DODONE
Le fonti relative alla vita e alla carriera di D., vescovo di Rieti dal 1137 fino alla sua morte avvenuta nel 1181, non forniscono alcuna notizia sulla sua provenienza sociale e geografica, né sulle condizioni della sua ascesa all'episcopato. Secondo una tradizione antica apparteneva all'Ordine cisterciense, ma la notizia non può essere provata con sicurezza. A da escludere che la scelta di lui come vescovo reatino sia connessa con i viaggi in Italia di s. Bernardo di Chiaravalle. D'altronde in quest'epoca i vescovi venivano spesso scelti tra i cisterciensi anche in Italia. Non sarebbe quindi strano se anche D. fosse appartenuto a quest'Ordine. Egli comunque, durante il suo vescovato, dimostrò sempre favore e amicizia verso i monaci bianchi.
La situazione che D. si trovò ad affrontare fu senza dubbio complessa sotto molti aspetti. Alla diocesi di Rieti, durante l'episcopato del predecessore Bonincasa, era stata annessa l'antica diocesi di Amiterno in Abruzzo, da secoli senza vescovi. Questo fatto poneva il vescovato di Rieti in una situazione molto particolare e anche pericolosa. Amiterno infatti, fino al 1140, dipendeva, anche se solo formalmente ormai, dal conte di Rieti, il cui potere era in netto declino. La zona di Amiterno era quindi male controllata dal potere civile, ed è probabile che il Papato mirasse ad estendervi la propria influenza politica. In ogni modo l'annessione di Amiterno corrispondeva bene all'evoluzione della geografia politica caratterizzata nel sec. XI dall'espansione verso Est della contea di Rieti. Quando nel 1154 Anastasio IV riconfermò a D. i confini del suo vescovato, vi incluse infatti anche le antiche pievi che una volta facevano parte della diocesi di Amiterno.
Dal punto di vista dell'inquadramento religioso, i vantaggi che la Chiesa ricavava da questa unione erano evidenti, poiché il nuovo assetto consentiva di imporre la presenza di un vescovo potente in una regione dominata fino ad allora dai monaci di Farfa e di San Vincenzo al Volturno. Nel momento in cui i papi si opponevano alle immunità monastiche, la creazione di una vasta diocesi, che si appoggiava sulla potenza dell'unica città importante di quella zona dell'Appennino centrale, costituiva certo un'abile mossa politica. Dopo il 1140 e l'annessione dell'Abruzzo al regno normanno la diocesi di Rieti venne quindi a trovarsi da un lato nel Regno di Sicilia di cui Amiterno faceva parte, dall'altro, con la Sabina, nel ducato di Spoleto, e si trovò perciò coinvolta nello scontro tra il papa e Ruggero II: nel 1149 la città di Rieti venne occupata e incendiata. D. si vide quindi costretto a porre rimedio alle conseguenze materiali e spirituali di questa vicenda cioè a contribuire alla ricostruzione della città e degli edifici religiosi distrutti. La sua attività fu, dopo il 1149, quella di un restauratore.
Inoltre D. dovette affrontare il problema della nascita del Comune. Un conte di Rieti è menzionato l'ultima volta nel 1140; nel 1171 le istituzioni comunali - un Consolato di undici membri - erano già solidamente costituite. Non abbiamo informazioni sulle lotte politiche all'interno della città, ma è evidente che la debolezza dell'autorità pontificia dovette facilitare la nascita del Comune, se non ne fu addirittura la causa. In questa situazione a D. non restò altro da fare che battere in ritirata. Il diploma che l'imperatore Federico I gli concesse nel 1177 riconosceva ufficialmente l'esistenza del Comune e soprattutto ratificava l'assenza di un qualsiasi ruolo politico del vescovo. Tutto quello che D. riuscì ad ottenere fu l'immunità fiscale dal Comune: l'intervento dell'imperatore poneva così fine al grave contrasto apertosi tra il vescovo e il Comune in materia tributaria, contrasto che D. non era stato in grado di risolvere da solo.
