DOCUMENTARIO
Lo sviluppo del documentario nel 21° secolo. Le nuove tendenze del documentario. La lezione di Wiseman e la nuova stagione del cinema del reale. Bibliografia
Lo sviluppo del documentario nel 21° secolo. – I primi anni Duemila sono gli anni in cui il d. contemporaneo ha conosciuto un ampio sviluppo sia quantitativo sia qualitativo. Il successo commerciale di autori come Michael Moore, Erroll Morris, Alex Gibney o Morgan Spurlock in questo periodo ha contribuito al suo rilancio nel panorama audiovisivo contemporaneo. A lungo considerato un genere cinematografico tra gli altri, il d. si mostra sempre più come un approccio particolare al cinema, una modalità peculiare di lavorare le immagini, in stretto rapporto con la realtà, dimostrando una straordinaria capacità di sperimentazione e ricerca. Si sono moltiplicati festival, scuole e corsi dedicati al d., si sono imposti nuovi autori, ma, innanzitutto, si sono moltiplicati i linguaggi, i supporti e le tecnologie, le riflessioni teoriche e di poetica, le pubblicazioni sistematiche e non. Soprattutto, il panorama contemporaneo, anche a uno sguardo superficiale, rivela immediatamente l’impossibilità di dare un’immagine unitaria, coesa e compatta della produzione di documentari.
Proprio questa varietà di forme e di tendenze costituisce uno degli elementi che più testimonia la fecondità espressiva del genere negli ultimi anni. All’inizio del nuovo millennio sono emersi alcuni dati importanti: un aumento della produzione, della capacità delle opere di confrontarsi con la produzione internazionale e di incidere sulle forme e sui linguaggi del cinema contemporaneo; una proliferazione lenta, ma costante della cultura e della conoscenza del
d. nella cultura critica e cinefila contemporanea; una capacità da parte del d. di intercettare e rimodulare forme espressive, approcci produttivi e soluzioni tecniche innovative e, al tempo stesso, di dialogare con le nuove tendenze del cinema di finzione.
Le nuove tendenze del documentario. – Il rinnovato interesse per la forma del d. riflette senz’altro l’esigenza di un rapporto critico e complesso con il reale che attraversa costantemente il panorama audiovisivo attuale, ma è anche, come anticipato, il segno della volontà di sperimentare nuove forme espressive. Le direzioni intraprese sono infatti diverse. Anzitutto, il d. contemporaneo ha lavorato su una nuova riconfigurazione delle modalità con cui l’evento, la situazione o le storie possono essere visti e raccontati, utilizzando varie soluzioni espressive, spesso all’interno di un unico film. Può essere il caso dell’animazione (v.), il cui impiego ha dato origine a una tendenza molto diffusa che è quella dell’animated documentary, in cui il suo uso svolge il compito di rappresentare ciò che non è rappresentabile, perché invisibile o legato al passato – come nel caso di Vals im Bashir (2008; Valzer con Bashir) di Ari Folman, dove la memoria perduta di un ex soldato israeliano ritorna attraverso immagini visionarie che solo l’animazione può rendere visibili – o perché connesso a qualcosa che ha a che fare con il sogno o l’immaginazione – come in Kiss the water (2013) di Eric Steel, in cui la vita di una donna che costruisce mosche per canne da pesca è intervallata da immagini animate di una vita subacquea, o ancora in Is the man who is tall happy? Ananimated conversation with Noam Chomsky (2013) di Michel Gondry, dove la conversazione tra il regista e il famoso linguista diventa l’occasione per costruire un percorso animato che trasforma in immagini i concetti espressi dallo studioso.
Un’altra tendenza particolarmente significativa del lavoro di reinterpretazione della realtà che il d. ha sviluppato negli ultimi anni è rappresentata dal found footage o dal cinema d’archivio, da quelle forme di cinema cioè che riutilizzano secondo diverse modalità immagini del passato provenienti da fonti diverse. Ancor più che nel caso del d. animato, il found footage non ha avuto origine negli ultimi anni (risale agli anni Venti del Novecento), ma è indubbio che sia una delle tendenze più sviluppate nell’ambito del d. contemporaneo, capace di ripresentare criticamente le immagini del 20° sec. – come in Pays barbare (2013) di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, che riprendono immagini d’archivio del Novecento italiano mostrandone, attraverso il montaggio, nuovi sensi e nuove possibilità di lettura – o capace di lavorare le immagini per rivelare un mondo nascosto ricco di senso – come in Hollywoods (2008) di Cécile Fontaine, dove un d. naturalista diventa, attraverso il montaggio, una sorta di film epico sul mondo degli insetti minacciato dal disboscamento umano delle foreste.
