Discrezionalità
La discrezionalità è un fenomeno che nasce dalla tensione tra due esigenze imprescindibili della pubblica amministrazione. Da un lato infatti è indispensabile che i pubblici funzionari siano dotati, nell'esercizio delle proprie funzioni, di una libertà di apprezzamento tale da permettergli di affrontare e risolvere tutta quella serie di fattispecie particolari che non rientrano nell'ambito di applicazione di norme preesistenti, aventi carattere generale e astratto. L'amministrazione viene quindi investita di potere discrezionale per realizzare in modo efficace pubbliche finalità. Tale esigenza può essere considerata un'esigenza di efficienza o di giustizia, oppure di ambedue le cose. La politica estera di uno Stato, per esempio, potrebbe rivelarsi fallimentare se tutte le sue azioni fossero regolate da norme prestabilite e potessero di conseguenza essere previste con anticipo dagli altri Stati. Oltre che soddisfare l'esigenza di efficienza, la discrezionalità riesce a soddisfare anche quella di giustizia, nel senso platonico del termine, in quanto interviene in quelle situazioni in cui l'applicazione di una norma generale al caso concreto produrrebbe risultati meno che perfetti.
La seconda esigenza è quella del rispetto del principio di legalità. Specialmente quando sono coinvolti gli interessi dei privati, le decisioni delle autorità dovrebbero essere regolate da norme preesistenti oppure, quanto meno, dovrebbero essere giustificabili in base a tali norme. La discrezionalità, almeno dal punto di vista giuridico, deve essere sempre intesa come discrezionalità limitata, ossia come una certa libertà di apprezzamento o di scelta entro i limiti stabiliti dall'ordinamento giuridico.
Oltre a essere limitata, la discrezionalità deve possedere un altro requisito, più sottile, suggerito da una delle accezioni correnti del termine. Una persona dotata di 'discrezione' è una persona equilibrata, saggia, che pondera attentamente le sue decisioni alla luce di avvenimenti passati, circostanze attuali e sviluppi futuri. Un pubblico funzionario investito di potere discrezionale viene giudicato non soltanto in base alla legittimità delle azioni da lui poste in essere, ma altresì in base alla saggezza o buon senso da lui utilizzati per compiere quelle azioni. Il diritto amministrativo italiano riconosce esplicitamente che il giudice deve considerare questi aspetti degli atti di discrezionalità amministrativa nel determinare la loro legittimità. In teoria si può parlare di discrezionalità anche per il potere legislativo, oltre che per quello esecutivo e giurisdizionale. Si potrebbe dire infatti che nei sistemi parlamentari il legislatore ha il potere discrezionale di produrre qualunque legge ritenga opportuna, oppure, nei sistemi costituzionali, di produrre qualunque legge reputi opportuna entro i limiti posti dalla costituzione.In linea generale, tuttavia, la discrezionalità viene considerata principalmente nei suoi aspetti amministrativi e giurisdizionali, sebbene una delle forme principali di discrezionalità amministrativa e giurisdizionale sia costituita dalla potestà normativa.
Poiché la discrezionalità è un potere di scelta limitato attribuito alle autorità amministrative e ai giudici affinché prendano decisioni equilibrate e razionali per la realizzazione del pubblico interesse, i sistemi giuridici dedicano maggiore attenzione alla descrizione dei meccanismi di controllo e valutazione di tale potestà che non alla descrizione della sua prassi effettiva.Esiste un'ampia gamma di questi meccanismi, che corrisponde a una gamma altrettanto ampia di tipi di discrezionalità. A un estremo l'ampio potere discrezionale attribuito alle alte cariche dell'esecutivo nel condurre la politica estera di una nazione può essere limitato solo dalla necessità di conservare la maggioranza parlamentare o di vincere le elezioni. Alcuni sistemi prevedono altri meccanismi intermedi di controllo politico, come ad esempio il periodo di tempo - dalle 14.45 alle 15.30 di ogni giorno - dedicato alle interrogazioni parlamentari nel sistema britannico, o il potere attribuito alle commissioni parlamentari di supervisionare l'attività dell'esecutivo.
All'altro estremo, la discrezionalità esercitata da un pubblico funzionario di livello inferiore in merito, per esempio, all'accettazione di una richiesta di sussidi statali può essere disciplinata da numerose disposizioni legislative e regolamentari ed essere inoltre sottoposta a una serie di controlli da parte di funzionari e di giudici amministrativi gerarchicamente sovraordinati. Un tipo di controllo è dato dalla registrazione, dalla pubblicazione e dalla motivazione degli atti, che rendono possibile il susseguente controllo pubblico delle decisioni discrezionali. Un altro tipo di controllo è costituito da quei procedimenti di natura consultiva i quali assicurano che le parti interessate vengano ascoltate prima dell'adozione di qualsiasi provvedimento. Udienze formali o informali, orali o scritte, inquisitorie o contraddittorie possono essere previste prima della decisione o in sede di appello; di conseguenza gran parte della normativa concernente la discrezionalità è di natura procedurale, in quanto specifica ciò che l'autorità amministrativa investita di potere discrezionale deve compiere prima, durante e dopo aver adottato i vari provvedimenti.
Spesso queste prescrizioni procedurali si intrecciano a prescrizioni di ordine sostanziale. Così, tanto il controllo amministrativo quanto quello giurisdizionale sugli atti amministrativi possono essere diretti ad accertare non solo se il responsabile della decisione abbia seguito la procedura corretta, ma anche gli eventuali vizi di legittimità e/o di merito della decisione. In quasi tutti i sistemi giuridici il controllo sugli atti amministrativi riguarda questioni di diritto, ossia è rivolto ad accertare se il provvedimento rientri nei limiti di scelta stabiliti dalla norma che attribuisce il potere discrezionale, e se sia per il resto conforme alle norme dell'ordinamento. Pressoché in tutti i sistemi giuridici, inoltre, è prevista anche una qualche forma di controllo di merito, sebbene con modalità estremamente diversificate.
Nella maggior parte dei paesi di common law gli atti amministrativi sono soggetti a sindacato giurisdizionale per abuso di potere discrezionale, che si rinviene ogniqualvolta: 1) l'autorità ha tenuto conto di qualcosa di cui non avrebbe dovuto tener conto; 2) non ha tenuto conto di qualcosa di cui avrebbe dovuto tener conto; 3) non ha dato il giusto peso a qualcosa di cui avrebbe dovuto tener conto; 4) ha preso la decisione senza una sufficiente considerazione dei fatti. Questi criteri indicano sia che il giudice non può sostituire il proprio giudizio a quello dell'autorità amministrativa cui è attribuito il potere discrezionale, sia che quest'ultima è soggetta a un controllo relativo all'equità e alla ragionevolezza di cui si è servita ai fini dell'emanazione del provvedimento. Il concetto di détournement de pouvoir o 'sviamento di potere' dei sistemi di civil law è sostanzialmente analogo. Come indica la terminologia stessa, la discrezionalità è intesa come potere, il quale però è soggetto a un controllo giurisdizionale volto ad accertare che esso sia esercitato in modo sostanzialmente imparziale e per realizzare le pubbliche finalità in vista del quale è stato attribuito.In molti ordinamenti si registra una tendenza endemica a restringere i limiti della discrezionalità vincolandola a norme di legge. La Corte Suprema degli Stati Uniti stabilisce che, anche quando una legge assegni specificamente una materia alla discrezionalità dell'autorità amministrativa, i tribunali possono rivedere le decisioni di quest'ultima a meno che "non esista alcuna norma da applicare"; e in uno Stato moderno le materie di pubblico interesse sono quasi sempre disciplinate da normative. In Gran Bretagna, dove per tradizione il Parlamento attribuisce un'ampia potestà discrezionale agli organi amministrativi e giudiziari cercando di sottrarli interamente al sindacato giurisdizionale, le corti hanno nondimeno stabilito l'annullabilità delle decisioni affette da "errore di diritto che risulti dagli atti" (error of law on the face of the record). I tribunali amministrativi continentali hanno sostenuto analogamente che anche le decisioni interamente affidate alla discrezionalità delle autorità amministrative sono nulle se contrastano con le norme poste dall'ordinamento.
