Discriminazione razziale
L'espressione 'discriminazione razziale' sarà qui usata per indicare la realizzazione nella prassi del 'razzismo' in quanto teoria: per indicare cioè il razzismo applicato, fondato sulla diversità di 'razza'. In questo senso del tutto generale esiste una discriminazione razziale ogniqualvolta uomini di diverse 'razze' e livelli di sviluppo vengono a contatto e hanno rapporti fra loro, anche in mancanza di una teoria del razzismo esplicitamente formulata.I più forti hanno sempre fatto lavorare per loro, in una forma o in un'altra, i più deboli. Finché la densità della popolazione rimase bassa, era relativamente facile per i gruppi in posizione socioeconomica subordinata sfuggire alla discriminazione ritirandosi in territori disabitati o scarsamente popolati; solo in seguito all'incessante e massiccia crescita demografica dell'età moderna e alla contemporanea espansione su scala mondiale delle grandi potenze il problema della discriminazione razziale ha assunto le dimensioni che conosciamo.
D'altra parte, la discriminazione razziale non è che un caso particolare della tendenza a mettere in condizioni di svantaggio individui o interi gruppi in base a determinati criteri (o pregiudizi). Le due forme di discriminazione più antiche e più generalizzate sono quella contro le donne, che risale agli inizi delle civiltà stanziali sorte circa 5.000 anni fa nel Vicino Oriente, e prima ancora presso le popolazioni nomadi, e quella contro gli stranieri in genere (xenofobia). La discriminazione razziale è una forma di xenofobia estesa alla 'razza', legittimata nell'età moderna dal sistema teorico del razzismo. Presupposti di fondo della discriminazione razziale sono anche la superbia culturale di tutte le civiltà verso i 'barbari' e i 'selvaggi' e l'orgoglio per la 'purezza del sangue', legato di solito con l'appartenenza all'aristocrazia o a una religione. Non ci occuperemo qui dell'antisemitismo come moderna variante della discriminazione razziale, perché a esso è dedicato un altro articolo (v. Antisemitismo).
La discriminazione verso le donne in tutte le società nomadi e stanziali, e talvolta anche nelle società barbariche che praticavano l'agricoltura estensiva, sfociò nella discriminazione razziale attraverso l'istituto della schiavitù: le donne ridotte in schiavitù generavano meticci che venivano di solito discriminati rispetto ai loro cugini di pelle chiara, in modo che non potessero partecipare con parità di diritti al livello di benessere di quella determinata società. Ad esempio, le antenate degli odierni afroamericani erano quasi sempre donne nere importate come schiave e rimaste in genere tali nelle prime generazioni. I mulatti, insieme con gli afroamericani neri (nati per lo più dai field slaves, gli schiavi che lavoravano i campi in condizioni peggiori degli house slaves addetti ai lavori domestici), furono - e sono tuttora- oggetto di discriminazioni razziali di vario tipo, stabilite da leggi e da norme costituzionali, come in molti Stati nordamericani prima del 1965, od operanti nella realtà socioeconomica. Negli Stati Uniti ciò è reso più evidente dalla diversità di colore della pelle e dal fatto che la vita nazionale è ispirata a ideali democratici; ma in realtà tutti i paesi e tutte le culture hanno le loro forme di discriminazione razziale, palesi od occulte. Gli esempi che qui verranno addotti non serviranno a formulare una denunzia moralistica, ma a illustrare l'applicazione pratica di certi principî astratti.
Secondo queste premesse, il sistema castale indiano può essere considerato la più antica forma storica conosciuta - e in linea di principio tuttora esistente - di discriminazione razziale, come la matrice originaria dell'apartheid. A cominciare dal 1500 a.C. circa conquistatori indoarii di pelle chiara assoggettarono i dravida, popolazioni indigene di pelle scura, trattandoli come nemici e come schiavi (nel termine dasa si ha una fusione dei due concetti: nemico = schiavo di pelle scura). Dalla distinzione, comune a molte altre società, fra sacerdoti, guerrieri e contadini liberi nacquero le tre caste superiori originarie, a cui si aggiunse più tardi quella dei mercanti: al disotto di queste quattro caste vi erano i dasa, considerati come 'senza casta' (paria), e gli arii declassati per aver trasgredito l'ordinamento castale, ad esempio sposando una donna dasa invece di tenerla semplicemente come schiava o come concubina priva di diritti.Quella indiana è la più antica società formalmente divisa in caste su base razziale: al vertice di essa vi sono i brāhmaṇa, l'antica casta sacerdotale, che in teoria dovrebbero essere il più possibile di pelle chiara, al suo estremo inferiore vi sono i senza casta, in origine prevalentemente di pelle scura. Tuttavia nei 2.500 anni di vita del sistema castale indiano queste differenze di colore non si sono conservate integralmente; soprattutto nel Sud i brāhmaṇa sono spesso di pelle più scura rispetto ai paria o ai membri delle caste inferiori. Nel Nord il sistema castale esiste tuttora, ma si tratta di una realtà sociale tanto complessa che non può essere schematizzata; tuttavia l'ideale della pelle chiara sopravvive indiscusso nelle caste superiori, come si può ancora rilevare negli annunzi matrimoniali, mentre la pelle scura rappresenta uno svantaggio, soprattutto per le ragazze delle caste inferiori.Il termine originario indiano per indicare la casta è varna, che significa 'colore', ed è quindi da associare al colore della pelle; ma la vera e propria casta è detta jāti, termine che designa un gruppo professionale con numerose sottocaste, derivanti dalla divisione dei quattro varna. Il termine 'casta' venne introdotto dai portoghesi, e la sua etimologia (il latino castus: puro, casto) contiene già l'idea di gruppo esclusivo e di discriminazione: le caste superiori erano e sono rimaste orgogliose della 'purezza' (reale o presunta) del loro 'sangue ario', conseguibile solo mediante una rigida endogamia, ossia la proibizione di matrimoni con persone di sangue estraneo e 'inferiore', ad esempio con i dasa di pelle scura. Nelle caste superiori indiane sono dunque presenti insieme l'orgoglio di sangue e nobiliare degli arii (i 'migliori', che formano quindi l'aristocrazia), l'endogamia e il divieto dell'unione legittima con gli estranei (i dasa), la xenofobia, lo schiavismo (nei confronti dei dasa) e l'orgoglio di razza nei confronti dei drāviḍa di pelle scura. Nonostante le barriere di casta, sanzionate sul piano religioso dall'induismo e dall'idea della trasmigrazione delle anime, nel corso degli ultimi 2.500 anni si è affermata spontaneamente una convivenza delle varie 'razze' e caste, cosicché l'analisi storica intesa a ricostruire gli elementi originari del sistema sociale indiano non può che fondarsi su strutture concettuali ipotetiche. Nell'odierna realtà dell'India le differenze di 'razza' si sono attenuate in misura tale da rendere difficilmente riconoscibile l'origine delle caste in una discriminazione razziale attuata nei tempi remoti della conquista aria.
