discriminazione salariale
Sistematica disparità nelle retribuzioni di diversi gruppi di lavoratori ugualmente produttivi e quindi dovuta non a differenze osservabili fra la prestazione dell’uno e quella dell’altro, ma esclusivamente alla loro appartenenza a un dato gruppo, definito per es. in base al genere, all’etnia o al Paese di origine.
L’analisi economica della d. risale all’opera di G.S. Becker (➔) The economics of discrimination (1957), nella quale egli espone la sua teoria basata sul concetto di d. da pregiudizio, per cui i datori di lavoro si comportano come se il salario da pagare al lavoratore discriminato fosse superiore a quello effettivo di una percentuale definita dal coefficiente di d., che è tanto più elevato quanto maggiore è il pregiudizio del datore di lavoro nei confronti del gruppo discriminato.
La d. può dipendere anche dai pregiudizi dei colleghi di lavoro. In questo caso i soggetti discriminanti, che ricevono un dato salario monetario, si comportano come se il loro salario fosse inferiore, in misura tanto più rilevante quanto più elevato è il coefficiente di discriminazione.
È inoltre possibile che siano i consumatori ad avere pregiudizi. In questo caso, le loro decisioni di acquisto non sono basate sul prezzo reale del bene, ma su quello aggiustato per la disutilità derivante dal contatto con il gruppo discriminato.
La d. da pregiudizi aiuta a comprendere come nel mercato del lavoro si possano verificare differenze di guadagni o occupazione tra individui di diversi gruppi, per es. fra uomini e donne. Tali diversità si possono manifestare anche in assenza di pregiudizi, quando l’appartenenza a un gruppo fornisce al datore di lavoro presunte informazioni sulla produttività dell’individuo. Si parla in questo caso di d. statistica, che ha luogo quando l’impresa utilizza statistiche sulla performance media del gruppo per prevedere il comportamento e la produttività di una singola persona. I salari dei lavoratori in questo caso dipendono non solo dalle loro caratteristiche osservabili, ma anche dalla produttività media del gruppo cui appartengono. La misurazione della d. o semplicemente la verifica della sua esistenza sono difficili da effettuare, perché i datori di lavoro non rivelano spontaneamente il loro comportamento discriminatorio, essendo questo vietato per legge. Tuttavia, alcuni studi empirici mostrano la presenza negli Stati Uniti e in numerosi Paesi europei di una significativa d. nei confronti sia delle donne sia degli immigrati.
Per misurare la d. si utilizza generalmente la decomposizione di Oaxaca, una tecnica statistica in base alla quale il differenziale salariale grezzo tra i salari medi dei due gruppi viene scomposto in una parte dovuta a differenze osservabili e in una non spiegata, che rappresenta la componente del differenziale salariale dovuta a discriminazione. Gli studi che utilizzano tale metodologia mostrano che, per l’Italia, tra il 10 e il 18% (a seconda dei dati di riferimento) del differenziale complessivo di genere (a parità di qualifica e impiego) è dovuto a d. (➔ anche genere, economia di; segregazione). L’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (➔) stabilisce il divieto di d. nel godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione stessa.