Dite
Dite (dal latino Dis-Ditis, con cui i Latini designavano la divinità, corrispondente al Plutone dei Greci, che presiedeva all'Averno, l'oltretomba pagano) è uno dei nomi che D. adotta, seguendo Virgilio (Aen. VI 127, 269 e 397, VII 568, ecc.) per indicare Lucifero (v.). Da lui prende il nome l'ultima parte dell'Inferno (o basso Inferno), che va dal sesto al nono cerchio, detta appunto ‛ città di Dite ' (la città c'ha nome Dite, If VIII 68; come città di Dio è il Paradiso, If I 126 e 128), o terra sconsolata (VIII 77), città del foco (X 22) e città roggia (XI 73; come vera città o cittade è il Paradiso, Pg XIII 95 e XVI 96).
La città di Dite. - È chiusa da una cinta di mura dall'aspetto ferrigno (le mura mi parean che ferro fosse, If VIII 78), munite di alte torri che appaiono rosse alla vista come se di foco uscite / fossero a causa del foco etterno / ch'entro l'affoca (vv. 72 ss.). Essa è circondata dalla palude formata dall'acqua del fiume Stige e al suo ingresso stanno di guardia schiere di diavoli. Secondo la struttura morale dell'Inferno (esposta da Virgilio in If XI 16 ss.), fuori della città di Dite, dal secondo al quinto cerchio, sono puniti i peccati d'incontinenza (lussuria, gola, avarizia-prodigalità, ira o, secondo altri, ira e accidia o, secondo altri ancora, tristizia); nel basso Inferno, all'interno della città di Dite, i peccati più gravi attuati o con forza o con frode (If XI 24): eresia, il peccato meno agevolmente classificabile tra le due grandi categorie di malizia e di matta bestialitade (vv. 82-83); la violenza contro il prossimo, contro sé stessi e le proprie cose, contro Dio, natura e arte; la frode contro chi non si fida, suddivisa in dieci specie; e la frode contro chi si fida o tradimento, suddivisa in quattro specie (vedi le varie voci).
D. immagina di giungere con Virgilio alle soglie di Dite, traghettato sulle acque dello Stige dal nocchiero Flegias, nelle prime ore antimeridiane del 9 aprile del 1300 (se si considera il suo viaggio iniziato al tramonto dell'8 aprile). I diavoli che sono a guardia di Dite impediscono l'ingresso ai due poeti, serrando la porta della città. Nulla può contro di loro neppure Virgilio, il quale tuttavia rincuora D. assicurandogli che presto giungerà in loro aiuto tal che per lui ne fia la terra [" città "] aperta (If VIII 130). Ma ecco che all'improvviso compaiono sulla torre sovrastante la porta di Dite le feroci Erine (IX 45), le tre Furie, Megera, Aletto e Tesifone, che con gesti di disperazione e d'ira invocano la venuta di Medusa (Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto, v. 52), e Virgilio si affretta a invitare e ad aiutare D. a non guardare in alto verso di esse, giacché se 'l Gorgón si mostrasse e il poeta lo vedesse, nulla sarebbe di tornar mai suso (vv. 56-57). A liberare i due pellegrini da questa terribile situazione giunge alfine qualcuno che D. capisce bene essere stato da ciel messo (v. 85); questi con una verghetta (v. 89), apre le porte di Dite, e, dopo aver rivolto aspre parole ai diavoli, se ne torna indietro.
Tutto l'episodio nasconde un senso allegorico di difficile intendimento (D. stesso ha voluto sottolinearne il valore simbolico, rivolgendosi direttamente al lettore: O voi ch'avete li 'ntelletti sani, / mirate la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani, vv. 61-63). E quindi assai varia è stata, nella lunga tradizione esegetica, l'interpretazione data soprattutto alle figure delle tre Furie, a quella di Medusa e del messo celeste.
