Abstract
Le disposizioni di cui ai tre commi dell’art. 41 Cost. sottolineano la dimensione pubblicistica dell’attività commerciale: come in altri ambiti, anche in tale settore vi è una disciplina di regolazione che attraverso atti legislativi e amministrativi condiziona l’impresa privata nello scambio di beni e servizi. Nondimeno, l’attività commerciale deve essere libera e aperta alla concorrenza tra operatori. Ciò è ancor più accentuato dalla diffusione di mercati aperti come quello europeo e quelli globali. L’approccio dominante, in tali ambiti, è quello che tutela il free-trade; e tuttavia, non mancano forme di regolazione a tutela degli interessi generali.
Il “commercio” consiste in quel complesso di operazioni poste in essere dagli intermediari allo scopo di far pervenire le merci dai produttori ai consumatori (Zanobini, G., Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1958-59, 480 ss.). Si divide in interno e internazionale e in commercio all’ingrosso e al minuto. In tale definizione – ancora attuale, come confermano le disposizioni dell’art. 2195 c.c. e dell’art. 4, co. 1, lett. a) e b), d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 – manca un riferimento all’«europeizzazione» e alla «globalizzazione»: queste si incentrano su sistemi di mercato aperto, con scambi commerciali liberi, concorrenza tra gli operatori e norme comuni per regolare e limitare l’intervento pubblico nel settore. L’extra-territorialità dei mercati, come si vedrà, incide in modo significativo sulla disciplina pubblicistica del commercio, che si sviluppa quindi su più livelli: in ambito nazionale e, segnatamente, extra-nazionale, cercando un equilibrio tra il favor – particolarmente accentuato – per il free-trade e la concorrenza e la tutela di interessi pubblici in conflitto, ancora sottorappresentati (D’Alberti, M., Poteri pubblici, mercati e globalizzazione, Bologna, 2008, 116 ss.).
La disciplina pubblicistica del commercio costituisce una forma di intervento pubblico nell'economia che, tramite atti legislativi e di regolazione generale e specifica (divieti, autorizzazioni, controlli, sanzioni, ecc.), impone limiti all'attività di impresa a tutela di interessi pubblici attinenti all'utilità sociale, alla sicurezza, alla salute. Inoltre, sebbene in misura assai minore rispetto al passato, le autorità pubbliche adoperano altresì strumenti di programmazione e controllo, finalizzati alla cura degli interessi generali (Giannini, M.S., Diritto pubblico dell'economia, Bologna, 1993,179 ss.).
Per quanto appena esposto, la disciplina del commercio, non limitandosi a favorire gli scambi di beni e servizi, ma avendo lo scopo di limitare le market failures e di tutelare gli interessi pubblici – «l’utilità sociale» di cui al co. 2 dell’art. 41 Cost. –, mira a raggiungere un difficile bilanciamento tra le numerose istanze presenti in un sistema di mercato aperto in cui interessi generali, principi e regole non sono esclusivamente nazionali, ma sovente europei o globali.
Il co. 1 dell’art. 41 Cost. recita: «l'iniziativa economica privata è libera». L’attività commerciale rientra nel concetto di iniziativa economica e come tale è posta al riparo da vincoli e limitazioni non giustificati. Tale libertà – «verticale», giacché tutelata nei confronti dello Stato (così Irti, N., Introduzione. Diritto e mercato, in AA.VV., Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1999, XVIII) – incontra i limiti di cui al co. 2 del medesimo articolo: «non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Pertanto, le limitazioni sono ammesse quando la libertà di iniziativa commerciale possa recare un pregiudizio all’utilità sociale o entri in conflitto con gravi e preminenti motivi di interesse pubblico, che la Costituzione stessa specifica ulteriormente con riferimento a sicurezza, libertà e dignità (sul tema Orlando, A., Il Commercio, in Cassese, S., a cura di, Trattato di diritto amministrativo, pt. spec., IV, Milano, 2003, 3533).