La struttura castale s'incontra in molte altre società. Anche la trasmissione ereditaria di una professione di padre in figlio, frequente in tutti gli strati sociali, dà luogo a strutture di tipo castale, favorite spesso dall'endogamia, imposta formalmente o praticata spontaneamente. Spesso si hanno strutture di casta ai vertici della piramide sociale, come nei collegi di sacerdoti e nell'aristocrazia, oppure al suo estremo opposto, come quando i membri delle categorie professionali inferiori, che devono svolgere attività considerate 'impure', o realmente immonde, vivono in un isolamento di tipo castale, disprezzati per il loro infimo rango. Nel Giappone esistevano due gruppi del genere, gli eta e gli hinin; il significato letterario del primo termine è addirittura 'non uomini'. Un altro esempio è offerto in Occidente, sia pure con una sfumatura di esotismo, dagli zingari (rom, sinti), discendenti da una casta inferiore indiana, quella dei dhomi, tuttora presenti in India come giocolieri e saltimbanchi girovaghi. Dopo l'emigrazione in Europa attraverso la Persia e l'Egitto (da cui il nome inglese gypsies), gli zingari hanno conservato sostanzialmente non solo l'aspetto esteriore caratterizzato dalla pelle scura e la lingua originaria, ma anche alcune usanze della nativa India e l'isolamento castale rispetto alla popolazione sedentaria. Analogamente sono strutturate in base alle caste, più che alle classi, molte società africane. In ogni epoca tutte le aristocrazie e le élites sociali hanno sviluppato una tendenza alla chiusura oligarchica, trasformandosi in caste nella misura in cui si sono isolate dagli strati inferiori della società attraverso una serie di privilegi e attraverso la pratica dell'endogamia.
Il concetto di casta è fondamentale per l'analisi delle moderne società d'immigrazione, sorte con l'espansione oltremare europea e fondate sulla tratta degli schiavi africani nel Nuovo Mondo. Differenti situazioni storiche hanno dato origine a tipi di società d'immigrazione e di discriminazione razziale molto diversi tra loro, che richiedono, pur nella brevità imposta alla nostra trattazione, un esame differenziato.Le più antiche società d'immigrazione europea sono classificabili come società di casta su base razziale. Esse hanno sviluppato il moderno razzismo come ideologia di legittimazione dell'imperialismo, essenzialmente europeo, dei 'bianchi'. Al suo culmine, intorno al 1900, quest'ideologia si tradusse in una multiforme e massiccia discriminazione esercitata dalla 'razza' bianca dominante ai danni delle presunte 'razze inferiori' assoggettate, soprattutto nelle colonie europee in Africa e nell'Asia sudorientale. Tale discriminazione, fondata sulla cosiddetta barriera razziale (colour bar), fu estesa anche a popoli di antica civiltà (persiani, indiani, cinesi) che a quel tempo erano politicamente subordinati agli europei, ma che a loro volta attuavano (e attuano tuttora) una serie di discriminazioni razziali nei riguardi di certi gruppi autoctoni. La più antica società d'immigrazione europea fu, a cominciare dal 1492, l'America spagnola; la successiva colonizzazione dell'America settentrionale ha assunto con la formazione degli Stati Uniti un particolare significato storico, anche per il contrasto ricco di tensioni tra l'ispirazione democratica di quel paese e il suo status di potenza mondiale. Una variante del modello nordamericano, derivata da premesse storiche analoghe (anche se abbastanza differenziate per giustificare una trattazione a parte), è costituita dalla società sudafricana, caratterizzata per lungo tempo dall'apartheid; essa ha avuto a sua volta un parallelo nella situazione dell'Algeria, mimetizzata a lungo dall'annessione alla Francia e risoltasi, dopo una lotta di liberazione, nel 1962. Un'altra variante, su scala minore ma legata anch'essa al contesto del nazionalismo e del colonialismo europei, è data dallo Stato d'Israele: il sionismo, nato per risolvere il problema ebraico, è stato sentito come movimento nazionale degli ebrei incalzati dall'antisemitismo e al tempo stesso come movimento di colonizzazione della Palestina, economicamente depressa a partire dall'epoca delle crociate. Infine, un tipo di società d'immigrazione del tutto nuovo, ma connesso in parte con la dialettica storica dell'imperialismo e delle sue conseguenze, è rappresentato oggi dai paesi industrializzati dell'Occidente (comprese l'Australia e la Nuova Zelanda).
L'America spagnola è una sorta di ibrido tra la società castale e la moderna società d'immigrazione di tipo coloniale; finora però essa ha prodotto soltanto, come reazione al predominio dei bianchi, un nazionalismo creolo finalizzato alla liberazione dal dominio spagnolo. La parola casta era il termine tecnico ufficialmente usato per distinguere i vari gruppi formatisi nella società coloniale sudamericana, alcuni dei quali erano il risultato della convivenza, legittima o illegittima, di individui appartenenti a 'razze' diverse. Al vertice vi erano i bianchi, differenziati a loro volta secondo la provenienza e la posizione sociale; poiché gli eredi dei funzionari coloniali spagnoli immigrati direttamente dalla madrepatria non erano considerati come appartenenti in senso proprio alla società coloniale, in essa la categoria più elevata era formata dai creoli, cioè dai bianchi 'purosangue' nati in America e discendenti per lo più dai conquistadores; seguivano i bianchi poveri e i meticci nati da tutti i possibili incroci tra bianchi, indii e neri. Sebbene le castas dell'America coloniale spagnola non coincidessero perfettamente con quelle indiane, esse costituivano tuttavia una espressione del principio castale del quale lo stesso sistema indiano non è che una variante.
