distribuzione commerciale
Insieme delle attività che consentono il passaggio dei prodotti finiti dal produttore al consumatore.
In Italia il settore della d. c. era caratterizzato da una estesa regolazione, basata sulla l. 426/1971, che vincolava, spesso in maniera ingiustificata, le scelte imprenditoriali. Per l’apertura di un esercizio commerciale al dettaglio erano richiesti, oltre al rispetto delle normative urbanistiche in materia di igiene e sanità, l’iscrizione a un apposito registro degli esercenti al commercio, e l’ottenimento di un’autorizzazione amministrativa rilasciata con riferimento a predeterminate tabelle merceologiche, nel rispetto di dettagliati piani commerciali. Questi ultimi, redatti periodicamente a livello comunale, stabilivano, sulla base di una programmazione strutturale dell’offerta, il limite massimo di superficie della rete di vendita distinto per settore merceologico, superato il quale non venivano concesse ulteriori autorizzazioni all’apertura di negozi. Altri vincoli delle strategie delle imprese nel settore della d. al dettaglio derivavano dalla normativa in materia di orari di vendita, che imponeva la chiusura degli esercizi in determinate ore e giornate della settimana. Questa politica regolatoria così restrittiva, soprattutto con riferimento allo sviluppo della grande d., aveva condotto a una struttura dell’offerta dei mercati della d. al dettaglio molto più frammentata di quella degli altri principali Paesi europei (nel 1988 17,1 esercizi per 1000 abitanti contro 7,1 della Francia, 5,9 della Gran Bretagna e 5,4 della Germania). Inoltre, il territorio italiano era caratterizzato da una minore disponibilità di supermercati (➔ supermercato) e ipermercati (➔ ipermercato): nel 1992 45,1 m2 di supermercati per 1000 abitanti contro 116,4 della Francia e 108,4 della Germania. Come risultato, la d. c. in Italia era inefficiente e costosa, sia in termini di prezzo sia di tempo necessario per gli acquisti.
Il d. legisl. 114/1998, contenente una riforma organica del settore della d. c., ha introdotto sostanziali elementi di liberalizzazione (➔ p). Innanzitutto le tabelle merceologiche, che precedentemente erano molto dettagliate, sono state accorpate in due soli settori, alimentare e non alimentare. Inoltre sono stati eliminati gli obblighi di possedere specificati requisiti di professionalità per la d. di prodotti non alimentari, ed è stato soppresso il Registro degli esercenti il commercio. Come conseguenza l’apertura, l’ampliamento e il trasferimento degli esercizi commerciali di minori dimensioni sono stati completamente liberalizzati. Anche gli orari di apertura sono stati resi più flessibili, consentendo piena libertà di apertura tra le ore 7 e le 22, e demandando ai Comuni la regolazione delle aperture nei giorni festivi. Tuttavia il d. legisl. ha mantenuto un regime di autorizzazione per gli esercizi commerciali di media e di grande dimensione, e ha affidato alle Regioni la funzione regolatoria in materia di d. c., individuando alcuni interessi generali che esse sono chiamate a soddisfare (per es., arredo urbano, traffico, trasporti ed equilibrio tra diverse tipologie di forme distributive). Soprattutto quest’ultimo obiettivo è stato utilizzato da molte Regioni per frenare, a svantaggio dei consumatori, lo sviluppo della grande distribuzione.
Dopo il 1998, anche se i limiti quantitativi allo sviluppo della grande d. sono stati eliminati, i piani regolatori e urbanistici regionali sono stati frequentemente utilizzati per imporre, spesso, ingiustificate barriere di ingresso alle grandi strutture di d. al dettaglio. Inoltre, la proliferazione degli statuti e delle normative regionali in tema di d. c. ha prodotto assetti regolatori che differiscono più nel modo in cui sono scritti che nei principi e regole che affermano, ma che contribuiscono ad aumentare i costi per le aziende (e per i consumatori), talvolta anche in misura significativa, specie per quelle operanti a livello multiregionale o nazionale.
Analogamente, l’obbligo di autorizzazione per l’apertura di esercizi commerciali di dimensione media, giustificato per ragioni di interesse generale (per es., permettere una migliore pianificazione sia in termini di equilibrio tra le diverse funzioni urbane, sia in termini di efficiente fornitura e utilizzo di infrastrutture), è stato spesso utilizzato per proteggere gli operatori esistenti a svantaggio dei consumatori. Secondo un rapporto dell’OCSE (➔) sulla riforma regolamentare in Italia (Italy: better regulation to strengthen market dynamics, «Reviews of Regulatory Reform», 2009), la Lombardia e il Piemonte «richiedono che i negozi di media grandezza, al di sopra di un certo limite, presentino analisi d’impatto che specifichino dettagliatamente i loro effetti sulla rete di trasporto esistente, sull’ambiente e anche sul sistema dei negozi di operatori dominanti. I primi due requisiti sono in linea con un approccio economico, ma l’ultimo, che è caratteristica comune delle norme in tutte le Regioni, in particolare per l’autorizzazione dei grandi magazzini, reintroduce una misura di pianificazione dell’offerta. […] Questo è evidente nel caso del Veneto che, avendo imposto limiti quantitativi, richiede altresì ai Comuni di tenere conto del supporto dei piccoli negozianti al dettaglio al momento di fissare le regole da seguire per l’autorizzazione di nuovi negozi».