Le categorie su cui basare le eccezioni al libero commercio sono piuttosto ampie e lasciano un discreto margine interpretativo e di manovra al regolatore. E tuttavia, la discrezionalità nel bilanciamento degli interessi, o anche solo nell’individuazione di quelli ritenuti prevalenti, è condizionata dalle policy e dagli orientamenti regolativi adottati a livello sovranazionale, che intervenendo sull’allocazione delle competenze decisionali complicano il quadro valoriale e teleologico di riferimento e riducono il potere di scelta delle autorità domestiche. Non solo, le prerogative sovranazionali nella regolazione di tale settore sono confermate dal fatto che, seppur l’attività commerciale sia ricondotta al più generale concetto di libertà di iniziativa economica, la Costituzione italiana non dà alcuna nozione di mercato, né disciplina le relazioni tra imprenditori e consumatori: questi aspetti, viceversa, sono regolati in modo dettagliato dalle norme ultra-statali, su tutte quelle contenute nei Trattati e nella legislazione ordinaria dell’Ue.
Il co. 3 dell’art. 41 Cost. concerne più propriamente la regolazione concreta dell’attività commerciale mediante la programmazione, con l’obiettivo di indirizzarla a fini sociali: «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Questo comma individua un sistema dirigistico che molti ritengono inattuato nell’ordinamento italiano, giacché i piani e i programmi previsti ad esempio dalla l. 11.6.1971, n. 426, non hanno mai trovato vera applicazione (Orlando, A., Il Commercio, cit., 3548 ss.). Ciò, peraltro, è coerente con un’interpretazione dell’art. 41, per la quale, tenendo conto di tutti e tre i commi, «risulta evidente da un lato come la programmazione non possa essere onnicomprensiva, nemmeno sotto un profilo di indirizzo, atteso che altrimenti si entrerebbe in contrasto con il primo comma, che sancisce invece, come valore primario, la libertà di iniziativa economica privata; dall’altro, e per conseguenza, che l’intervento programmatico e di controllo sia ammesso solo davanti a specificità concrete di fini sociali che necessitano tutela» (Libonati, B., in AA.VV., Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, cit., 128). A conferma, è stato notato come la formula «fini sociali» possa essere considerata «anodina, neutra, tale da non escludere che all’interno dei «fini» medesimi possa celarsi la libera concorrenza come «fine sociale» tout court, ovvero come «principio-mezzo» per il raggiungimento di quei fini sociali, che di tempo in tempo la volontà politica del legislatore ordinario ritenga di individuare e preferire» (Draghi, M., in AA.VV., Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, cit., 90).
Con riferimento a tale ultima interpretazione, la natura extraterritoriale del commercio incide sulla scelta dei «principi-mezzi» per il raggiungimento dei fini sociali: il legislatore ordinario, vincolato dai patti sottoscritti al di là dei confini nazionali, è tenuto a privilegiare la concorrenza e il free-trade, come previsto dal diritto sovra-statale. Di qui, lo stesso istituto della programmazione di cui al co. 3 dell’art. 41 risulta ulteriormente ridimensionato.
L’art. 117 Cost. non annovera il «commercio» tra le materie di competenza statale, né esclusiva né concorrente: la competenza in tale ambito è quindi attribuita alle Regioni, che, anche in ossequio alle norme del d.lgs. n. 114/1998, disciplinano l’insediamento delle attività commerciali, l’adozione delle norme urbanistiche riferite al settore commerciale, la programmazione degli insediamenti. Nondimeno, lo Stato mantiene una serie di poteri, proprio grazie alla disposizione di cui alla lett. e) del co. 2 del medesimo art. 117 Cost., che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la «tutela della concorrenza». Tale espressione, come confermato da costante e copiosa giurisprudenza costituzionale (ex multis: C. cost. 23.6.2010, n. 270; 8.2.2010, n. 45; 18.5.2009, n. 160; 23.11.2007, n. 401; 10.12.2007, n. 430, tutte in www.giurcost.org), «riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche» (C. cost., 11.3.2013, n. 38, par. 2, Considerato in diritto, in www.giurcost.org).
La lettura della Consulta suggerisce tre valutazioni.
In primo luogo, la Corte sostiene che la tutela della concorrenza riflette l’impostazione del diritto dell’Ue. Si ha quindi conferma del fatto che lo Stato, nel tutelare la concorrenza con interventi di regolazione e vigilanza che limitino ed eliminino gli atti anticoncorrenziali, deve seguire l’approccio e l’orientamento europeo, che stabilisce principi e regole e detta le linee operative per l’intervento pubblico in tale ambito.