Lo sviluppo di Internet è stato per il d. l’occasione di sperimentare nuove possibilità di costruzione dell’immagine, slegate dalle regole della temporalità e della strutturazione narrative tipiche del cinema tradizionale. Il web documentary, o d. interattivo, è una forma che ripensa le pratiche della durata, del montaggio della temporalità del cinema attraverso le specificità della rete, permettendo ai fruitori di interagire, navigare letteralmente tra le immagini e costruirsi un proprio percorso di visione, come In situ (2011) di Antoine Viviani o The iron curtain diaries (1989-2009), un viaggio multimediale attraverso il percorso del muro di Berlino, a opera di un gruppo di artisti e giornalisti, coordinati dal regista Matteo Scanni. Il d. interattivo è anche la possibilità di prolungare il percorso di visione di un film attraverso altre immagini e altre storie possibili, come fa Claire Simon in Gare du Nord (2013), progetto che comprende un lungometraggio girato nella più grande stazione ferroviaria di Parigi e un d. interattivo che moltiplica le storie e le interviste all’interno della stazione, così che il fruitore può compiere un proprio percorso entro le tante immagini disponibili.
Il d. contemporaneo, grazie anche allo sviluppo di tecnologie leggere di ripresa – come le fotocamere digitali che possono filmare in formato professionale Full HD – ha spesso portato avanti le istanze del d. moderno, nato a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta del Novecento. L’uso di tecnologie leggere di ripresa e di registrazione del suono, infatti, ha permesso ai registi di muoversi agilmente in situazioni complesse e fluide, come in un film pluripremiato quale Tahrir, place de la Libération (2011) di Stefano Savona, che si immerge letteralmente dentro le manifestazioni di massa durante la rivoluzione egiziana del 2011. O come Sacro GRA (2013) di Gianfranco Rosi, vincitore del Leone d’oro alla Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia nello stesso anno, in cui il regista italiano esplora lo spazio del Grande raccordo anulare di Roma mostrando una umanità nascosta e invisibile che vive ai suoi margini.
La lezione di Wiseman e la nuova stagione del cinema del reale. – Il Leone d’oro alla carriera, premio della Mostra di arte cinematografica di Venezia 2014, attribuito a Frederick Wiseman, uno degli autori più importanti del d. moderno, è stato un segnale importante di riconoscimento del d. come forma di cinema capace di offrire nuovi sguardi sul mondo. Il lavoro di un decano come Wiseman nei primi anni Duemila si è concentrato – come sviluppo coerente del suo cinema – su un principio di osservazione e di esplorazione degli spazi e dei luoghi simbolici della società contemporanea e sul loro impatto nella costruzione della soggettività. Ciò che ha caratterizzato il suo lavoro è stato soprattutto l’attenzione alla forma attraverso cui il cinema può essere in grado di mostrare i rapporti tra i corpi e le istituzioni, di esplorare cioè come le regole e i discorsi del potere e della società siano in grado di condizionare le risposte individuali. Wiseman ha costruito negli anni una vera e propria teoria e pratica del d., non solo attraverso i suoi film, ma anche attraverso una continua e ininterrotta attività di conferenziere e insegnante, che lo ha portato a confrontarsi con realtà molto diverse, continuando così a essere un punto di riferimento ineludibile per le varie generazioni di cineasti succedutesi dagli anni Settanta a oggi. Nei lavori degli ultimi anni, Wiseman sembra voler attraversare altre forme e luoghi della vita sociale, luoghi legati al divertimento e allo spettacolo, come il Madison Square Garden di New York (The Garden, 2005), il balletto dell’Opera di Parigi (La danse, 2009), il tempio dell’erotismo francese (Crazy Horse, 2011), e luoghi di svago come palestre (Boxing gym, 2010), università (At Berkeley, 2013) e musei (National Gallery, 2014).
La lezione di Wiseman – l’uso dell’immagine come esercizio di sguardo della realtà vista anzitutto come spazio in cui si esercita e si condiziona la vita sociale degli individui – è riconoscibile in molti autori contemporanei, interessati a indagare i luoghi sociali di costruzione dell’identità contemporanea. Ne sono esempio La forteresse (2008) del regista svizzero Fernand Melgar, incentrato sulle pratiche e le dinamiche di un centro di accoglienza per richiedenti asilo politico in Svizzera, Il castello (2011) di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, girato all’aeroporto internazionale di Malpensa, o ancora Maidan (2014) di Sergej Loznitsa, in cui il luogo temporaneo (la piazza di Kiev occupata dagli oppositori del governo ucraino nel 2013) diventa lo spazio attraverso cui filmare corpi statici e in movimento, esplorare le forme molteplici di una protesta.