La conseguenza storica più importante della discriminazione razziale nelle colonie europee d'Africa fu la nascita di un nazionalismo indigeno, che fu determinato dagli stessi fattori che avevano creato l'espansione europea oltremare, soprattutto nell'Africa Nera, e prima che altrove nell'Africa occidentale britannica. Gli iniziatori del nazionalismo anticoloniale appartenevano a due categorie di indigeni delle regioni costiere occidentali, precocemente cristianizzati: i mulatti e i neri battezzati dai missionari europei, dei quali spesso assumevano il cognome. I primi erano figli o nipoti di bianchi dotati di notevole prestigio nella società africana precoloniale o coloniale; nel Gambia e nella Costa d'Oro - le più antiche basi stabilite dagli inglesi fin da quando ebbe inizio, nel tardo Seicento, la tratta degli schiavi - essi entrarono a far parte nel XIX secolo dell'amministrazione britannica di quelle colonie, ancora di modeste dimensioni. Nella Sierra Leone e nella Nigeria, invece, furono soprattutto gli schiavi neri affrancati dagli inglesi e divenuti cristiani a formare, insieme ai loro discendenti, l'altro nucleo di cristallizzazione dell'élite modernizzatrice locale.Ma verso la fine dell'Ottocento, nella fase culminante del colonialismo imperialista, questi africani non furono più ammessi a far parte dell'amministrazione britannica. Respinti dalla società dei loro padri carnali o spirituali bianchi, essi si videro ricacciati in quella delle loro madri di colore e si identificarono sempre più con essa. I mulatti e i neri che avevano ricevuto il battesimo ebbero il primo avviamento alla modernizzazione di origine e di stampo europei quasi esclusivamente dalle missioni e dalle scuole tenute dalle Chiese indigene; dopo la prima guerra mondiale essi rivolsero gli strumenti di questa modernizzazione contro le potenze coloniali europee, divenute frattanto apertamente razziste. Anche questo movimento ebbe inizio, in forme per lo più politiche e non violente, nelle colonie inglesi, in quanto la Gran Bretagna, che era la più liberale fra le potenze coloniali, concedeva al giovane nazionalismo africano il più ampio margine per la pubblicazione di giornali e riviste e per una prima organizzazione in associazioni e Chiese. Nel primo dopoguerra l'élite modernizzatrice indigena dell'Africa occidentale britannica si limitò a chiedere la concessione di autonomie locali; ma dopo il secondo conflitto mondiale si arrivò ben presto alla rivendicazione della piena sovranità e dell'indipendenza nazionale.
Col dissolversi degli imperi coloniali i vari movimenti di liberazione nazionale abolirono al vertice delle rispettive società le discriminazioni razziali introdotte dalle potenze europee; al loro posto emersero però antagonismi e tensioni locali risalenti all'età precoloniale. In seguito queste tensioni si sono aggravate, dando origine a numerose discriminazioni interne e infine a conflitti sanguinosi e a eccidi compiuti dalle etnie dominanti a danno di minoranze o di popolazioni politicamente e militarmente più deboli, anche se numericamente prevalenti: un tipico esempio è dato, nel Burundi, dalle violenze dei vatussi (baTutsi) contro i bantu (baHutu).
Forme di discriminazione razziale sono sopravvissute anche dopo la seconda guerra mondiale in due paesi sorti dall'espansione europea oltremare, gli Stati Uniti d'America e il Sudafrica, entrambi ex colonie con immigrazione europea di massa. Nonostante le diverse dimensioni, da queste esperienze comuni sono derivate forme simili di discriminazione razziale, che hanno portato a gravi conflitti interni. Problemi analoghi presenta infine, in quanto paese d'immigrazione, lo Stato d'Israele.
Il modello di società divisa in caste su base razziale, proprio delle colonie ispano-americane, si estese alle colonie inglesi dell'America settentrionale con l'arrivo dei primi schiavi neri a Jamestown (Virginia), avvenuto nel 1619, l'anno prima che i pionieri del Mayflower sbarcassero nel Massachusetts; questo evento ebbe conseguenze storiche esplosive, i cui effetti continuano ancora ai giorni nostri. Finché quelli che in seguito divennero gli Stati Uniti mantennero la schiavitù come istituzione, nonostante l'ispirazione profondamente democratica del paese, si ebbe una società divisa in caste su base razziale. L'abolizione della schiavitù, attuata dapprima negli Stati del Nord con un processo graduale conclusosi nel 1827, e poi in quelli del Sud dopo la guerra civile (18611865), ebbe due conseguenze: in primo luogo alla schiavitù subentrò ben presto la discriminazione razziale, come notava già acutamente Tocqueville in occasione del suo viaggio in America del 1831-1832; in secondo luogo, con un processo più lento, sotto la spinta della progressiva industrializzazione la società divisa in caste su base razziale si trasformò in una società divisa in classi sulla stessa base.
La 'razza', riconoscibile dal colore della pelle e da altri caratteri, rimase egualmente importante per la posizione sociale degli individui e dei gruppi; ma le barriere razziali esistenti tra le 'caste' divennero più permeabili e consentirono una maggiore mobilità verticale. D'altra parte i dominatori bianchi cercarono in tutti i modi d'impedire ai neri formalmente emancipati ogni ascesa sociale, usando a tale scopo misure coercitive statali (leggi, ordinanze, ecc.), pressioni sociali ed economiche e il terrore collettivo, fino al caso limite del Ku Klux Klan. I neri dovevano essere tenuti al loro posto, relegati possibilmente per sempre all'estremo inferiore della piramide sociale; la società divisa in caste su base razziale divenne la continuazione dello schiavismo con altri mezzi.