In secondo luogo, e in collegamento col punto precedente, la tutela della concorrenza non è solo vigilanza sugli operatori, ma anche promozione di un mercato aperto e senza barriere: non vi sono solo poteri di vigilanza e controllo su privati, ma anche obblighi e oneri di intervento a fini pro-concorrenziali, eliminando barriere e vincoli e favorendo l’iniziativa commerciale. Ciò mette in luce un aspetto significativo della regolazione pubblica del commercio, ossia la sua finalità pro-concorrenziale e market-oriented, coerente con la citata interpretazione dell’art. 41 Cost.: i limiti all’iniziativa economica finalizzati all’«utilità sociale» sono anche quelli volti a garantire un’adeguata concorrenza tra gli operatori.
Infine, proprio grazie a tale duplice nozione di concorrenza, l’art. 117, co. 2, lett. e) restituisce al Governo un significativo potere regolatorio sulla materia del commercio. Questa può essere oggetto di interventi e di programmazioni da parte delle Regioni, ma sempre senza superare i limiti pro-concorrenziali, o volti a tutelare interessi generali, stabiliti a livello centrale.
La norma di riferimento in tema di disciplina del commercio è il d.lgs. n. 114/1998 che ha sostituito la l. n. 426/1971. Quest’ultima si basava sull’idea di una forte regolazione statale, caratterizzata dalla pianificazione (con l’adozione del piano di sviluppo e adeguamento del commercio, in verità, come detto, poco attuato) e dal Registro degli esercenti del commercio (REC). La ratio di fondo della l. n. 426/1971 risiedeva nella prevalenza dell’intervento dello Stato nelle attività commerciali, a detrimento sia degli enti territoriali e dei poteri a essi delegati, sia della libertà di iniziativa privata, e con numerose barriere alla concorrenza e alla libertà dei traffici commerciali. La forte presenza statale era tuttavia giustificata dalla necessità di curare gli interessi pubblici in conflitto con le esigenze del commercio e di rispettare il dettato costituzionale, ossia indirizzare l’impresa privata al perseguimento di fini sociali.
Il d.lgs. n. 114/1998 segue invece un nuovo approccio, rispetto alla legge n. 426/1971: in modo chiaro ed esplicito, il decreto mira alla liberalizzazione dei traffici commerciali, al decentramento dei poteri e alla semplificazione procedurale a favore della libertà di impresa; e si avvale «di un convergente indirizzo dell’ordinamento comunitario a sostegno della libera circolazione delle merci e della libertà di concorrenza» (Cintioli, F., Commercio e liberalizzazione, in Lotito, P.F., a cura di, Il commercio tra regolazione giuridica e rilancio economico, Torino, 2012,93). Il REC viene abolito e i poteri di pianificazione sono inseriti nell’ambito della pianificazione urbanistica.
Sebbene entrambi gli interventi legislativi citati muovessero da idee analoghe, tese a migliorare l’efficienza distributiva e la qualità dei prodotti offerti al consumatore sul mercato (Mazzarini, L., Commercio, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2005), gli strumenti per il perseguimento di tali obiettivi sono distinti. Mentre nel primo caso si ha una presenza significativa del pubblico, che interviene nelle questioni economiche secondo un disegno di politica economica, condizionando scelte e attività degli operatori commerciali; nel secondo si segue l’idea secondo cui la regolazione «tenta di garantire i mercati ancor prima dei mercanti», ancorché con l’idea di non lasciare privi di tutela «alcuni aspetti “sociali”, come le esigenze dei consumatori» (D'Alberti, M., La tutela della concorrenza in un sistema a più livelli, in Dir. amm., 2004, 705 ss.).