Le forme del d. contemporaneo sperimentano spesso la mescolanza tra formati e linguaggi diversi rimettendo in gioco la distinzione tra finzione e realtà. Registi come Isaki Lacuesta (Los pasos dobles, 2011), Alberto Fasulo (TIR, 2013), Eric Baudelaire (Letters to Max, 2014) lavorano al confine tra fiction e realtà all’interno di una ricerca sempre aperta e finalizzata alla scoperta di un reale complesso e di non facile interpretazione. I lavori nati all’interno del Sensory ethnography lab di Harvard sono, da questo punto di vista, un altro esempio di ibridazione delle forme espressive nell’ambito del cinema documentario. Il laboratorio dell’Università di Harvard, diretto da Lucien Castaing-Taylor, coniuga ricerca estetica ed etnologica, indagine sul le forme estreme della percezione delle immagini e dei suoni del mondo, ed è diventato ormai da qualche anno una realtà riconosciuta, un luogo in cui pratica teorica e filmica si incrociano felicemente. Film come Foreign parts (2010) di Véréna Paravel e J.P. Sniadecki, Sweetgrass (2009) di Ilisa Barbash e Lucien Castaing-Taylor, People’s Park (2012) di Sniadecki e Libbie Dina Cohn, The iron ministry (2014) di Sniadecki sono solo alcune delle tappe di un’indagine della potenza del cinema come dispositivo di interrogazione ed esplorazione del mondo. Nei film del gruppo di Harvard i luoghi e i corpi esplorati non sono spazi ‘oggettivi’, separati, misurabili; che sia un quartiere newyorkese marginale (Foreign Parts)
o un parco pubblico cinese, attraversato per 80 minuti in un unico piano-sequenza da una camera attenta a cogliere le sfumature di un intero mondo in uno spazio qualsiasi (People’s Park); o che sia la riscoperta di un mondo rurale quasi mitico che sopravvive nella contemporaneità (Sweetgrass), lo sguar do della videocamera è sempre uno sguardo immersivo, che pensa il cinema come esperienza sensoriale, e non come descrizione oggettiva (illusoria) di ciò che si sta guardando.
Proprio a partire dal riconoscimento della complessità della realtà, il d. contemporaneo sceglie spesso una posizione eticamente condivisa, che è quella dell’osservazione del reale. Tale osservazione si basa su un rispetto della distanza tra chi filma ed è filmato e al tempo stesso mostra e dichiara di essere uno sguardo parziale, che non pretende di restituire una verità unica sugli eventi filmati. È questa la posizione di registi come Peter Mettler (Gambling, Gods and LSD, 2002), Thomas Heise (Sonnensystem, 2011; Die Lage, 2012; Städtbewohner, 2014), Kim Longinotto (Salma, 2013; Dreamcatcher, 2015) e mol ti altri: autori diversi per stile, tematiche e concezione del cinema, ma accumunati dall’idea che il rapporto con il reale sia anzitutto un problema etico, un costante interrogarsi su ciò che si sta filmando, e sul modo di filmarlo.
Le questioni sollevate dal d. contemporaneo sono quindi soprattutto etiche ed estetiche: tra le più rilevanti la domanda su come filmare il passato. La memoria, la storia sono infatti i temi e le ossessioni ricorrenti del cinema documentario contemporaneo (e del cinema contemporaneo in toto), in particolare la memoria del Novecento, il secolo dei massacri e delle guerre. Il cinema di Joshua Oppenheimer – The act of killing (2012; L’atto di uccidere), The look of silence (2014) – rappresenta un tentativo di risposta. Laddove le immagini mancano (come nel film di Rithy Panh, L’image manquante, appunto), laddove non è possibile (e sarebbe forse limitante) utilizzare immagini già filmate delle grandi tragedie della Storia, si scelgono altre vie: spingendo due ex torturatori del regime di Pol Pot in Cambogia a rimettere in scena i loro crimini (The act of killing) o seguendo un oculista alla ricerca della vera storia della sua famiglia e del suo Paese (The look of silence).
Il d. contemporaneo, quindi, si conferma cinema della realtà, complessa e problematica, dei nuovi tempi.
Bibliografia: R. Odin, De la fiction, Bruxelles 2000 (trad. it. Milano 2004); B. Nichols, Introduction to documentary, Bloomington-Indianapolis 2001 (trad. it. Milano 2006, nuova ed.2014); M. Bertozzi, Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Venezia 2012.