Esistono inoltre altri due meccanismi per limitare la potestà discrezionale, i quali di solito non sono trattati in modo esplicito dalla dottrina giuridica. In primo luogo, la maggior parte di quanti sono investiti di potere discrezionale detengono la propria carica in virtù di determinate qualifiche professionali. Consciamente o inconsciamente le loro scelte discrezionali sono condizionate dai canoni della professione che essi hanno per così dire assorbito. Gli ingegneri della pubblica amministrazione, ad esempio, possono scegliere tra vari progetti relativi all'edificazione di un ponte, ma non opteranno per un progetto che la loro competenza professionale indica come pericoloso. In secondo luogo, quando si ha a che fare con un gran numero di decisioni discrezionali di ordine più modesto e di scarsa 'visibilità', come ad esempio quelle restrittive della libertà personale, un controllo a posteriori condotto attraverso un'analisi statistica è in grado di individuare modelli decisionali affetti da vizi di illegittimità o di merito che possono essere ovviati operando vari cambiamenti di tipo organizzativo, anche se le ingiustizie individuali del passato non possono essere corrette.
Spesso la potestà discrezionale è attribuita dalla legge alle autorità amministrative per decidere questioni estremamente specifiche relative al trattamento dei singoli cittadini da parte dello Stato. Soprattutto all'interno dei moderni Stati industrializzati, sociali e di diritto, i funzionari della pubblica amministrazione devono compiere una enorme quantità di scelte discrezionali di questo tipo, decidendo ad esempio quali cittadini abbiano diritto a ottenere determinate agevolazioni o sussidi statali, oppure se una persona fisica o giuridica abbia violato o meno una determinata legge, e, in caso affermativo, quale provvedimento adottare. Il potenziale conflitto tra libero apprezzamento e principio di legalità emerge qui in modo estremamente chiaro. In base al principio di legalità tali decisioni devono essere adottate in conformità alla legge, ossia in base a norme giuridiche relativamente rigide, note e prefissate, anziché essere rimesse totalmente alla discrezionalità delle autorità. In certe situazioni, tuttavia, una soluzione che risponda unicamente al principio di legalità si rivela impossibile o, quanto meno, impraticabile. Tali sono, ad esempio, le situazioni in cui un ente amministrativo deve distribuire una risorsa della quale non è disponibile una quantità sufficiente a soddisfare le richieste di tutti gli aventi diritto, ad esempio quando vi siano solo un migliaio di case popolari per diecimila famiglie che hanno i titoli legali per l'assegnazione. Un'altra situazione è quella delle numerose decisioni che potremmo definire 'di basso livello': in questo caso i costi comportati dal controllo sulle scelte discrezionali sopravanzano di gran lunga i benefici che ne derivano, e tuttavia non è conveniente eliminare totalmente la discrezionalità. Ad esempio, imporre ai vigili urbani di multare ogni vettura parcheggiata in divieto di sosta potrebbe essere ritenuto inopportuno; tuttavia probabilmente sarebbe impossibile mettere agli atti e, a maggior ragione, controllare ogni singola decisione dei vigili di non elevare contravvenzione. Una terza situazione assai frequente è quella in cui l'autorità si trova a dover adottare decisioni che comportano complesse e delicate valutazioni di fattori umani: è il caso del funzionario che deve scegliere tra due aspiranti a un impiego che hanno qualifiche identiche sul piano formale, del pubblico ministero che deve decidere se incriminare come complice l'amico di un rapinatore presso il quale quest'ultimo si è rifugiato subito dopo aver commesso il reato, oppure dell'assistente sociale che deve decidere se una famiglia abbia i requisiti per ottenere l'affidamento o l'adozione di un bambino. In questi casi, così come in altri, la decisione si fonda su un 'intuito' per la condizione umana - basato sull'esperienza e sulla capacità di valutazione - che non sembra poter essere racchiuso in norme giuridiche; nelle situazioni di questo tipo, al contrario, seguire norme codificate condurrebbe a risultati meno soddisfacenti di quelli consentiti da una decisione discrezionale.
Nel complesso, comunque, si riscontra una tendenza generale a ridurre via via i margini di discrezionalità, in parte sostituendo a essa norme giuridiche e in parte introducendo vari meccanismi che permettano perlomeno un controllo a posteriori sull'opportunità, l'equità e la razionalità delle decisioni adottate. Nella maggior parte dei paesi, ad esempio, la concessione di sussidi di disoccupazione e invalidità, di pensioni e assegni familiari è in genere disciplinata da un esteso e complesso sistema di norme vincolanti che stanno via via sostituendo il potere discrezionale delle autorità amministrative nel decidere chi abbia o meno diritto a ricevere tali indennità. E ciò avviene benché si riconosca che le condizioni dei singoli individui e delle famiglie sono talmente varie da non poter essere totalmente ricomprese in norme giuridiche. Il frequente verificarsi di abusi del potere discrezionale - attraverso favoritismi ad amici, parenti, appartenenti alla stessa confessione religiosa, ecc., oppure attraverso risentimenti, animosità o negligenza - fa sì che vengano introdotte norme vincolanti in misura sempre più massiccia al fine di eliminare tali abusi. Ciò comporta inevitabilmente un appesantimento burocratico, senza contare che una rigida applicazione delle norme può dar luogo a ingiustizie nei casi concreti. Per ovviare a questi inconvenienti di solito si cerca non già di eliminare le norme, bensì di emendarle riducendo il campo di applicabilità delle norme punitive e ampliando quello delle norme comportanti benefici; in questo modo si avrà una riduzione delle conseguenze negative per il privato, a prezzo però di un aumento del margine di inesattezza per ciò che concerne i provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione.
Esistono vari meccanismi che frenano la tendenza a rimpiazzare la discrezionalità con norme vincolanti. La maggior parte di tali meccanismi consistono in obblighi di motivazione e documentazione del provvedimento adottato in udienze di carattere formale o informale con o senza il diritto all'assistenza di un legale, con o senza contraddittorio, in ricorsi a livelli amministrativi superiori e/o ricorsi a organi giurisdizionali più o meno indipendenti. In alcuni casi questi meccanismi consentono a un organo diverso da quello che ha emanato il provvedimento in prima istanza di prendere una decisione ex novo. In altri casi la decisione discrezionale iniziale può essere annullata solamente per errori di diritto procedurali o sostanziali, oppure per manifesta parzialità o ingiustizia. Quando le autorità amministrative debbono adottare provvedimenti estremamente specifici su chi abbia diritto o sia meglio qualificato o meriti maggiormente determinati benefici o sanzioni, esse sono chiamate in pratica ad agire come organi giurisdizionali, sostituendo il proprio libero apprezzamento a norme e precedenti giuridici.
Quando agli organi amministrativi viene attribuita la potestà di emanare leggi e regolamenti o di formulare scelte programmatiche che interessano la società nel suo complesso, anziché di esprimere decisioni specifiche concernenti singoli individui, essi agiscono non già come organi giurisdizionali, bensì come organi legislativi che 'emanano regolamenti'. In alcuni ordinamenti le norme che attribuiscono tale potestà regolamentare prevedono anche un sindacato giurisdizionale sugli atti amministrativi, altri ordinamenti lo escludono esplicitamente e altri ancora non si pronunciano sulla questione. Tuttavia anche nel caso in cui sia previsto un sindacato giurisdizionale, spesso esistono pochi o punti elementi sui quali il giudice può basare l'annullamento di una norma regolamentare, in quanto l'accertamento dei fatti compiuto dall'amministrazione viene considerato definitivo e la legge che delega la potestà regolamentare non contiene norme giuridiche in base alle quali può essere controllata la legittimità del regolamento. In alcuni Stati però la potestà regolamentare attribuita all'esecutivo è sottoposta a una qualche forma di controllo da parte di commissioni parlamentari e/o limitata da altri meccanismi quali la responsabilità collegiale dell'esecutivo (collective cabinet responsibility), le inchieste parlamentari (parliamentary inquiries) e la mozione di sfiducia da parte del parlamento. Tali meccanismi di controllo, per quanto in gran parte illusori, possono però limitare in qualche misura gli abusi più gravi della discrezionalità normativa del potere esecutivo.