Questa impostazione, che si diffonde in special modo nell’ultimo quarto del secolo scorso e si sviluppa e afferma in modo definitivo con la globalizzazione dei mercati e la creazione dell’Ue, presta il fianco a critiche, con riferimento alla sua debolezza nell’addivenire a un equilibrio stabile tra libertà economiche e benessere diffuso. Infatti, i vantaggi della concorrenza e le opportunità di crescita economica dettate dalla libertà di iniziativa e di spostamento incontrano i propri limiti nella race to the bottom qualitativa per guadagnare nuovi mercati, nelle market failures che aumentano i rischi per ambiente, salute e condizioni sociali e nella standardizzazione dell’offerta a danno di culture e tradizioni legate al territorio e alle aree geografiche.
Come è stato notato, la riforma del 1998 trova il suo fondamento nella necessità di modificare il bilanciamento tra libertà di impresa e regolazione, accentuando il primo aspetto e riducendo il secondo. In secondo luogo, si pone l’obiettivo di decentrare alcuni poteri regolatori, affidati quindi alle regioni. Infine, mira a semplificare le procedure che governano la disciplina amministrativa di tale settore, intervenendo ad esempio su alcuni istituti procedimentali previsti dalla l. 7.8.1990, n. 241 (Cintioli, F., Commercio e liberalizzazione, cit., 89-90).
L’art. 1, co. 3, d.lgs. n. 114/1998 individua le finalità della normativa in parola:
«a) la trasparenza del mercato, la concorrenza, la libertà di impresa e la libera circolazione delle merci;
b) la tutela del consumatore, con particolare riguardo all'informazione, alla possibilità di approvvigionamento, al servizio di prossimità, all'assortimento e alla sicurezza dei prodotti;
c) l'efficienza, la modernizzazione e lo sviluppo della rete distributiva, nonché l'evoluzione tecnologica dell'offerta, anche al fine del contenimento dei prezzi;
d) il pluralismo e l'equilibrio tra le diverse tipologie delle strutture distributive e le diverse forme di vendita, con particolare riguardo al riconoscimento e alla valorizzazione del ruolo delle piccole e medie imprese;
e) la valorizzazione e la salvaguardia del servizio commerciale nelle aree urbane, rurali, montane, insulari».
La norma citata detta un elenco molto ampio, quasi omnicomprensivo: la disciplina che regola il commercio, seppur assicurando la libertà di impresa e circolazione e promuovendo la concorrenza, deve offrire al consumatore una serie di tutele (informazione, facilità di accesso, sicurezza), deve assicurare l’efficienza della rete distributiva, anche al fine di mantenere bassi i prezzi, garantire il pluralismo con un favor per le piccole e medie imprese, valorizzando il servizio commerciale in aree geografiche differenti. Il perseguimento di tali finalità è, in alcuni casi, raggiunto tramite il mercato e l’applicazione di norme tecniche ed economiche; in altri, viceversa, richiede un intervento regolatorio più incisivo, a limitazione della libertà individuale. Ciò attribuisce un peso determinante all’orientamento politico-amministrativo che presiede la regolazione del commercio, con decisioni attinenti alla scelta se intervenire o meno e alle misure regolatorie da adottare, a loro volta inevitabilmente caratterizzate da discrezionalità amministrativa, quando non politica.
Ad esempio, quando il regolatore è chiamato a decidere sulla sicurezza di un prodotto destinato al consumo alimentare, deve scegliere se sia più utile affidarsi al mercato e alla competizione tra operatori, se limitare l’intervento alla previsione di meccanismi informativi per i consumatori o se dare vita a misure di regolazione command and control, magari disponendo un divieto di commercializzazione di determinati prodotti sulla base del principio di precauzione (sui diversi modelli di regolazione si veda La Spina, A.–Espa, E., Analisi e valutazione delle politiche pubbliche, Bologna, 2001).
Nondimeno, questa stessa discrezionalità è limitata e costretta entro i margini di principi e regole procedurali, finalizzati a scongiurare l’arbitrio e a ridurre allo stretto necessario l’intervento pubblico nel mercato. Qualunque sia la decisione, il regolatore dovrà motivarla in modo adeguato e, con molta probabilità, basandosi su giustificazioni connaturate da valutazioni di natura tecnico-scientifica. E la stessa misura regolatoria dovrà essere adottata in modo trasparente, secondo ragionevolezza e proporzionalità, nonché assicurando la partecipazione degli interessati. La regolazione pubblica è presente, ma è limitata e condizionata dal rispetto di principi, procedure e regole formali di diritto amministrativo.
