuoni sul luogo dove la scena è girata"; 3) la macchina da presa deve essere sempre tenuta a mano; 4) il film deve essere a colori e non sono ammesse illuminazioni speciali; 5) sono proibiti i trucchi fotografici o i filtri; 6) il film non deve contenere alcuna azione definita "superficiale" e in nessun caso si devono vedere omicidi o armi; 7) sono vietate le "alienazioni", ovvero i salti temporali o geografici: "ciò significa che il film si svolge in tempo reale"; 8) i film di genere sono inaccettabili; 9) il film deve essere girato in 35 mm; 10) il nome del regista non deve figurare nei titoli di testa. Come in ogni manifesto artistico-creativo, il rigore, il gesto provocatorio, la serietà e l'autoironia sembrano convivere. Del resto, il tono del manifesto, ascetico quanto ai contenuti e declamatorio quanto allo stile, induce a rintracciarvi un gesto postmoderno e indicibile, sospeso tra attendibilità e mistificazione, mentre i risultati estetici del movimento evidenziano l'ambiguità e la contraddittorietà chiaramente perseguita dal 'gioco predittivo' del manifesto stesso. Un'ambiguità che lavora sullo scarto rispetto al preteso rispecchiamento del reale, e uno sguardo che di questa stessa realtà mette in risalto gli aspetti eccessivi, i comportamenti borderline, le accensioni tragiche o grottesche, al limite della vera e propria deformazione visionaria. Il risulta-to tecnico-formale che si ricava dalle applicazioni del manifesto alle varie opere è dunque quello di una messa in evidenza della tensione tra la realtà e il suo simulacro, tra verità e mistificazione.
D. 95 ha trovato registi che hanno aderito alle sue regole e che hanno girato film secondo il decalogo del 'voto'. A distanza di sette anni dalla pubblicazione del manifesto, i film che hanno ottenuto il 'certificato di autenticità', riportato nel titolo assieme a un numero d'ordine progressivo, sono circa trenta. Non appare tuttavia casuale il fatto che i risultati più interessanti siano stati ottenuti all'inizio, sull'onda della sorpresa e della freschezza, in particolare da parte di registi danesi, i quali hanno saputo dare alle prescrizioni stilistiche del decalogo un contenuto poetico più definito: Dogme 1 ‒ Festen (Festen ‒ Festa in famiglia; premio speciale della giuria al Festival di Cannes del 1998) diretto da Th. Vinterberg è un violento attacco all'istituzione familiare, simbolicamente rappresentata dalla figura di un padre pedofilo e incestuoso, accusato dal figlio di essere il responsabile del suicidio della sorella gemella; il film seguente, Dogme 2 ‒ Idioterne (1998; Gli idioti) di von Trier, è un'opera provocatoria e disturbante su un gruppo di persone che vivono in comunità e si fingono handicappate mentali quando entrano in contatto con l'esterno; la figura positiva dell'idiota ritorna in Dogme 3 ‒ Mifunes sidste sang (1999; Mifune ‒ Dogma 3) di Søren Kragh-Jacobsen, favola antiborghese in forma di commedia d'ambientazione contadina, mentre in Dogme 4 ‒ The king is alive (2000) di Kristian Levring, si racconta la messa in scena di un Re Lear surreale, da parte di un gruppo di turisti, dispersi nel deserto namibiano, in una città abbandonata. Primo film non danese è stato Dogme 5 ‒ Lovers (1999; Lovers) del francese Jean-Marc Barr, storia d'amore tra una commessa parigina e un pittore iugoslavo senza permesso di soggiorno. Fra gli altri film girati, il più interessante è risultato Dogme 6 ‒ Julien: donkey-boy (1999), dello statunitense Harmony Korine, opera schizofrenica su una famiglia di folli, messa in scena in modo talmente ambiguo da impedire del tutto allo spettatore di prendere posizione riguardo alla sua veridicità. Il primo film italiano è il numero 11: Diapason (2000) di Antonio Domenici, che racconta, in una Roma notturna e inquietante, le storie parallele di un gruppo di immigrati di diverse nazionalità e di un sessantenne direttore di produzione che deve convincere una giovane attrice a partecipare a un film.
Proprio nel periodo in cui stava crescendo l'attenzione verso il movimento, diversi segnali hanno lasciato presagire un suo esaurimento progressivo. Un'interpretazione eccessivamente 'scolastica' delle regole del voto ha portato infatti alla realizzazione di opere troppo spesso monotone e prive di originalità; di contro, da parte dei membri fondatori, è sembrata emergere l'esigenza di un'applicazione più 'liberale', capace di mettere in gioco le iniziali prescrizioni, se non addirittura di prendere le distanze da esse.
L. von Trier, Trier om von Trier, Stockholm 1997 (trad. it. Il cinema come dogma, conversazioni con Stig Björkman, Milano 2001).
A. Addonizio, G. Carrara, M. De Simone, et al., Il Dogma della Libertà. Conversazioni con Lars von Trier, Palermo 1999.
P. Schepelern, Il cinema secondo dogma. Regole di recitazione, ostacoli e superamenti, in Onde del Nord. Il cinema danese contemporaneo, a cura di A. Toftgaard, I. Hakesworth, Bologna 2000 (catalogo della mostra), pp. 36-51.
T. Porcelli, Lars von Trier e Dogma, Milano 2001.
Dogma 95: zwischen Kontrolle und Chaos, hrsg. J. Hallberg, A. Wewerka, Berlin 2001.