La larga frequenza con cui le assemblee parlamentari dei vari Stati hanno proceduto alla delega della potestà legislativa a organi del potere esecutivo e l'enorme potere di cui vengono così investiti i funzionari amministrativi hanno alimentato a partire dagli anni cinquanta un crescente malcontento. La tendenza a rendere giuridicamente azionabili i diritti individuali di rango costituzionale, che si osserva in quasi tutti i paesi, è diretta contro gli abusi della potestà regolamentare da parte dell'esecutivo non meno che contro gli abusi del potere legislativo. Dall'atteggiamento prevalente negli anni cinquanta, in cui le giurisdizioni di quasi tutte le nazioni si rimettevano quasi interamente ai 'tecnici' dell'amministrazione per l'emanazione di regolamenti, in alcuni paesi, particolarmente negli Stati Uniti, le corti sono passate a un controllo assai più incisivo dell'attività normativa della pubblica amministrazione, spesso con il supporto di nuove leggi o di emendamenti di leggi preesistenti che ampliano la possibilità di controllo. Le corti dichiarano ancora di rimettersi alle scelte programmatiche dell'esecutivo, ma sempre più spesso trovano il modo di trattare il procedimento di emanazione delle norme regolamentari come un procedimento concernente questioni di diritto, per le quali sono i giudici gli esperti in ultima istanza, oppure questioni di fatto, per le quali l'esecutivo deve almeno dimostrare di aver effettuato accertamenti sufficienti.
Il tentativo di controllare l'esercizio della discrezionalità cercando di lasciare inalterata la libertà di valutazione e di scelta si è tradotto nell'imposizione di una serie di obblighi procedurali. L'intento non è tanto quello di porre limiti giuridici alla discrezionalità amministrativa, quanto piuttosto quello di rendere i processi decisionali dell'esecutivo più 'trasparenti', ossia maggiormente soggetti al pubblico controllo e al pubblico giudizio sia ex ante che ex post. Un risultato, per il vero non molto felice, di questa politica è che quanti sono investiti di potere discrezionale sono esposti in misura assai maggiore che in passato alle pressioni di una gamma notevolmente più ampia di gruppi di interesse. Soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna e nell'Europa continentale, l'esercizio discrezionale della potestà regolamentare dà luogo a controversie giudiziarie assai più spesso che in passato, perché con l'aumentare dei vincoli procedurali diventa più facile dimostrare che gli atti amministrativi contengono vizi procedurali. In che misura i tribunali dei vari paesi si servano di eccezioni procedurali quale espediente per annullare norme regolamentari verso le quali hanno in realtà obiezioni di merito è una questione perennemente dibattuta. È stato affermato che un controllo più incisivo vanifica lo scopo stesso per cui si attribuisce una potestà normativa a organi diversi dal potere legislativo, ossia quello di rendere l'azione dello Stato più rapida, più flessibile e meglio rispondente alle singole situazioni concrete di quanto non consenta la sola normativa primaria. Negli Stati Uniti l'attività regolamentare della pubblica amministrazione ha assunto tutti quegli aspetti negativi in termini di complessità e gravami burocratici che caratterizzano il procedimento giudiziario, ed è soggetta a un sindacato giurisdizionale talmente pignolo e prolungato che a parere di molti essa è divenuta altrettanto lenta e faticosa quanto la procedura legislativa. Il problema non nasce tanto da una drastica limitazione della discrezionalità amministrativa, quanto piuttosto dal fatto che i costi comportati da un esercizio non consensuale di tale discrezionalità sono enormemente aumentati. Tendenze analoghe si riscontrano in tutti gli ordinamenti giuridici che cercano di intensificare il controllo pubblico sugli atti discrezionali dell'esecutivo attraverso vincoli procedurali tesi ad accrescere la trasparenza.
Tra l'enorme quantità di decisioni discrezionali che riguardano richieste di singoli individui e la potestà discrezionale di emanare regolamenti generali esiste una grande quantità di provvedimenti di carattere discrezionale su materie di interesse generale ma alquanto specifiche. Nella maggior parte dei casi si tratta di decisioni relative alla 'progettazione', come quelle relative all'ubicazione di un aeroporto o al tracciato di un'autostrada. Altre riguardano le attività economiche e finanziarie dello Stato, come la fissazione del tasso d'interesse, il prestito statale o la gestione di aziende o industrie statali. Da un lato vi è l'esigenza di attribuire un potere di azione discrezionale alla pubblica amministrazione in quanto le decisioni in questione dipendono da una tale mescolanza di elementi incerti e mutevoli, di forze esterne incontrollabili e di semplici considerazioni di opportunità e convenienza da rendere del tutto inadeguato un processo decisionale basato su criteri predeterminati e vincolanti. D'altro canto si tratta di decisioni che possono ledere gli interessi dei privati, sicché sembra sconsigliabile affidarle interamente alla discrezionalità di un manipolo di funzionari amministrativi.
Il fenomeno della discrezionalità giudiziale ha richiamato in misura crescente l'attenzione dei giuristi. La tendenza a rendere più incisivo il sindacato giurisdizionale sugli atti di discrezionalità amministrativa mette in luce gli aspetti discrezionali del sindacato giurisdizionale. Sebbene infatti i giudici sostengano che il loro compito è solo quello di assicurare che le decisioni amministrative siano conformi alle norme che limitano il campo della scelta discrezionale, è ovvio che chi appone il suggello finale dell'approvazione giudiziale a un atto discrezionale esercita a sua volta una qualche discrezionalità. In certa misura il giudice deve ripetere lo stesso processo di ponderazione dei costi e dei benefici e di comparazione degli interessi compiuto in prima istanza dall'autorità amministrativa. Una qualche valutazione discrezionale del merito degli atti amministrativi è sempre implicita nell'accertamento giudiziale del vizio di eccesso di potere. Analoghi elementi di valutazione discrezionale sono presenti spesso nel controllo procedurale e giurisdizionale. È più probabile che i giudici riscontrino vizi procedurali ed eccessi di giurisdizione nelle decisioni amministrative che essi reputano inadeguate sotto il profilo del merito, ossia della convenienza, dell'opportunità, dell'equità, ecc., piuttosto che nelle decisioni ritenute ineccepibili sotto questi profili discrezionali. Il sindacato giurisdizionale sull'interpretazione amministrativa delle norme dell'ordinamento presenta anch'esso notevoli elementi di discrezionalità. Molte sentenze di annullamento di atti amministrativi per 'errore di diritto' (clear error of law) nascono di fatto nelle situazioni in cui una norma autorizza una scelta discrezionale tra varie interpretazioni e il giudice ritiene che l'autorità abbia compiuto una scelta inadeguata.
Determinate facoltà discrezionali sono attribuite in modo più esplicito e formale ai tribunali, e riguardano in gran parte l'organizzazione interna - ad esempio il calendario delle sessioni, l'amministrazione del personale, le procedure per la gestione del flusso degli atti e dei documenti. In alcuni casi è rimessa alla discrezionalità delle corti di primo grado la decisione di concedere o meno la possibilità di ricorso in appello. Una componente discrezionale per quel che riguarda alcuni provvedimenti del giudice nei contenziosi civili esiste anche in alcuni ordinamenti: è il caso ad esempio dei rimedi di equity dei sistemi angloamericani, che sono concessi discrezionalmente dal giudice. Probabilmente lo sviluppo più vistoso della discrezionalità giudiziale si è avuto con i cosiddetti 'rimedi istituzionali' negli Stati Uniti, dove intere scuole, carceri e corpi di polizia sono sottoposti giorno per giorno per estesi periodi di tempo a un controllo giurisdizionale su tutti gli aspetti della loro attività, mentre cercano di porre rimedio alla discriminazione razziale o sessuale operata in passato, o di adeguarsi agli standard richiesti dal divieto costituzionale di infliggere punizioni crudeli e inumane. Spesso l'onere di questa gestione discrezionale di cui i giudici si fanno carico in questi casi è così gravoso che essi delegano parte della responsabilità a un incaricato stragiudiziale della corte.