Il rapporto tra l'abolizione della schiavitù e la discriminazione razziale e quello tra la discriminazione razziale e l'industrializzazione emergono in modo particolarmente chiaro negli Stati Uniti se si considerano nella loro successione cronologica alcuni fatti. Nel 1770, e cioè prima ancora dell'indipendenza, la schiavitù fu proibita per la prima volta nel Maine, all'estremità nordorientale dei futuri Stati Uniti; contemporaneamente in questa regione, dove allora non abitava nessun afroamericano, fu proibita l'immigrazione dei neri. Nel 1787, quando l'Assemblea Costituente si riunì a Filadelfia (che era a quel tempo la città più popolosa della giovane Confederazione e la sua capitale provvisoria), gli Stati del Sud, minacciando una secessione, fecero valere il loro diritto sovrano al mantenimento della schiavitù nei loro territori. Contemporaneamente nella stessa città ebbe inizio la discriminazione razziale nei confronti dei membri di colore nell'ambiente ecclesiastico, persino nella Chiesa metodista, tendenzialmente democratica. Per protesta si costituì allora il nucleo iniziale di quella che sarebbe diventata la prima Chiesa afroamericana, l'African Methodist Episcopal Church. Nel medesimo anno 1827 in cui, dopo un laborioso processo, la schiavitù fu abolita anche nell'ultimo Stato del Nord, quello di New York, a Filadelfia i neri cominciarono a essere apertamente discriminati nell'uso del primo mezzo di trasporto pubblico di massa, nato dall'industrializzazione: l'omnibus a cavalli. Come ebbero a notare con amarezza gli afroamericani nelle loro rimostranze, ciò accadeva nella stessa città che prendeva il nome dall'amore fraterno e che per le sue origini quacchere aveva tanto contribuito all'educazione e all'emancipazione dei neri.
Il rapporto dialettico tra emancipazione e discriminazione razziale continuò a sussistere anche dopo la guerra civile, che ebbe come causa (almeno esteriormente) la questione della schiavitù e come risultato più importante la sua abolizione nel Sud sconfitto. Finita la guerra, alcuni ex ufficiali dell'esercito secessionista rimasti disoccupati fondarono nel Tennessee, uno degli Stati più settentrionali fra quelli già schiavisti, il Ku Klux Klan, col proposito di intimidire gli ex schiavi formalmente emancipati e di impedire loro di esercitare effettivamente, in una democrazia dominata dai bianchi, i diritti politici recentemente acquisiti. Dopo il confuso intermezzo della cosiddetta 'era della ricostruzione' (1865-1877), la maggior parte dei liberali abolizionisti del Nord tollerarono che negli Stati già schiavisti si affermasse, da nord verso sud, il movimento per l'esclusione degli afroamericani dai diritti civili. Dal 1890 in poi le costituzioni dei singoli Stati del Sud, a cominciare da quelli più meridionali, sancirono tale esclusione; nel 1910 si era consolidato dappertutto il regime di completa discriminazione razziale del New South, destinato a sopravvivere quasi integralmente per mezzo secolo. Lo stesso avvenne per la soppressione dell'autonomia amministrativa a Washington, la capitale federale, decisa nel 1883 dopo che il numero degli abitanti afroamericani ebbe superato quello dei bianchi.
Contro la divisione della società americana in una società per i bianchi e in una società per i neri, si sviluppò l'idea dell'integrazione razziale in due diverse forme. Secondo Booker T. Washington (1856-1915), nato da schiavi del Sud, la discriminazione andava accettata come fenomeno temporaneo per essere poi superata a lungo termine mediante un processo autonomo di industrializzazione condotto dalla popolazione di colore: la partecipazione degli afroamericani alla civiltà industriale, attuata gradualmente dal basso, avrebbe finito con lo sconfiggere la discriminazione razziale seguita all'abolizione della schiavitù. I neri sarebbero diventati da soli una componente attiva dell'economia e si sarebbero organizzati anche politicamente nella società democratica americana. Da parte sua William Edward B. Du Bois (1868-1964), originario del Nord e di pelle quasi chiara, puntava sulla educazione intellettuale di una futura élite di colore; agendo per così dire dall'alto, in collegamento con filantropi bianchi (per lo più ebrei) che avrebbero appoggiato tali idee per realizzare la democrazia negli Stati Uniti, egli intendeva conseguire pacificamente, in tempi piuttosto brevi, l'emancipazione politica e sociale degli afroamericani.L'idea dell'integrazione razziale trovò un avversario in Marcus A. Garvey (1870-1940), un nero giamaicano 'purosangue' che a cominciare dal 1916 denunziò la società americana come divisa in caste e in classi su base razziale e additò ai neri i fautori dell'integrazione come traditori. Garvey si appellava direttamente agli afroamericani di pelle nera e al loro 'orgoglio di razza' di eredi 'purosangue' dei field slaves. A queste premesse politiche egli associò il principio di Booker T. Washington, del 'lavoro organico', che prendeva nome dalla praca organyczna nata in Polonia nel 1838. Ciò portava a fare degli afroamericani una casta a sé, una sottosocietà volontariamente segregata, dotata di specifiche strutture non soltanto politiche e sociali, ma anche economiche (fabbriche) e religiose, come la nuova African Orthodox Church fondata dallo stesso Garvey. Questi accettò segretamente il sostegno finanziario e politico dell'estremismo razzista bianco sul genere del Ku Klux Klan, e cercò inoltre di dar vita a un movimento di massa afroamericano ispirato alla vecchia idea del ritorno in patria ("back to Africa").
Nonostante il suo fallimento politico e organizzativo, manifestatosi fin dal 1923, Garvey lasciò un'orma profonda nella coscienza politica dei neri americani e del giovane nazionalismo africano, se non altro nei paesi di lingua inglese: quando il Ghana acquistò l'indipendenza, inserì nella sua bandiera gli stessi colori (rosso, verde e nero) adottati dal movimento di Garvey. Ma in ultima analisi, come già rilevava il suo stesso fondatore, questo movimento si risolveva in un razzismo nero che si contrapponeva a quello predominante dei bianchi, rovesciandone semplicemente i valori ("nero è bello, bianco è brutto"): e ciò perfino nella nuova religione, che del resto riprendeva e radicalizzava tendenze già esistenti tra gli afroamericani.