Un secondo aspetto importante del decreto legislativo in parola attiene al richiamo che lo stesso fa sia dell’art. 41 Cost., sia della legge sul diritto antitrust, sancendo quindi la combinazione dei due disposti normativi come fonti primarie della disciplina del commercio. L’art. 2, infatti, stabilisce che «l'attività commerciale si fonda sul principio della libertà di iniziativa economica privata ai sensi dell'articolo 41 della Costituzione ed è esercitata nel rispetto dei principi contenuti nella legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato». In tale disposizione ci sono la ratio e la finalità che condizionano l’intera normativa – e l’attività regolatoria che ne consegue –, ossia la promozione della libertà di iniziativa privata e della concorrenza. La discrezionalità che si concede alle autorità chiamate a vigilare sul commercio e a disciplinarne lo svolgimento è limitata, già in origine, non solo dai requisiti di natura procedurale, ma anche da questi due valori, che connaturano fin dal principio la normativa che governa la materia in parola.
Il d.lgs. n. 114/1998 consta di una serie di disposizioni volte a disciplinare diverse fattispecie: stabilisce i requisiti per l'esercizio dell'attività commerciale e, in particolare, dell'attività di vendita al dettaglio sulle aree private in sede fissa; regola gli orari di vendita e le condizioni base per l’offerta di vendita, all’ingrosso o al dettaglio e in forme speciali; individua le sanzioni in caso di trasgressioni della normativa e detta, infine, le condizioni per il commercio al dettaglio su aree pubbliche.
La normativa in parola ha, come detto, l’obiettivo di ridurre in modo considerevole l’intervento pubblico nel commercio, che dovrebbe essere limitato ai piani urbanistici delle Regioni e alla tutela di interessi sensibili, come l’ambiente, il paesaggio o i beni storico-artistici. Tuttavia, affidando alle Regioni la cura di interessi qualificati potenzialmente in conflitto con la libertà commerciale, non ha scongiurato in modo definitivo il rischio di un modello dirigistico: le finalità di politica economica continuano a essere presenti, giacché sono perseguite, peraltro in modo diverso a seconda della Regione, mediante lo strumento della pianificazione urbanistica (in tal senso Cintioli, F., Commercio e liberalizzazione, cit., 96-97). A limitare la frammentazione della regolazione e la sua spinta in senso dirigistico, è intervenuta in più occasioni la Corte costituzionale, nel senso già anticipato supra, § 2, mentre si è registrato un orientamento di segno opposto in capo alla giurisprudenza amministrativa, che ha sovente avallato l’approccio interventista delle regioni (Ibidem, 103 ss.).
La disciplina contenuta nel d.lgs. n. 114/1998 è stata ritenuta ancora poco soddisfacente, perché offre poca certezza giuridica a operatori e consumatori e non è in grado di pervenire a un equilibrio tra intervento pubblico necessario e liberalizzazione delle attività commerciali. Di qui, il legislatore è intervenuto nuovamente sulla materia: con l’art. 3 del d.l. n. 223/2006, convertito con modificazioni dalla l. 4.8.2006, n. 248 e con l’art. 31 del d.l. 6.12.2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla l. 22.12.2011, n. 214, ha rilanciato la libertà del mercato e la concorrenza, condizionando altresì l’orientamento giurisprudenziale, che si è spostato su posizioni maggiormente trade-oriented.
L’art. 3 del d.l. n. 223/2006 abolisce una serie di limiti e prescrizioni afferenti le attività economiche di distribuzione commerciale e si richiama alle «disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi […] al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m), della Costituzione».
Il citato art. 31 del d.l. n. 201/2011 dispone, al co. 2, che «secondo la disciplina dell'Ue e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell'ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente e dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
In entrambe le disposizioni si rinvengono: un richiamo al diritto dell’Ue e un favor per la concorrenza e la liberalizzazione dei traffici commerciali. Nel primo caso, con un esplicito riferimento alla Costituzione, che ripristina la centralità dello Stato in chiave pro-concorrenziale; nel secondo, con la prescrizione, diretta a Regioni ed enti locali, di adeguamento dei propri ordinamenti a tale norma. Grazie al diritto e all’approccio orientato al libero mercato degli ordinamenti sovranazionali, anche la legislazione statale segue un disegno regolatorio più pro-concorrenziale e market-oriented.