In alcune giurisdizioni i giudici esercitano una certa discrezionalità nella commisurazione della pena. Tale discrezionalità è limitata da un lato da leggi sanzionatorie indeterminate, che lasciano al giudice ampio margine di apprezzamento per quanto riguarda la durata della pena detentiva, dall'altro lato da norme che prescrivono sanzioni predeterminate od obbligatorie.
Per alcuni versi la questione della discrezionalità giudiziale non è che un aspetto della questione relativa alla produzione normativa per via giudiziale. Sebbene alcuni giudici e una parte della dottrina continuino a sostenere che il giudice si limita a 'scoprire' o 'interpretare' il diritto, anziché crearlo, il fenomeno della formazione giurisprudenziale del diritto è ampiamente riconosciuto. Se i giudici creano il diritto ne discende che essi esercitano un potere discrezionale, ossia il potere di scegliere quale legge produrre. L'interpretazione infatti consiste nella facoltà di scelta fra più significati tra loro concorrenti. Questa componente discrezionale emerge forse nel modo più chiaro nei sistemi di common law, dove si parla di 'diritto giurisprudenziale' (judge-made law). Anche nei paesi di common law tuttavia si osserva un incremento delle leggi scritte, sicché gran parte del loro 'diritto giurisprudenziale' non è più common law nel senso originario del termine bensì interpretazione casistica delle leggi scritte. Questo tipo di interpretazione del diritto codificato e delle altre norme scritte è attualmente una caratteristica pienamente riconosciuta dei sistemi di civil law, nei quali peraltro è presente il supporto di un apparato giurisprudenziale altrettanto elaborato quanto quello dei paesi di common law, sebbene l'impiego dei precedenti giurisprudenziali compiuto nei paesi di civil law sia più ridotto e meno evidente. È ovvio che, se dall'interpretazione di una determinata norma scritta si sviluppa una regola giurisprudenziale, in un certo senso sono i giudici a produrre il diritto. Per questo motivo per quanto concerne la produzione giurisprudenziale del diritto, e di conseguenza la discrezionalità giudiziale, non bisogna esagerare le differenze tra i sistemi di common law e quelli di civil law.
Il tipico processo decisionale di common law, ossia la decisione giudiziale basata esclusivamente sui precedenti giurisprudenziali (o su norme originariamente scritte tanto antiche - sulle quali si è venuto via via stratificando un diritto di creazione tipicamente giudiziaria - da far quasi dimenticare le loro fonti scritte), può essere considerato una forma evidente di processo decisionale discrezionale, conforme a una delle teorie classiche o insieme di regole relative a tale processo. Formulata originariamente per illustrare il processo con cui vengono adottate decisioni di natura discrezionale, quale, ad esempio, quella della fissazione dei prezzi delle merci al dettaglio, la teoria delle decisioni cosiddetta 'incrementale' mette in evidenza i costi che comportano le decisioni su larga scala, le quali vanno ben al di là dei principî contenuti nelle leggi vigenti. Tali decisioni di ordine globale, se vogliono rispondere a criteri di convenienza e opportunità, presuppongono la raccolta e l'analisi di un esteso insieme di fatti e l'attenta valutazione delle priorità tra preferenze, interessi e valori fra loro concorrenti. Inoltre, prima di adottare una decisione che comporta un cambiamento su vasta scala, occorrerebbe valutare una vasta gamma di scelte alternative analizzandone i relativi costi e benefici. Tali decisioni su larga scala non solo richiedono questo gigantesco investimento di tempo e di danaro, ma racchiudono anche notevoli rischi di conseguenze impreviste e costi elevati nel caso si dimostrino errate. Inoltre, quanto più esteso è il cambiamento dello status quo, tanto più veemente sarà la resistenza di coloro che vedranno disattese le proprie aspettative e danneggiati i propri interessi. Secondo la teoria incrementale delle decisioni, ne consegue che il responsabile della decisione: 1) si atterrà allo status quo sinché non si accumuleranno forti pressioni per cambiarlo; 2) allorché i cambiamenti si renderanno necessari, considererà solo quei fatti, valori e alternative vicini allo status quo e che ne comportano solo cambiamenti di lieve entità; 3) intraprenderà i cambiamenti nella misura strettamente necessaria al raggiungimento di un compromesso tra interessi e fattori fra loro concorrenti; 4) attenderà infine le ripercussioni di un piccolo cambiamento iniziale prima di decidere se procedere a ulteriori piccoli cambiamenti.
Il metodo della decisione caso per caso basato sul principio dello stare decisis, proprio dei sistemi di common law, non è altro che un metodo decisionale di tipo incrementale. Esso comporta un notevole grado di discrezionalità, in quanto il responsabile della decisione deve scegliere quali fatti e quali linee di condotta alternative devono essere presi in considerazione e decidere quali piccoli cambiamenti effettuare tra i vari possibili. Si tratta tuttavia di una discrezionalità limitata, sia nel senso che non si prenderà in considerazione alcuna innovazione a meno che non vi sia una interruzione del consenso circa i principî esistenti, sia nel senso che chi esercita il potere discrezionale deve limitarsi a interventi di piccola entità. La natura incrementale della discrezionalità giudiziale nei sistemi di common law spiega perché, come è stato osservato da più parti, il diritto giurisprudenziale appare dotato di un alto grado di stabilità se lo si considera in un dato momento storico, ma varia nel corso dei secoli anche quando non si sia verificato alcun intervento legislativo.
I metodi di interpretazione delle norme legislative sono assai più problematici del metodo della common law. Senza dubbio sono sempre esistiti canoni di interpretazione delle norme basati sul senso letterale delle parole, sulla coerenza logica, sull'intenzione del legislatore, ecc., ma tali canoni ermeneutici sono stati messi costantemente in discussione. Gli studiosi di storia e di sociologia del diritto, la teoria della libera decisione e il realismo giuridico hanno criticato l'assunto secondo il quale i giudici possono, debbono o dovrebbero comunque impiegare i canoni interpretativi per arrivare a una 'unica' interpretazione corretta del linguaggio normativo. Tutti questi indirizzi hanno messo in evidenza la discrezionalità esercitata dal giudice nella scelta tra vari significati egualmente plausibili del linguaggio normativo, le ingiustizie e le inefficienze cui dà luogo l'applicazione meccanica di norme generali al caso particolare, l'obsolescenza di tali norme fisse di fronte ai rapidi cambiamenti delle società moderne, nonché il conflitto di interessi insito nel processo legislativo che dà spesso luogo a contraddizioni nelle stesse norme legislative. È necessario quindi che i giudici esercitino una discrezionalità interpretativa nell'adattare le norme all'evoluzione storica delle società. Più di recente il 'decostruzionismo' e altri movimenti intellettuali postmoderni hanno messo in rilievo il carattere ambiguo, contingente e intrinsecamente politico di tutti i 'testi', e i testi giuridici non sono sfuggiti a questa critica corrosiva. Nella misura in cui i testi giuridici sono considerati problematici, acquista importanza il ruolo dell'interprete nell'individuarne il senso.