Parallelamente agli Stati Uniti, sebbene su scala minore, il Sudafrica ha elaborato la forma per così dire classica di discriminazione razziale; il termine stesso apartheid è nato in Sudafrica come definizione intesa in senso positivo di una situazione locale specifica. La rigida separazione tra le 'razze', specialmente nel processo di industrializzazione del paese, ha avuto lo scopo di assicurare alla minoranza bianca una posizione dominante e di canalizzare a suo vantaggio le conseguenze sociali della partecipazione dei neri al suddetto processo e le conseguenze politiche della loro prevalenza numerica. Come formula per designare questa politica di segregazione razziale il termine apartheid divenne noto all'opinione pubblica mondiale solo nel 1948, in seguito alla vittoria elettorale del Partito nazionalista capeggiato da Daniel-François Malan; ma, come spesso avviene, tale formula non faceva che sintetizzare in modo efficace e immediato una situazione creatasi da tempo.
Converrà prendere le mosse dal particolare carattere che la Colonia del Capo ebbe fin dall'inizio, come società d'immigrazione gerarchizzata sorta in condizioni simili a quelle americane: i coloni bianchi prendevano possesso di territori che consideravano praticamente disabitati, in quanto utilizzati solo da cacciatori e raccoglitori san (boscimani) e, più a nord, da allevatori nomadi khoi-khoin (ottentotti). Solo più tardi i boeri (boere, cioè contadini) di origine olandese vennero a contatto coi bantu che si andavano spostando verso sud; coltivatori nomadi e allevatori di bestiame, i bantu avevano un livello di sviluppo più elevato di quello dei san e dei khoin e quasi paragonabile a quello degli stessi boeri, che peraltro erano avvantaggiati dalle loro relazioni con la civiltà europea. Da queste componenti nacque una tipica società d'immigrazione, resa ancora più complessa dall'importazione di schiavi malesi e neri.Prese forma così una società divisa in caste su base razziale, simile - in piccolo - a quella statunitense per condizioni di partenza, metodi (schiavitù, restrizioni della libertà di movimento dei neri) e risultati. Tuttavia nel Sudafrica la discriminazione razziale era fondata in modo ancora più netto su una rigida religiosità calvinistica, che applicava a tutti gli africani, quale che fosse la gradazione di colore della pelle e la posizione socioeconomica, la maledizione di Noè contenuta nella Genesi. L'abolizione della schiavitù imposta nel 1834-1835 dal governo britannico spinse la parte più conservatrice della popolazione boera della Colonia del Capo alla secessione (grote trek, grande migrazione) e alla costituzione di due repubbliche indipendenti, il Transvaal e l'Orange (1852-1854), in cui proseguire indisturbati il proprio modo di vita, fondato appunto sullo schiavismo.L'industrializzazione seguita alla scoperta dei giacimenti di diamanti (1867) e di oro (1886) portò alla guerra anglo-boera (1899-1902), terminata con l'affermazione della sovranità inglese in tutto il Sudafrica; tuttavia ai boeri sconfitti militarmente fu concessa una larghissima autonomia, con poteri discrezionali nei riguardi dei neri. I boeri divennero così l'elemento politicamente dominante non solo nel Transvaal e nell'Orange, ma nella stessa Provincia del Capo, fortemente anglicizzata, e nella colonia inglese del Natal. Dopo la fondazione dell'Unione Sudafricana (1910) i boeri si valsero della libertà d'azione acquisita per togliere ai neri la proprietà della terra e confinarli in speciali riserve tribali (Natives land act, 1913); per opporsi a questa politica fu fondato nello stesso anno il primo nucleo dell'attuale Congresso Nazionale Africano (ANC). I neri erano invece tollerati nelle zone industriali urbane, dove fornivano manodopera a basso costo: erano cioè trattati come immigrati nel proprio paese.
Già in precedenza il Mines and work act (1911) aveva stabilito che i posti di lavoro meglio remunerati nelle industrie (in un primo tempo solo in quella estrattiva) fossero riservati ai 'bianchi poveri' (job reservation) e che ne fossero quindi esclusi i neri, gli indiani e i meticci. Dopo la prima guerra mondiale i lavoratori bianchi imposero l'estensione della job reservation a tutte le industrie sudafricane: quest'azione fu guidata politicamente dal Partito laburista e dai comunisti, con un sanguinoso sciopero generale nella regione del Witwatersrand (1923), seguito da un governo di coalizione tra nazionalisti e laburisti presieduto dal generale James Herzog (1924-1931).
Anche nel Sudafrica, come già quasi un secolo prima a Filadelfia, l'aperta discriminazione nei riguardi dei neri ebbe inizio nell'ambito ecclesiastico: ciò avvenne nel 1886 a Johannesburg, da poco fondata, e anche in questo caso i neri istituirono per protesta delle Chiese autonome. In contrapposizione al brano biblico in cui Noè malediceva i neri, le cosiddette Ethiopian Churches adottarono allora un versetto dei Salmi (68,31): "Principi verranno dall'Egitto e presto gli etiopi tenderanno le mani verso il Signore". Queste Chiese, ulteriormente radicalizzate nelle 'Chiese di Sion', hanno dato - come quelle afroamericane negli Stati Uniti - un notevole contributo alla formazione di una coscienza politica nera.Sotto la pressione di situazioni interne (industrializzazione) ed esterne (opinione pubblica mondiale, specialmente dopo il 1945), i governanti boeri procedettero a una graduale liberalizzazione; ma nel 1948 salì al potere, sotto la guida di Malan, un'ala dell'opposizione che si era andata spostando nettamente verso destra. Una serie di energici primi ministri, da Malan a P.W. Botha, cercò di estendere e imporre sistematicamente l'apartheid, senza peraltro riuscire a sottrarsi alla dialettica della propria azione: da un lato, a cominciare dal 1948 l'apartheid fu ampliata e potenziata mediante un complesso di leggi che fu accompagnato dopo il 1951 da periodiche repressioni, culminate nel massacro di Sharpville (1960), e dalla proclamazione dello stato di emergenza permanente, prima parziale e poi totale. D'altra parte, con lo sviluppo dell'industrializzazione, le conseguenze dell'apartheid creavano i presupposti della sua distruzione. In particolare i bantustans (teoricamente indipendenti, ma in realtà Stati vassalli neri istituiti nelle principali riserve) potrebbero assumere un ruolo dinamico e una forza dirompente nella crisi terminale dell'apartheid.
