djing
<dìiǧeiṅ> s. ingl., usato in it. al masch. – La pratica del mixaggio di sonorità. Il d. si basa sul principio semiotico della intertestualità e della citazione musicale all’interno della quale campionamenti riconoscibili e/o modificati servono ad ampliare, ridurre e trasfigurare la traccia di partenza A nella nuova traccia B senza che si distingua necessariamente il passaggio da A a B. Attinge dal principio di condivisione e remiscelamento di elementi culturali sonori attraverso strategie analogiche e digitali, hardware (per es. turntable, i giradischi manipolabili) e software. A differenza del concerto rock o dell’esecuzione dal vivo di musica classica, nel d., secondo criteri di improvvisazione che rendono la performance sonora unica e irripetibile, si ricerca l’attenzione del pubblico per condurlo alla danza. La creatività nel d. opera affinché l’intera traccia sia costituita dall’alternarsi di ripetizioni/innovazioni più o meno lunghe, tenute per un tempo variabile che va dalla durata del brano fino all’intera sessione musicale (dj-liveset). Alla base ripetuta si aggiungono via via altri elementi fatti di loop, campionamenti, frammenti che nella durata della performance si ripetono e formano blocchi musicali che si sparpagliano nel corso dell’intera traccia. Il d. è particolarmente adoperato in generi musicali che richiedono il ballo e una vibrante socialità (techno, hip-hop, dub, reggae e musiche elettroniche in generale). Il risultato di un continuum musicale senza interruzioni richiede al dj l'utilizzazione di tecniche strumentali e abilità manuali (se opera con vinili e software quali Final scratch, Serato, ecc.).