Occorre dire che gli insegnamenti giuridici tradizionali e la prassi giuridica dei paesi di civil law hanno continuato a ignorare queste critiche alla tesi della natura determinativa dei testi giuridici e a ritenere che i giudici che interpretano il testo normativo non esercitano alcuna discrezionalità. La prassi europea delle corti composte da un collegio giudicante che emette una singola sentenza anonima, senza rendere pubblici i voti dei singoli giudici o le opinioni minoritarie, è in linea con la tesi tradizionale secondo la quale esiste una sola interpretazione 'corretta'. Si è registrata comunque una certa tendenza a esprimere decisioni giudiziali più genuinamente esplicative, e ciò indica che l'interpretazione non è un mero esercizio di logica cartesiana. Fatto ancora più importante, l'ampio ricorso - sia nell'insegnamento che nella prassi giuridica - alle raccolte di giurisprudenza per spiegare il significato delle norme scritte costituisce di fatto un riconoscimento della discrezionalità interpretativa del giudice anche quando essa continui a essere formalmente negata.
In tutti i moderni paesi industrializzati infine, sia di civil law che di common law, il carattere del moderno diritto pubblico, della legislazione sociale e della regolamentazione economica richiede una notevole discrezionalità da parte dell'interprete. Si tratta infatti di leggi lunghe e complesse, frutto del compromesso tra interessi di diverso tipo, sicché di solito contengono diversi obiettivi in conflitto tra loro, disposizioni contraddittorie e ambiguità di linguaggio destinate ad appianare contrasti irrisolti tra coloro che hanno elaborato le leggi stesse. Spesso tali normative sono espresse in un linguaggio simbolico e parentetico, concepito più per fini pubblici e politici che per fornire chiare istruzioni a chi ha il compito di applicare le norme; esse contengono inoltre ampie deleghe della potestà legislativa, limitata in modo impreciso, agli organi amministrativi o all'esecutivo politico. Spesso nelle leggi è presente un'incerta mescolanza di norme dettagliate e ampie deleghe. Come abbiamo già osservato, il sindacato giurisdizionale sulla interpretazione amministrativa di tali norme si trasforma inevitabilmente nell'esercizio di una discrezionalità giudiziale per controllare la discrezionalità amministrativa. Più in generale, tali leggi smentiscono la pretesa che esse possano avere una singola, obiettiva interpretazione che resta inalterata nel tempo nonostante i cambiamenti nel sistema politico, sociale ed economico. Le caratteristiche del diritto pubblico contemporaneo mettono quindi in evidenza la discrezionalità esercitata dagli interpreti delle leggi.
Negli Stati Uniti la riflessione sull'interpretazione della legge si è sempre svolta all'ombra dei dibattiti sull'interpretazione di un testo costituzionale sostanzialmente rispettato ma ampiamente interpretato. L'evidente discrezionalità esercitata dalla Corte Suprema nell'interpretare il dettato costituzionale, che la Corte stessa considera un testo giuridico al pari di altri, ha incoraggiato l'esercizio di un'ampia discrezionalità giudiziale in ogni attività interpretativa. Il ruolo sempre più importante assunto dal controllo costituzionale in molti paesi e nella Comunità Europea, e il diffondersi di quelle correnti di pensiero secondo le quali ogni interpretazione testuale ha carattere contingente e costitutivo, promettono di rendere gli studiosi del diritto, i giudici e gli avvocati sempre più consapevoli delle componenti discrezionali insite nell'interpretazione delle leggi.
Una particolare caratteristica dell'interpretazione costituzionale incoraggia in special modo la discrezionalità giudiziale. La Corte Suprema americana e altre Corti costituzionali, nel proclamare la teoria del bilanciamento, riconoscono sempre più che le loro decisioni debbono essere in grado di equilibrare diritti e poteri costituzionali concorrenti; un inevitabile corollario di tale orientamento è l'idea che le leggi le quali per perseguire un interesse pubblico primario violano in modo legittimo un diritto costituzionale devono essere 'strettamente commisurate allo scopo' per realizzare l'interesse pubblico primario attraverso provvedimenti che ledano nella misura minore possibile il diritto costituzionale. Se si ammette che un diritto costituzionale può essere in qualche misura violato nel perseguimento di un altro diritto costituzionale o di una importante finalità sociale, ne consegue necessariamente che la Corte costituzionale deve esigere che la violazione di quel diritto sia il più possibile contenuta. Analoghi orientamenti si affermano progressivamente non solo negli Stati Uniti, ma anche nelle pronunce della Corte di giustizia della Comunità Europea e della Corte europea dei diritti umani sul 'margine di apprezzamento' concesso agli Stati membri in deroga all'uniformità comunitaria. Gli stessi principî sono alla base delle sentenze di annullamento di proposte di legge del Consiglio costituzionale francese e della Corte costituzionale federale tedesca. Questi orientamenti basati sulle nozioni di equilibrio incrementano notevolmente la discrezionalità giudiziale, o perlomeno la rendono più evidente. Valutare comparativamente un interesse tutelato dalla Costituzione rispetto a un altro comporta ovviamente un giudizio discrezionale, e giudicare se il potere legislativo abbia adottato una legge che sia strettamente commisurata allo scopo comporta un diritto del giudice a emettere sentenze con valore normativo.
Soprattutto durante il periodo in cui si affermò la dottrina leninista del controllo del Partito comunista, gli ordinamenti giuridici socialisti hanno messo in rilievo un differente aspetto della discrezionalità giudiziale, anche quando insistevano sul concetto di 'legalità socialista'. I tribunali del popolo, il ricorso a giudici non professionisti, la risoluzione delle controversie da parte di comitati locali composti da laici, l'obbligo di iscrizione al partito nonché il controllo e la disciplina da esso esercitati sugli stessi giudici togati, infine l'obbligo dei giudici di uniformarsi ai principî marxisti-leninisti-maoisti enunciati di volta in volta dal partito stesso, tutto ciò comportava l'allontanamento dall'applicazione di norme legali in senso tecnico a favore di una giustizia maggiormente discrezionale, razionalizzata dalla pretesa del partito di possedere capacità analitiche e finalità etiche superiori. Il ruolo delle considerazioni di 'opportunità e convenienza' nelle decisioni giudiziali, ampiamente riconosciuto anche nel diritto americano, è stato predominante in molti Stati socialisti, con la differenza, naturalmente, che in un caso le valutazioni discrezionali sono effettuate da una magistratura relativamente indipendente, mentre nell'altro caso erano trasferite dai giudici al partito.Il diritto tradizionale dell'Islam, in contrasto con i sistemi giuridici influenzati dall'Occidente adottati da molti Stati islamici moderni, non prevede la possibilità di appello, è caratterizzato da una quantità di scuole interpretative talvolta in conflitto tra loro, si basa su un insieme di testi giuridici di ispirazione divina, spesso assai criptici, che non assumono la struttura di un codice sistematico e impediscono la produzione di una nuova legislazione. Gli occidentali, di conseguenza, hanno considerato il diritto islamico come un sistema del tutto discrezionale. L'Islam dà grande rilievo all'accesso diretto ai testi giuridici da parte dei singoli giudici, relativamente liberi dalla supervisione di gerarchie giurisdizionali o di altro tipo. Nonostante ciò l'Islam ha creato un corpus assai dettagliato di testi dottrinali che hanno assunto per certi aspetti il carattere di un codice fisso. L'idea che da una serie di norme giuridiche preesistenti si possa derivare un'unica risposta corretta ai problemi di natura giuridica è altrettanto radicata, e forse ancora più dominante, nell'Islam che non nel mondo occidentale. Nello stesso tempo la dottrina giuridica ortodossa dell'Islam riconosce la varietà degli indirizzi interpretativi e la necessità di un certo margine di apprezzamento discrezionale. Sebbene l'Islam sia più incline ad assegnare questa sfera di legittima discrezionalità ai saggi del lontano passato che non ai giudici contemporanei, una certa libertà di apprezzamento limitata dal consenso giuridico tradizionale è riconosciuta anche a questi ultimi. Di conseguenza i dibattiti sul giusto equilibrio tra norma e discrezionalità giudiziale contraddistinguono il diritto islamico al pari di quello occidentale.