Il Sudafrica è un paese d'immigrazione di media grandezza, in cui i bianchi si erano volontariamente trasferiti dall'Europa, mentre i neri si trovavano in una singolare condizione d'incertezza fra il tradizionale, quasi bimillenario movimento migratorio dei bantu verso sud, il moderno schiavismo e gli spostamenti della manodopera industriale. Al vertice della società stavano i bianchi (boeri, inglesi, tedeschi, ebrei), divisi al solito in 'ricchi' e 'poveri', seguiti da indiani, malesi di Città del Capo (Cape Malays), discendenti da schiavi, meticci (coloured) e neri. A un livello ancora più basso i lavoratori neri immigrati, originari degli Stati limitrofi a nord, e i superstiti ottentotti e boscimani, che a rigore non erano parte integrante della società dell'apartheid.
Come i bianchi negli Stati Uniti, così nel Sudafrica i boeri si sono sforzati soprattutto di mantenere in vita, almeno per quanto riguardava la popolazione di colore, la società divisa in caste su base razziale, risalente all'epoca schiavista. Un'impressionante continuità con quell'epoca era testimoniata dalle leggi sudafricane sulle limitazioni del movimento dei neri: lo schiavo che si allontanava dalla dimora del padrone (o dalla piantagione, negli Stati Uniti) doveva portare sempre con sé un lasciapassare che documentasse la sua situazione di schiavo e l'autorizzazione a uscire temporaneamente dal territorio in cui il proprietario esercitava direttamente la sua potestà. Ma anche nel Sudafrica la dinamica stessa dell'industrializzazione e, dopo il 1945, la pressione dell'opinione pubblica (che in America agì soprattutto nel periodo culminante della guerra fredda) hanno reso sempre più precario il mantenimento con la forza, in una società sempre più industrializzata che si spaccia per democratica, di una struttura castale basata sulla discriminazione razziale, retaggio di un'economia agraria di tipo schiavistico.
L'attenuazione dell'apartheid, avviata negli ultimi anni di governo di Botha, può essere interpretata come un estremo tentativo di trasformare la società sudafricana divisa in caste su basi razziali in una società divisa in classi sempre su basi razziali, in modo da salvaguardare anche nella mutata situazione il predominio dei bianchi. La parziale integrazione degli indiani, dei malesi del Capo e dei coloured, iniziata nel 1983, ha fatto sì che i neri sentissero come ancora più ingiusta la loro esclusione da ogni partecipazione paritaria al potere, determinando in primo luogo un inasprimento dell'opposizione politica e della lotta armata contro l'apartheid. D'altra parte la profonda crisi dell'Unione Sovietica e il suo conseguente ritiro dall'impegno nei paesi d'oltremare hanno tolto al radicalismo nero il sostegno esterno di cui si era avvalso; anche il Congresso Nazionale Africano, che aveva ricevuto una forte impronta dal Partito comunista del Sudafrica (attivo clandestinamente dopo il 1928), ha acquistato un suo carattere autonomo, sottraendosi all'egemonia dei comunisti.Vi è da chiedersi se il passaggio da una società strutturata in caste su basi razziali a una società strutturata in classi su basi razziali, attuato (finora) con relativo successo negli Stati Uniti, possa riprodursi nel Sudafrica, date le importanti differenze esistenti tra i due paesi per quanto riguarda la posizione geografica, i rapporti di maggioranza e il peso della tradizione democratica. I bianchi sudafricani, espandendosi verso nord a partire dall'estremità meridionale di un continente abitato in massima parte da neri, formano solo un'esigua minoranza, che non è in grado di opporsi a lungo a una popolazione nera in rapida crescita (28 milioni nel 1990). Nel loro progressivo isolamento i boeri, per difendere il loro predominio (baaskap), hanno elaborato in passato una variante autoritaria, o addirittura totalitaria, di quel calvinismo che invece negli Stati Uniti, dove non vi era una situazione di effettivo pericolo, ha contribuito a gettare le basi della moderna democrazia. In dieci anni di vita indipendente lo Zimbabwe (l'ex Rhodesia, nata dall'espansione verso nord del Sudafrica) ha dimostrato che è senz'altro possibile una convivenza pacifica di bianchi e neri.
All'esempio dello Zimbabwe è parso ispirarsi per aspetti essenziali la politica dell'ala riformatrice dell'African National Party, guidata dal presidente sudafricano de Klerk, il quale nel 1989-1990 ha aperto la via della trattativa con il leader del Congresso Nazionale Africano, N. Mandela, liberato nel 1990 dalla prigione dopo una detenzione di 27 anni. Dopo di allora è stato avviato il processo di superamento del regime dell'apartheid: un processo contraddittorio, segnato dai più aspri contrasti, ma ormai irreversibile.A una soluzione di compromesso si oppone la crescente polarizzazione tra la nuova destra radicale boera, che si oppone alla parità politica con i neri, e le masse dei giovani militanti neri residenti nelle townships, le città dormitorio in cui sono ghettizzati i lavoratori industriali di colore. Soprattutto queste masse potrebbero mandare a monte, nella loro impazienza rivoluzionaria, la soluzione di compromesso tra i boeri detentori del potere e la vecchia dirigenza del Congresso Nazionale Africano capeggiata da Mandela. Nel caso che gli estremisti prendessero il sopravvento, sarebbero da attendersi convulsioni sanguinose, con esiti imprevedibili. I conflitti interni suscitati dall'abolizione dell'apartheid sono ulteriormente complicati dalle continue lotte intestine in corso tra i neri militanti nei movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale e sociale e i neri socialmente in ascesa, disposti a inserirsi, mediante una crescente partecipazione al processo di industrializzazione, nella società strutturata in classi cui cerca di dar vita il governo che ha sostenuto in passato la politica dell'apartheid. Negli ultimi anni parecchi di questi neri favorevoli all'integrazione, ritenuti 'collaborazionisti', sono caduti vittime di attentati nelle townships.