Le erinni e la Medusa sono state per lo più considerate dai commentatori antichi come simboli delle " tre qualitadi da cui generalmente ciascuno male si muove " (Iacopo), o della " incontinencia ", della " malicia " e della " bestialitate " (Lana), o delle " radici e nascimento della superbia e della invidia procedenti da malizia " (Buti e Landino); o dei rimorsi, collegate al simbolo della Medusa, vista come l'eresia (Lana), o la sensualità (Boccaccio), o il terrore (Pietro, Benvenuto), ecc.; i commentatori moderni hanno aderito ora a questa ora a quella delle interpretazioni antiche, ritornando in particolare al concetto di eresia (Galanti, Blanc, ecc.), del diletto sensuale (Tommaseo, Poletto, ecc.), o dei rimorsi e della disperazione (Sapegno). Ma altri hanno voluto tentare un'interpretazione di tipo politico, collegando le furie e Medusa al significato del messo celeste, simboli le prime della violenza e della malizia che sovvertono le leggi della recta civitas, e scorgendo nel secondo il simbolo dell'autorità imperiale (Pascoli, Valli, Mattalia, ecc.), impersonata specificamente, secondo alcuni, nel veltro, in Enrico VII, in un dux genericamente inteso (Tommaseo) o in Enea (Caetani, Pietrobono, Toffanin). Ma gli antichi videro per lo più nel messo celeste semplicemente un angelo (Ottimo, Buti, Landino, Vellutello, ecc.); solo alcuni lo identificarono con Mercurio, come Pietro, Benvenuto, ecc. La maggior parte dei moderni ha accettato l'opinione prevalente degli antichi, chiarendone magari meglio il significato come figurazione dell'intervento della grazia divina (Sapegno). Qualcuno ha voluto addirittura identificare il messo con il Cristo (Fornaciari, Federzoni); altri, infine, hanno voluto eludere ogni impegno esegetico, considerando tutto l'episodio nel suo senso letterale e nei suoi valori descrittivi, intensamente drammatici e figurativamente orripilanti.
Bibl. - Oltre ai più importanti commenti al poema (in particolare Scartazzini, Casini-Barbi, Porena, Sapegno, Mattalia), cfr.: M. Caetani, Della dottrina che si asconde nell'ottavo e nono canto dell'Inferno, ecc., Roma 1852 (poi nella Collez. Opusc. Dant., Città di Castello 1894); C. Galanti, L'allegoria dantesca del Capo di Medusa, Ripatransone 1882; C. Negroni, L'allegoria dantesca del Capo di Medusa, Bologna 1882; R. Fornaciari, Il mito delle Furie, in Studi su D., Milano 1883 (Firenze 19002); F. Colagrosso, I canti VIII e IX dell'Inferno, in Altre questioni letterarie, Napoli 1888; S. Betti, Postille alla D.C., a c. di G. Cugnoni, Città di Castello 1893; G. Federzoni, Gli Angeli nell'Inferno, Rocca S. Casciano 1897; G. Pascoli, Minerva oscura (1898) e Sotto il velame (1900), ora in Prose, II, Milano 1952; A. Venturi, Il c. IX dell'Inferno, Firenze s.a.; F. Flamini, I significati reconditi della Commedia di D. e il suo fine supremo, Livorno 1904; L. Filomusi Guelfi, La città di Dite; Le Furie; Medusa; I versi strani, il messo del cielo alle porte della Città di Dite (tutti, tranne il secondo saggio, già in " Giorn. d. " XVIII [1910], nel vol. Nuovi studi su D., Città di Castello 1911); U. Moricca, La città di Dite, in " Giorn. d. " XXI (1913) 1-38; M. Rampolla del Tindaro, Il messo del cielo nel c. IX dell'Inferno, ibid. XXIII (1915) 1-19; L. Pietrobono, Davanti la porta chiusa, e La Città di Dite, in Il poema sacro. Inferno (parte Il), Bologna 1915; ID., Il cerchio di Dite, in " Giorn. d. " XXIV (1921), 245-264; M. Porena, Fra Stige e Dite, ibid. XXX (1927) 1; ID., Inferno IX, in La mia Lectura Dantis, Napoli 1932; U. Bosco, Il c. VIII dell'Inferno, Roma 1951 (poi in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 213-236); M. Marcazzan, Il canto delle Furie, in " Humanitas " VII (1952), poi in Lett. dant. 153-172; S. Santangelo, L'allegoria del c. IX dell'Inferno, in Saggi danteschi, Padova 1959 (ma 1951); R. Bacchelli, Da Dite a Malebolge: la tragedia delle porte chiuse, ecc., in " Giorn. stor. " CXXXI (1954); L. Pietrobono, Il c. IX dell'Inferno, Torino 1959 (ma 1957); A. Ricolfi, La trasfigurazione cristiana delle porte dell'Ade virgiliano in D. e il " messo da cielo ", in " Nuova Rivista Storica " XLII (1958) 2; G. Severino, Sotto il velame delli versi strani, Campobasso 1959; G. Toffanin, Il canto VIII dell'Inferno, Firenze 1960; U. Zannoni, Il c. IX dell'Inferno, ibid. 1961; B. Maier, Le principali " cruces " della D.C. nella critica contemporanea, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 278; V. Russo, Ma dimmi: quei de la palude pingue?, nel vol. Sussidi di esegesi dantesca, Napoli 1966.