Analoghe considerazioni si possono fare sul diritto tradizionale asiatico, che nel corso dei secoli ha governato più esseri umani di qualsiasi altro. I diritti cinese e giapponese anteriori al XX secolo davano la preminenza a codici interpretati in modo rigido, le cui formulazioni erano rimaste spesso invariate nel corso dei secoli. Elaborati meccanismi di appello avevano la funzione di riservare qualunque residua discrezionalità a un ristretto numero di alti funzionari della capitale. Ai giudici locali non era concesso alcun potere discrezionale, nemmeno per quanto riguardava l'organizzazione interna o l'irrogazione della pena, anche se in pratica, ovviamente, essi esercitavano una notevole discrezionalità in ordine sia alla scelta dei casi da dibattere in giudizio sia al modo in cui deciderli. Ciò costituiva comunque una sorta di scarto non autorizzato dalla norma, tipico di sistemi burocratici fortemente centralizzati le cui autorità centrali non avevano i mezzi per controllare strettamente come avrebbero voluto i loro subordinati; perlomeno in teoria, infatti, tutto il potere discrezionale si concentrava nelle mani dellimperatore di natura quasi divina.
La propensione confuciana per la mediazione, tuttavia, creava un importante presupposto per una valutazione discrezionale da parte dei giudici nei processi. I magistrati locali dovevano incoraggiare le soluzioni di compromesso delle controversie e a volte fungere essi stessi da mediatori. Benché il codice fosse formulato in termini penali, e in teoria il giudice avesse lobbligo di perseguire penalmente ogni denunzia per violazione del codice, nella pratica i magistrati spesso componevano in via transattiva le controversie iniziate come procedimenti penali. In qualità di mediatori essi godevano di particolari vantaggi, in quanto nei loro interventi conciliatori era sempre implicita la minaccia di applicare le sanzioni draconiane previste dal codice in caso la mediazione fallisse. Nella mediazione cinese tradizionale il mediatore aveva un ruolo attivo sia nellaccertamento dei fatti che nella proposta di transazione. Dati i poteri giuridici e lautorità sociale di cui godeva il magistrato, la sua mediazione era di fatto il potere discrezionale di imporre la soluzione che egli ritenesse equa. Tale discrezionalità era limitata solo da norme etiche generali e dalla facoltà delle parti di esigere unazione in giudizio, costosa e dallesito incerto, se non fossero state soddisfatte della mediazione del magistrato. Il sistema della Cina contemporanea è assai simile; un notevole potere discrezionale è attribuito ai comitati locali di arbitrato reclutati tra il popolo e ai giudici dei tribunali ordinari, ai quali si richiede di ricorrere allazione in giudizio solo se non sono in grado di risolvere la controversia in via transattiva.
Gli Stati socialisti occidentali avevano adottato simili procedure di mediazione, ma in misura minore. Diversi comitati locali sovietici esercitavano funzioni di mediazione che implicavano una risoluzione delle controversie di tipo discrezionale, laddove nei paesi non socialisti si ricorre preferibilmente ad azioni in giudizio relativamente vincolate da norme. Il sistema sovietico di arbitrato, istituito per risolvere controversie contrattuali fra imprese pubbliche, comportava una mescolanza di mediazione e lite giudiziaria e consentiva agli arbitri maggiore discrezionalità di quella consentita ai giudici nella lite civile. Larbitrato ha oggi assunto un ruolo assai importante nella risoluzione delle controversie contrattuali anche nei paesi non socialisti.Nella soluzione delle controversie esiste una sorta di continuum che va dalla figura del mediatore a quella dellarbitro e infine del giudice. Man mano che ci si sposta lungo questo continuum, il ruolo delle parti in lite diminuisce dimportanza rispetto a quello del soggetto terzo incaricato di dirimere la controversia, ma i poteri di questultimo diventano sempre più vincolati da norme e sempre meno discrezionali. Così nei sistemi occidentali i mediatori hanno un maggior potere discrezionale di ignorare le norme giuridiche rispetto agli arbitri, ma anche un potere minore di imporre soluzioni. Ciò che ha di notevole la mediazione cinese è la combinazione tra lampia discrezionalità del mediatore, il suo ruolo eminentemente attivo nellaccertamento dei fatti e nella proposta della soluzione e il suo grande potere coercitivo.
Sebbene i problemi relativi alla selezione e alla organizzazione dei magistrati siano posti di solito nei termini del problema dell'indipendenza della magistratura, si tratta di questioni importanti anche dal punto di vista della discrezionalità giudiziale. I mezzi di gravame rappresentano naturalmente il principale strumento per limitare la discrezionalità del giudice. Se ai giudici di prima istanza è attribuita la facoltà di decidere secondo discrezionalità materie quali il risarcimento del danno o le sanzioni penali, le corti d'appello sono spesso autorizzate a riesaminare tali decisioni nel merito. Altri elementi, meno esplicitamente riconosciuti, di discrezionalità dei giudici di prima istanza sono riesaminati dalle corti d'appello come questioni di diritto di tipo procedurale o sostanziale. Perlomeno nei sistemi di common law l'accertamento dei fatti viene considerato conclusivo salvo poche eccezioni, ma in molti paesi si registra una diffusa tendenza delle corti d'appello a procedere a un riesame del merito. Il motivo è che, ovviamente, l'accertamento dei fatti implica una notevole discrezionalità, poiché i giudici possono interpretare un medesimo insieme di circostanze in modi assai diversi. Tale riesame del merito può aversi attraverso un ampliamento della categoria delle 'questioni miste di fatto e di diritto' che le corti d'appello sono legittimate a esaminare, oppure attraverso l'istruzione di processi ex novo che consentono alle corti di secondo grado di procedere a un riesame del merito basato sugli atti del procedimento di primo grado, o anche all'ammissione di nuove prove. La revisione di merito nei procedimenti d'impugnazione amministrativi può implicare anch'essa un accertamento dei fatti ex novo, come avviene ad esempio nei tribunali amministrativi australiani.