Dopo aver considerato i due paesi d'immigrazione in cui allo schiavismo ha fatto seguito la discriminazione razziale - Stati Uniti e Sudafrica - è più agevole analizzare due tipi recenti di società d'immigrazione che di solito non vengono considerati tali, ma in realtà lo sono: Israele e i paesi industrializzati dell'Occidente. In essi, come in tutte le società di questo genere, la discriminazione ha assunto forme specifiche: che in Israele hanno un carattere sociale, nazionale e religioso piuttosto che razziale, se non altro perché ebrei e arabi sono entrambi di 'razza' semitica.Il tentativo di condurre un'analisi priva di pregiudizi della situazione israeliana sotto questo aspetto si scontra subito con la barriera emotiva dell'antisemitismo: quello storico, che ha avuto il suo culmine ad Auschwitz, e quello che sopravvive in forma acuta o latente. Ci limiteremo quindi a ricordare che anche Israele, come ogni paese d'immigrazione, è caratterizzato da una struttura sociale piramidale, ai cui estremi vi sono da un lato l'élite dei pionieri sionisti ashkenaziti immigrati dalla Polonia, dalla Russia e dopo il 1933 dalla Germania, dall'Austria e dalla Cecoslovacchia, dall'altro gli arabi d'Israele e dei territori ex palestinesi occupati o annessi. Sono innegabili le analogie e le affinità strutturali, nonché le forme di cooperazione, con il Sudafrica, anch'esso isolato e in una situazione di minoranza nella propria area geografica, anch'esso caratterizzato dalla credenza nel 'popolo eletto' e dalla rivendicazione della terra e del potere fondata sulla Bibbia. Nella sua lotta per la sopravvivenza Israele è venuto a trovarsi nella condizione di un grande ghetto armato, in cui le città e gli insediamenti rurali si trasformano nottetempo in altrettanti ghetti minori, con zone di sicurezza illuminate a giorno e sorvegliate da militari.
In questa sede si accennerà appena ai problemi interni ed esterni di un paese diviso tra tendenze laiche e democratiche e una forte vocazione alla teocrazia fondamentalista, il cui 'nocciolo duro' è il 'ghetto messianico' degli ultraortodossi, che attendono solo il Messia rifiutando come blasfema l'idea stessa di uno Stato d'Israele: tuttavia, fondandosi su motivazioni religiose, essi spingono i loro compagni di fede meno ortodossi all'impegno antiarabo. Ne derivano varie forme di discriminazione, per così dire istituzionalizzate dopo l'inizio del movimento dell'intifada (dicembre 1987). D'altro canto le critiche più aspre contro ogni atto di discriminazione e di repressione provengono dall'ala laica e democratica della società israeliana. Ciò rappresenta una differenza significativa rispetto al Sudafrica, dove la componente democratica tra i bianchi è stata sempre assai più debole e l'ala fondamentalista meno intransigente. Finché gli israeliani non avranno scelto tra l'ala laica democratica e quella teocratica fondamentalista, che oggi all'incirca si bilanciano, non è dato prevedere se, come e quando potranno essere superate le discriminazioni di fatto esistenti nei confronti degli arabi.In complesso, nel conflitto in corso nel Vicino Oriente si delinea una progressiva polarizzazione tra due fondamentalismi, quello degli ebrei ortodossi e quello dei musulmani sciiti, fortificato dalla rivoluzione islamica in Iran e dal rafforzamento degli sciiti, che nel 1983 provocò l'intervento israeliano nella guerra civile libanese.Gli scenari che sarebbe possibile tracciare in relazione ai diversi esiti delle lotte interne per il potere sono per il momento di scarso aiuto, in quanto riguardano un futuro troppo incerto: si tratterebbe cioè di previsioni scientificamente poco fondate, destinate a slittare su un piano puramente speculativo.
Complicazioni di altro genere presentano i paesi industrializzati dell'Occidente, ognuno dei quali ha caratteristiche proprie, legate a ragioni storiche. Dopo la seconda guerra mondiale tutti i paesi industriali del Vecchio Mondo occidentale sono divenuti di fatto, in varia misura e sotto vari aspetti, paesi d'immigrazione. I paesi industriali del Nuovo Mondo (compresa l'Australia) lo erano da sempre, quasi per definizione; ma con l'intensificarsi dell'industrializzazione nel secondo dopoguerra, soprattutto dopo il 1960, anche nell'Europa occidentale è aumentato l'afflusso di immigrati stranieri. Essi furono in parte ben accolti, in periodi di alta congiuntura, come manodopera a basso costo per i lavori più disagevoli e mal retribuiti, riservati allo strato più basso della piramide sociale, come nel caso dei lavoratori immigrati spagnoli, greci e turchi nella Germania Occidentale. In altri casi l'immigrazione era una conseguenza indesiderata dello smantellamento degli imperi coloniali, dovuta al fatto che gli abitanti di quei territori si valsero della possibilità di entrare liberamente nella madrepatria. In tal modo circa mezzo milione di persone provenienti dalle Indie Occidentali britanniche e altrettanti pakistani immigrarono in Gran Bretagna, dove formarono in molte città industriali e portuali un sottoproletariato permanente, in condizioni simili a quelle dei ghetti afroamericani nelle metropoli degli Stati Uniti. Analogamente la Francia ha visto arrivare dai paesi che formavano il suo impero coloniale - Algeria, Marocco, Tunisia, Africa Nera - numerosi immigrati, oggi in gran parte indesiderati. Dopo l'indipendenza dell'Indonesia, alcune centinaia di migliaia di amboinesi si sono trasferiti nei Paesi Bassi per sfuggire alle vendette degli indonesiani, in quanto le truppe coloniali indigene impiegate dagli olandesi erano in massima parte originarie dell'Amboina. Anche dal Suriname, travagliato dopo l'indipendenza da sanguinose lotte intestine, è emigrata nei Paesi Bassi una parte notevole della popolazione indigena, costituita in prevalenza da neri discendenti da schiavi evasi (maroons). In Italia si è verificata una massiccia immigrazione illegale di africani, provenienti all'inizio per lo più dalle regioni settentrionali e poi anche dall'Africa Nera; mentre nel Nordafrica i neri immigrati dal sud del continente occupano i ranghi più bassi nella gerarchia del mercato del lavoro.