Nella sua azione pastorale D. si preoccupò soprattutto di rafforzare le acquisizioni della riforma gregoriana. Fu molto attivo all'interno della sua diocesi, che percorse in lungo e in largo in occasione delle celebrazioni, soprattutto delle consacrazioni di chiese, alle quali desiderava conferire un carattere di particolare solennità. Le iscrizioni commemorative testimoniano l'importanza che queste celebrazioni assumevano ai suoi occhi. Lo scopo che D. si proponeva era quello di manifestare pubblicamente l'unione dell'episcopato, e di fatto tutte queste cerimonie furono celebrate in comunione con altri vescovi. Il suo nome si trova così associato a quello dei vescovi dei Marsi, di Furcone e di Narni. Nel 1156 D., Bernardo vescovo di Furcone e Benedetto vescovo dei Marsi consacrarono a Monteleone Sabino una chiesa dedicata a S. Vittorino. L'anno seguente la cripta della cattedrale, distrutta durante il sacco del 1149, fu a sua volta consacrata da D., Pietro, vescovo di Narni e Bernardo, vescovo di Furcone. Nel 1179 infine, vicino alle rovine della città abbandonata di Amiterno, D., Bernardo di Furcone e un terzo vescovo non identificato consacrarono un'altra chiesa dedicata a S. Vittorino. Queste frequenti concelebrazioni, oltre a permettere al prelato di essere fisicamente tra i suoi fedeli e di manifestare in questo modo la sua presenza e la realtà concreta della sua autorità, costituivano l'espressione liturgica di un nuovo atteggiamento dei vescovi. Almeno nell'Italia centromeridionale si moltiplicavano queste celebrazioni in comune e i vescovi ne approfittavano per incontrarsi.
Nello spirito della riforma gregoriana l'autorità episcopale costituiva il perno dell'organizzazione ecclesiastica e tendeva ad essere esercitata, se non proprio collegialmente, nella più stretta collaborazione tra vescovi vicini. I monaci erano stati limitati ai loro monasteri e i signori laici risultavano ormai esclusi dal controllo e dall'esercizio dei riti sacri. Il vescovo affermava i suoi diritti e quelli della Chiesa, di fronte alle autorità concorrenti. Le traslazioni di reliquie, le consacrazioni di chiese insieme con le solennità che le caratterizzavano erano altrettante occasioni per manifestare in modo particolarmente solenne la solidarietà effettiva tra i vescovi.
Per quel che riguarda D., questa solidarietà veniva messa in rilievo soprattutto di fronte ai monaci benedettini ogni volta che egli consacrava una chiesa negli altipiani abruzzesi dove costoro, fino ad allora, erano stati le uniche autorità ecclesiastiche a causa della latitanza del vescovo. In queste occasioni D. trascurava i confini politici, nella fattispecie quello del Regno di Sicilia, come per dimostrare che l'azione pastorale non doveva assolutamente tenere conto delle divisioni politiche. In Sabina cercava di imporsi soprattutto ai signori laici con l'obiettivo di controllare le chiese situate nei loro castra. Nella stessa Rieti la consacrazione della cripta del duomo nel 1157 serviva a circoscrivere, di fronte al nascente Comune, una sfera d'azione di competenza puramente ecclesiastica. L'iscrizione non dà notizia di alcun intervento da parte dei laici, anche se è impensabile che la popolazione di Rieti non fosse stata coinvolta nell'opera di ricostruzione della cattedrale.
La documentazione in nostro possesso non ci permette di dire di più sull'azione pastorale di D., ma sappiamo da fonti indirette che egli favorì l'insediamento dei cisterciensi nella propria diocesi. La regione di Rieti nel XII secolo sembrava fatta per attrarre i discepoli di s.Bernardo: le terre orientali non erano ancora state pienamente dissodate e inoltre l'inquadramento signorile era molto debole, anche dopo l'arrivo dei Normanni. È indicativo che a fondare e a guidare il principale insediamento cisterciense nella diocesi sia stato un membro della famiglia dei conti dei Marsi, Baldovino, figlio di Bernardo (X) e fratello di Rinaldo, abate di Montecassino. D. non era certamente responsabile di questa decisione, ma il fatto che fosse stata scelta la sua diocesi per l'insediamento, tra quelle abruzzesi, mostra che la personalità e l'azione del vescovo dovettero avere la loro importanza. Egli doveva essere sensibile alle forme di spiritualità che l'ascetismo dei cisterciensi implicava.