La consapevolezza che lo strumento dell'appello da solo non può limitare completamente la discrezionalità dei giudici, ma comporta in realtà un mero trasferimento della potestà discrezionale dai giudici di prima istanza ai giudici del tribunale di secondo grado, induce ad attribuire una particolare importanza al ruolo dei magistrati. Una magistratura di buon livello può migliorare sul piano qualitativo, se non diminuire quantitativamente, la discrezionalità giudiziale. In effetti, determinate modalità di reclutamento e di disciplina dei magistrati accrescono la discrezionalità giudiziale, forse con conseguenze negative. La tendenza dei regimi comunisti e di altri regimi rivoluzionari a utilizzare giudici non togati o a sostituire ai tribunali i comitati popolari è un mezzo atto ad assicurare una certa flessibilità nel perseguire gli obiettivi rivoluzionari, piuttosto che una rigorosa applicazione della legge. La giuria di tipo angloamericano, che viene impiegata anche nei tribunali penali di molti paesi di civil law, solleva gravi problemi per quanto riguarda la discrezionalità. Da tempo si discute sulla legittimità del cosiddetto annullamento da parte della giuria, ossia della deliberata decisione dei giurati di non attenersi alla legge o perché in un determinato caso ciò porterebbe a commettere un'ingiustizia o per cattiva amministrazione da parte del governo. Il fatto che nei paesi dell'ex blocco sovietico i giudici dovessero essere iscritti al Partito comunista è stato spesso criticato in quanto in questo modo essi erano assoggettati alla disciplina del partito. Nella maggior parte dei paesi, tuttavia, i giudici sono soggetti a una disciplina della propria carriera analoga a quella che vige per altri impiegati statali. Si possono distinguere in proposito due differenti situazioni. Nel primo caso i giudici sono reclutati tra i professionisti con alle spalle una brillante carriera nel settore forense, e una volta nominati alla carica in un determinato tribunale vi prestano servizio a vita senza che vi sia alcun sistema di promozioni o di trasferimenti in altre sedi. Nel secondo caso i giudici sono reclutati immediatamente dopo aver finito gli studi di giurisprudenza; l'ufficio giudiziario costituisce una carriera organizzata in modo analogo a quella militare, con un sistema di promozioni, frequenti trasferimenti di sede, periodiche valutazioni di efficienza da parte di funzionari più anziani e un controllo definitivo della carriera compiuto da un ministro del governo. Nel primo caso la discrezionalità giudiziale viene incoraggiata, poiché il giudice porta in questo ufficio il proprio bagaglio di esperienze come rappresentante legale di clienti i quali si sono dovuti scontrare con un'applicazione a loro avviso troppo rigida delle leggi esistenti. Inoltre, a parte il caso dell'annullamento della sentenza nel giudizio d'appello, i giudici non subiscono alcuna conseguenza negativa della discrezionalità che essi esercitano in giudizio. Nel secondo caso invece la discrezionalità giudiziale viene generalmente scoraggiata, sia perché i giudici possono attingere a un bagaglio di esperienze extra-legali della vita pratica relativamente esiguo, sia perché ogni esercizio di discrezionalità può apparire come una deroga all'ortodossia giuridica, che avrebbe effetti negativi sull'avanzamento di carriera. Naturalmente se il sistema degli avanzamenti di carriera della magistratura è caratterizzato dal fatto che un Ministero della Giustizia ricompensa e punisce i giudici sulla base della loro conformità ai propri orientamenti politici, gli ordinamenti giudiziari di tipo gerarchico basati sulla carriera possono essere caratterizzati dall'alta incidenza di una discrezionalità d'altro genere, consistente nella deroga alle norme giuridiche al servizio del potere politico. Nei sistemi del primo tipo, d'altro canto, gli stessi risultati si possono avere se le nomine dei giudici costituiscono una ricompensa clientelare per la passata fedeltà a un determinato partito politico dominante. Non è chiaro se rispetto agli ordinamenti basati sulla carriera questi ultimi incoraggino effettivamente l'esercizio di una maggiore discrezionalità da parte dei magistrati, oppure se la differenza tra i due sistemi consista semplicemente nel fatto che essi incanalano l'esercizio della discrezionalità in direzioni diverse. Il sistema di tipo gerarchico basato sulla carriera manifesta una certa tendenza a produrre una magistratura particolarmente in sintonia con gli orientamenti del governo, mentre quello non gerarchico produce giudici particolarmente 'sensibili' a interessi privati soggetti a regolamentazione da parte dello Stato.
Il principio di legalità e la discrezionalità spesso vengono contrapposti, e sicuramente attraverso il principio di legalità si può cercare di ridurre al minimo la discrezionalità giudiziale. Se tuttavia il ruolo dei giudici è quello di applicare la norma generale al caso concreto, è evidente che anche gli ordinamenti basati sul principio di legalità non possono escludere qualsiasi potere discrezionale. Del resto, già dai tempi di Platone si è sempre riconosciuto che tra norme generali e casi concreti non vi è una perfetta corrispondenza, e che occorre colmare in qualche modo questo scarto.
Il rapporto tra diritto e discrezionalità risponde abbastanza alle moderne teorie delle decisioni nell'ambito politico e organizzativo e a tradizionali criteri di equilibrio e razionalità. Agli inizi del XX secolo il mondo occidentale aveva manifestato un grande entusiasmo per lo spirito scientifico. La scienza e le sue applicazioni tecnologiche schiudevano possibilità straordinarie di controllare la natura, consentendo all'uomo di migliorare la propria condizione; si preannunciava la nascita di scienze sociali in grado di emulare la fisica e la biologia, e tra di esse figurava la scienza della pubblica amministrazione o scienza amministrativa. I fautori di tale disciplina, che inizialmente si occupava principalmente dei problemi legati all'esecuzione corretta, razionale ed efficiente da parte degli amministratori di decisioni prese da altri, ben presto arrivarono a sostenere che molti ambiti dell'attività amministrativa erano di natura puramente tecnica piuttosto che politica, e di conseguenza potevano essere gestiti da un corpo di esperti su basi esclusivamente scientifiche, obiettive, neutrali e imparziali. Nei paesi di tradizione giuridica romano-germanica questa nuova esigenza di scientificità era in sintonia con l'antica pretesa del diritto romano di costituire una scienza giuridica neutrale e universale, comune a tutti gli Europei, e con il modello di pubblico funzionario neutrale, imparziale ed esperto di diritto che ne derivava. In Inghilterra la nuova scienza era consona alle tradizioni della pubblica amministrazione, mentre negli Stati Uniti essa dava l'avvio a una riforma del settore destinata a creare un corpo di pubblici funzionari modellato su quello europeo.
Verso gli anni trenta la tecnocrazia - l'amministrazione condotta su basi scientifiche e affidata a un corpo di tecnici - costituiva un aspetto significativo delle democrazie occidentali, del comunismo e del fascismo nonché del 'socialismo scientifico' propugnato dai fabiani. I detrattori della scienza amministrativa osservavano cinicamente che il suo unico esito era quello di trasferire in blocco la discrezionalità delle scelte politiche dai cittadini e dal legislativo da essi eletto all'esecutivo e agli organi amministrativi. Per i sostenitori della nuova disciplina, viceversa, il problema della discrezionalità non si poneva affatto in quanto la maggior parte delle decisioni amministrative erano di natura puramente tecnica e non comportavano valutazioni discrezionali, bensì indagini scientifiche atte a individuare le soluzioni appropriate. Se esiste un'unica risposta corretta, non vi è discrezionalità. Questa attitudine 'scientifica' è stata etichettata in seguito 'sinotticismo' dagli studiosi della teoria delle decisioni. Le strategie decisionali di tipo 'sinottico' richiedono che vengano raccolti tutti i fatti rilevanti, che vengano assegnati chiari ordini di priorità a tutti gli obiettivi o valori, che vengano valutate tutte le decisioni alternative e che venga scelta alla fine quella in grado di realizzare gli obiettivi più importanti col massimo beneficio e il minimo costo. La pianificazione economica, in gran voga prima e dopo la seconda guerra mondiale, costituiva l'epitome del sinotticismo.
Negli anni sessanta il sinotticismo cominciò ad essere messo seriamente in discussione e si affermò una diversa teoria delle decisioni, conosciuta come 'incrementalismo'. Secondo questa teoria, l'ideale prospettato dal sinotticismo non si incontra mai - non si può né si deve incontrare - nel mondo delle decisioni reali. Il sinotticismo, secondo gli incrementalisti, impone al processo decisionale dei costi altissimi e inaccettabili perché nelle moderne società complesse e altamente differenziate raccogliere tutte le informazioni rilevanti per una data decisione richiederebbe un dispendio enorme di denaro, tempo ed energia, mentre definire un insieme di obiettivi e valori e un ordine di priorità degli stessi sul quale vi sia un completo consenso è impossibile. Immaginare e valutare tutte le alternative comporterebbe costi altrettanto elevati quanto considerare tutti i fatti, anche se l'immaginazione umana fosse in grado di raffigurarsi tutte le alternative. In sintesi, un processo decisionale perfettamente 'razionale' o 'scientifico' o è impossibile o comporta costi eccessivi. L'incrementalismo riscopre il ruolo fondamentale che la discrezionalità assume nel processo decisionale, oscurato in precedenza dalla nozione di decisione 'scientifica'. In base alla teoria incrementale infatti il soggetto prende in considerazione una selezione ristretta di fatti, valori e alternative, e sceglie tra una serie di piccoli cambiamenti, nessuno dei quali viene considerato 'giusto' in senso assoluto.