Dopo la crisi economica del 1973 si è avuto nei paesi industrializzati e relativamente ricchi del Nord un notevole afflusso di immigrati meridionali. Molti di essi erano profughi dai paesi del Terzo Mondo dilaniati da conflitti interni: membri di minoranze etniche o religiose della Turchia, tamil dello Sri Lanka, iraniani, libanesi e infine cinesi del Vietnam, variamente discriminati dopo la vittoria della rivoluzione comunista o semplicemente desiderosi di sfuggire alla povertà delle società comuniste. Questi ultimi divennero famosi come boat people: moltissimi di loro perirono in mare, altri trovarono in qualche modo asilo in Occidente o in Australia, altri ancora si stabilirono a Hong Kong. Questo minuscolo territorio, già sovraffollato di profughi provenienti dalla Cina, è costretto ora a difendersi da un ulteriore afflusso di cinesi vietnamiti.
Processi analoghi si svolgono nel paese africano più altamente industrializzato, il Sudafrica, e in Israele, dove la colonizzazione e la modernizzazione promosse dal sionismo hanno attirato da ogni parte arabi desiderosi di approfittare delle possibilità di lavoro che lì si offrivano. Negli Stati Uniti, in aggiunta all'immigrazione legale proveniente in pratica da tutto il mondo, il massiccio sconfinamento illegale di messicani crea un'analoga pressione sugli Stati del Sud: nel 1990 messicani e asiatici (soprattutto cinesi e vietnamiti) formavano già la metà della popolazione degli Stati americani che si affacciano sul Pacifico. Il risultato è stata l'esplosione di violenza avvenuta a Los Angeles nel 1992, quando i neri dei ghetti si rivoltarono contro i coreani e - per la prima volta - contro i bianchi residenti nei quartieri alti.In tutte le società industrializzate l'immigrazione di grandi masse di stranieri diversi per aspetto fisico, cultura, religione e livello di sviluppo socioeconomico ha provocato e continua a provocare le reazioni che hanno sempre accompagnato nella storia situazioni analoghe: risentimenti che arrivano fino a un'aperta xenofobia di stampo razzista, tensioni e conflitti per i posti di lavoro, gli alloggi e il tempo libero. Ma condizioni simili caratterizzano anche le società dei paesi di provenienza degli immigrati, che spesso sono spinti a fuggire da discriminazioni dello stesso tipo o da guerre civili (Sri Lanka, Libano), oppure sono vittime di vere e proprie espulsioni, come i cinesi dall'Indonesia nel 1975 o gli indiani dall'Uganda sotto la dittatura di Idi Amin Dada. Si può dire quindi che questi immigrati abbiano radicalmente peggiorato la loro condizione.
I paesi del blocco comunista sembravano esenti da conflitti di questo genere; ma dopo la svolta del 1989 si è visto chiaramente che specialmente nella Repubblica Democratica Tedesca, dove erano stati reclutati molti lavoratori stranieri provenienti dalla Polonia e soprattutto dal Terzo Mondo (Corea del Nord, Vietnam, Africa Nera), si erano avuti fenomeni di discriminazione e di ghettizzazione a danno degli stranieri, solo ufficialmente ben accolti. D'altra parte i confini della RDT erano praticamente chiusi, per impedire l'emigrazione o la fuga in massa della popolazione locale. I conflitti interni tra le varie nazionalità in Bulgaria, nel sud dell'Unione Sovietica, in Romania e in Iugoslavia hanno dimostrato che anche in questi paesi, dietro la facciata dell'internazionalismo proletario, si celava un notevole ed esplosivo potenziale di discriminazione. L'espulsione o l'emigrazione forzata della minoranza turca dalla Bulgaria, per distogliere l'attenzione dalle difficoltà interne del sistema post-staliniano, non è stata che la forma sinora più estrema di discriminazione, che si può ben definire di tipo razziale. Nell'Azerbaigian il conflitto tra armeni e azeri di origine turca ha anche una dimensione sociale, in quanto i primi in genere godono di una posizione socioeconomica migliore e considerano con disprezzo i secondi; altri conflitti sono insorti nell'Uzbekistan tra due gruppi turco-mongoli, gli uzbeki e i kirghisi. Le minoranze che a suo tempo Stalin trasferì arbitrariamente da una regione all'altra dell'Unione Sovietica sono oggi altrettante cariche di esplosivo sul piano sia etnico che sociale nei rispettivi territori di deportazione.
Anche tra romeni e ungheresi esistono tensioni sociali, economiche e culturali, che specialmente dopo la caduta di Ceauçsescu hanno dato origine a violenze sempre più gravi dei romeni contro gli ungheresi, un tempo egemoni in Transilvania. Il conflitto tra serbi e albanesi ha, accanto a una dimensione storica (nel Medioevo il Kosovo fu il primo nucleo della Serbia), una dimensione sociale, dovuta al grado di sviluppo più elevato raggiunto dai serbi; questi a loro volta sono ostili ai croati e soprattutto agli sloveni, maggiormente industrializzati. Queste tensioni hanno portato alla disintegrazione della Iugoslavia e poi a una guerra atroce fra serbi e croati.
Non è dunque il caso di lasciarsi andare a considerazioni moralistiche in questa o in quella direzione: le varie forme di discriminazione razziale sono purtroppo un fenomeno universalmente diffuso. Resta solo la speranza che un'analisi razionale possa farci comprendere meglio i conflitti originati da questo tipo di discriminazione, contribuendo forse ad attenuarli. (V. anche Casta; Etnici, gruppi; Razzismo).
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