È tuttavia possibile interpretare questa scelta anche in modo diverso. D. può aver voluto opporsi all'influenza ancora molto forte dei benedettini nella regione e la presenza di un membro di una famiglia dotata di grande prestigio alla testa di quell'istituzione poteva essere stata giudicata da lui utile. In questo caso si sarebbe trattato innanzitutto di deviare il flusso delle donazioni, per poi trovare un modo di condividere il potere religioso nel rispetto delle nuove norme canoniche e delle esigenze spirituali del tempo. I fedeli erano così spinti a rivolgersi alle nuove strutture che riflettevano meglio gli ideali della riforma gregoriana. L'azione pastorale di D. sarebbe quindi inquadrabile perfettamente nelle concezioni ecclesiastiche del XII secolo, e nel suo clima spirituale, e lo stesso D. sarebbe il tipo ideale di vescovo che la riforma aveva disegnato.
D. tuttavia non limitò la propria attività alla sua sola diocesi: il suo nome figura infatti nella lista dei vescovi presenti nel 1179 al terzo concilio lateranense che risolse lo scisma vittorino e lanciò l'appello per una terza crociata. I due temi dell'unità della Chiesa e della riconquista di Gerusalemme si iscrivono perfettamente nella sua azione.
La presenza di una tale personalità alla testa della diocesi dovette avere conseguenze anche sul piano materiale. Alla sua morte la cattedrale di Rieti non era stata ancora ricostruita completamente, ma D. poté portare a compimento almeno una parte dell'impresa. Non sappiamo se le chiese che consacrò fossero state tutte fondate da lui ex novo, perché è possibile che le traslazioni di reliquie siano state effettuate soltanto per dare maggiore solennità al passaggio di proprietà delle chiese castrali.
D. fu anche un attento amministratore del patrimonio della sua Chiesa. Del suo episcopato resta una documentazione di carattere economico non indifferente. Il vescovo moltiplicò le enfiteusi, così come avevano fatto prima di lui i monaci di Farfa, e senza dubbio per le stesse ragioni. Concessi in cambio di una forte somma, che spesso mascherava un'alienazione definitiva del patrimonio ecclesiastico, questi contratti consentivano di convertire in moneta una parte del capitale fondiario pur salvaguardandone i diritti fondamentali. È chiaro che D. aveva bisogno, in un'epoca così turbolenta, di moneta, sia per il caso che il Comune gli avesse esplicitamente imposto di partecipare finanziariamente alla ricostruzione della città, sia per la costruzione della nuova cattedrale. Non è facile stabilire se questa conversione di capitale fondiario sia stata controbilanciata dalla generosità dei fedeli. L'ascendente di D., insieme con il prestigio che le istituzioni ecclesiastiche avevano riacquistato all'interno della diocesi avrebbe potuto contribuire a far sorgere e poi ad alimentare un flusso di donazioni, ma non sembra che questo sia avvenuto. Le difficoltà che dovettero accompagnare la nascita del Comune, insieme con la situazione politica della fine del secolo, sono del resto sufficienti a spiegarlo.
D. fu un vescovo attento soprattutto a far progredire la riforma gregoriana all'interno della sua diocesi. I limiti della sua figura sono invece da attribuirsi parzialmente alla geografia politica del suo tempo. La situazione della sua diocesi, posta in una zona di confine, i problemi generati dalla conquista normanna e un rapporto evidentemente molto teso con le autorità comunali costituivano altrettanti freni che rischiavano di rimettere continuamente in discussione qualsiasi successo riportato.
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