La consapevolezza che le decisioni dell'amministrazione devono cercare di soddisfare parzialmente tutti i vari interessi sociali tra loro in conflitto ha fatto sì che negli Stati Uniti i gruppi di interesse vengano direttamente coinvolti nel processo decisionale della pubblica amministrazione. In Europa paesi come la Svezia hanno avuto un ruolo pionieristico per quanto riguarda la partecipazione congiunta di imprenditori e lavoratori alla definizione della politica economica nazionale. In generale gli Europei si sono mostrati più restii degli Americani a riconoscere apertamente che molte scelte fondamentali dell'amministrazione sono determinate in larga misura non già dal diritto o dalla scienza, bensì da una costante negoziazione tra il governo e gli interessi di diverse categorie - lavoratori, imprenditori, agricoltori e altri. Tuttavia in molti settori degli Stati Uniti l'azione pubblica è più vincolata da norme giuridiche ed è meno il frutto di negoziazioni informali di quanto non avvenga in Europa; ne è un esempio particolarmente significativo la politica ambientale. Un processo decisionale di tipo incrementale, basato sulla negoziazione, naturalmente è ampiamente discrezionale, perlomeno nei limiti posti dal diritto e dalle considerazioni di ordine tecnico. Senza la possibilità di effettuare valutazioni discrezionali, ossia senza la libertà di cercare soluzioni di compromesso, di passare da una posizione all'altra, le parti non possono negoziare.
Recentemente la teoria incrementalista è stata sottoposta a una revisione critica da due diversi orientamenti, che attribuiscono alla discrezionalità un'importanza assai maggiore. Da un lato l'incrementalismo viene accusato di essere eccessivamente attaccato allo status quo e alla politica dei piccoli passi, laddove spesso si rendono necessari interventi di maggior portata e più continui. Se i responsabili delle decisioni devono prendere in considerazione anche cambiamenti di ampio respiro oltre che piccoli cambiamenti, e se devono pensare a una modifica dello status quo anche quando non sorgono particolari problemi, il loro potere discrezionale aumenta anziché diminuire. Dall'altro lato viene imputata alla teoria incrementalista una sopravvalutazione delle proprie capacità di razionalizzazione. Nella realtà il ciclo a basso rischio - piccolo cambiamento-ripercussioni-ulteriore piccolo cambiamento - può rivelarsi una confortante illusione: è talmente difficile prevedere quale sarà il successivo stato delle cose che le decisioni politiche contengono in sé necessariamente una dose di rischio. La scelta di attenersi allo status quo e/o la politica dei piccoli interventi possono rivelarsi altrettanto rischiose della politica dei cambiamenti di ampia portata. Ciò è particolarmente evidente nel campo della politica estera. Ovviamente, se tutte le linee d'azione politica contengono in sé una dose di rischio, data l'imprevedibilità assoluta dell'evoluzione degli avvenimenti mondiali, chi scommette ha necessariamente un grande potere discrezionale.
Le teorie delle decisioni organizzative hanno dunque messo in discussione due modelli che cercano di limitare la discrezionalità, l'incrementalismo e il sinotticismo. Il primo afferma che chi esercita un potere discrezionale deve e dovrebbe limitarsi a piccoli cambiamenti. Il secondo, almeno in teoria, elimina completamente la discrezionalità affermando che per ogni problema decisionale esiste un'unica risposta corretta, e di conseguenza non esiste alcun potere di scelta discrezionale tra risposte alternative. È ormai chiaro, tuttavia, che il sinotticismo è prima di tutto impossibile da realizzare e in secondo luogo, se anche fosse realizzabile, comporterebbe dei costi impossibili; la politica dei piccoli passi sostenuta dall'incrementalismo, dal canto suo, non garantisce necessariamente il successo. Analogamente, il tentativo di sostituire alla discrezionalità amministrativa un insieme di norme e procedure giuridiche vincolanti, secondo una tendenza che ha avuto il suo culmine negli Stati Uniti, è soggetto a critiche sempre più frequenti. Tale tentativo infatti può solo trasferire la discrezionalità dalle autorità amministrative ai giudici, e può rendere il processo decisionale lento, poco snello e farraginoso, laddove i problemi del mondo richiedono un'azione più rapida, efficiente e fondata sulla cooperazione. Si fa sempre più sentita l'esigenza di avere 'meno legge e più negoziazione e mediazione', il che comporta inevitabilmente l'attribuzione di un maggior potere discrezionale ai negoziatori. Soprattutto per quanto riguarda la politica ambientale, inoltre, si invoca da più parti un approccio di tipo europeo, caratterizzato da un uso minore di norme giuridiche, da un maggior potere discrezionale attribuito all'esecutivo e da una negoziazione discrezionale meno vincolata, meno 'ufficiale' dal punto di vista formale, tra la pubblica amministrazione e i rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori. Sebbene gli studi in materia di pubblica amministrazione, sia in Europa che negli Stati Uniti, abbiano sempre dato maggior risalto alle norme che alla discrezionalità, gli studi nel campo dell'amministrazione aziendale hanno sempre messo in rilievo la leadership dell'esecutivo, che implica un notevole potere discrezionale. Lo stesso vale per la letteratura politica sull'attività del Consiglio dei ministri e del Consiglio presidenziale.
Se negli Stati Uniti si registra un crescente interesse nei confronti della contrattazione discrezionale, nell'Est europeo per contro si fa sempre più viva l'esigenza di porre vincoli normativi al potere discrezionale. Finché si continuò a prestar fede alla pretesa del Partito comunista di prendere decisioni scientificamente corrette, la questione della discrezionalità non si poneva, così come accadeva nei modelli sinotticistici occidentali. Allorché tale pretesa venne a cadere, divenne chiaro che l'autorità politica incondizionata rivendicata dal partito equivaleva alla rivendicazione di un potere discrezionale totale e illimitato. Gli Stati dell'Europa dell'Est hanno cominciato un processo di ricostruzione dei sistemi giuridici per limitare la discrezionalità del governo. Lo sviluppo del sindacato di costituzionalità nell'Europa occidentale e il crescente interesse manifestato per la possibilità di utilizzare il diritto amministrativo come mezzo per l'attuazione dei diritti umani costituiscono ulteriori passi in questa direzione. Resta una questione ancora aperta se le corti inglesi e i tribunali amministrativi dell'Europa occidentale, specialmente quelli francesi, abbiano conservato il loro atteggiamento relativamente passivo nei confronti della discrezionalità amministrativa o se il loro controllo degli atti amministrativi sia diventato effettivamente più efficace e incisivo. È particolarmente difficile capire quale sia il ruolo attuale del Consiglio di Stato francese, il quale è virtualmente il tribunale amministrativo più potente del mondo, ma nel periodo del dopoguerra non sembra aver funzionato con particolare attivismo.
La tensione tra legge e discrezionalità è quindi una caratteristica costante dell'amministrazione politica e aziendale, in quanto il mondo reale mette il responsabile delle decisioni di fronte a una molteplicità di situazioni nelle quali non esiste un'unica risposta corretta e la scelta tra alternative incerte diventa inevitabile. In tali situazioni la discrezionalità è inevitabile, una valutazione equilibrata e razionale è auspicabile e determinati vincoli o limitazioni o direttive sono ritenuti essenziali da quanti credono nella democrazia e/o si oppongono all'arbitrio dell'autorità. I decenni immediatamente precedenti e successivi alla seconda guerra mondiale furono contrassegnati da un grande entusiasmo per la leadership, con le sue implicazioni di ampia discrezionalità. L'epoca successiva ha visto una notevole proliferazione di norme giuridiche costituzionali e amministrative e un crescente attivismo giurisdizionale nell'intento di limitare la discrezionalità dell'esecutivo politico e dei burocrati. Poiché però continua a sussistere l'esigenza che la pubblica amministrazione agisca in modo dinamico in risposta ai problemi economici, ambientali e relativi alla sicurezza, ci si chiede sino a che punto sia opportuno spingersi nel porre delle limitazioni alla discrezionalità. (V. anche Amministrazione pubblica).
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