Può dirsi, quindi, che «la vigente normativa sul commercio è il prodotto di una pluralità di materiali normativi, di attori differenti e posti ai diversi livelli nella gerarchia delle fonti» (Argiolas, B., Commercio, in Il diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, diretto da S. Patti, III, Milano, 2007, 328). Infine, oltre alle fonti nazionali e locali, si devono aggiungere anche quelle di natura extra-nazionale.
Come notava Adam Smith nel par. 15 del cap. II del Libro IV de La ricchezza delle nazioni, «per mezzo di vetrate, letti caldi e serre, in Scozia si può coltivare ottima uva da cui si può pure ottenere dell’eccellente vino a circa trenta volte la spesa per la quale si può importare dall’estero uva e vino almeno altrettanto buoni. Sarebbe legge ragionevole quella che proibisse l’importazione di tutti i vini esteri soltanto per incoraggiare la produzione del chiaretto e del borgogna in Scozia?» (Smith, A., An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), in Bagiotti, A.-Bagiotti, T., a cura di, La ricchezza delle nazioni, Torino, 2013). È con questa provocatoria riflessione che può sintetizzarsi l’origine della teoria dei vantaggi comparati: rielaborata da David Ricardo e da altri economisti, costituisce il fondamento del libero mercato internazionale, e quindi anche dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e dell’Ue. Tale teoria si basa sull’idea che finché un paese ha certi vantaggi nella produzione di un bene e un altro ne è privo, sarà sempre più conveniente per l’ultimo acquistare dal primo anziché produrre in autarchia; e per entrambi scambiarsi beni rispettivamente prodotti con maggiore efficienza. Come si vedrà immediatamente, la teoria dei vantaggi comparati costituisce la ratio che ispira la disciplina del commercio nel diritto dell’Ue.
L’art. 3, co. 3, del TUE stabilisce l’instaurazione di un mercato interno che si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, ed è «basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente». La norma citata ha carattere generale e intenti di natura teleologica e programmatica; e disegna un modello sociale di natura mista: fortemente incentrato sul mercato e sulla libertà, ma con l’idea che questi siano gli strumenti più adatti per raggiungere lo sviluppo sostenibile, il progresso sociale, la tutela dell’ambiente e la piena occupazione.
Il modello economico su cui si incentra l’Ue è al tempo stesso «sociale» e competitivo. Ecco perché l’approccio adottato dai costituenti europei intende costruire un sistema regolatorio che incentivi e tuteli la libertà commerciale e la concorrenza, ma fissando limiti e consentendo eccezioni per la tutela di interessi sociali concorrenti (ambiente, salute, diritti dei lavoratori, ecc.). Di qui, è necessario osservare come tale modello si articola e sviluppa nelle norme che governano direttamente tali aspetti.
A tal proposito, occorre in primo luogo citare gli artt. 3, 28, 32, 34, 35, 36, 101 e 102 del TFUE. Il primo sancisce, alla lett. e) del co. 1, la competenza esclusiva dell’Ue in tema di politica commerciale: come notato, la governance del commercio è di competenza esclusiva sovranazionale e gli Stati membri sono chiamati ad adeguarvisi e a seguire l’orientamento e le regole del diritto europeo.
Gli artt. 28, 32, 34, 35 e 36 disciplinano la libera circolazione delle merci, favorendo l’unione doganale tra gli Stati, stabilendo che la Commissione si ispiri alla necessità di promuovere gli scambi commerciali e la concorrenza e prevedendo specifiche e limitate eccezioni alle libertà di movimento di beni e servizi. In particolare, gli artt. 28, 34 e 35 dispongono il divieto, fra gli Stati membri, dei dazi doganali all'importazione e all'esportazione, di qualsiasi tassa di effetto equivalente, come pure l'adozione di una tariffa doganale comune nei loro rapporti con i paesi terzi e di restrizioni quantitative all'importazione. Con tali norme – rivelatesi negli anni fondamentali per lo sviluppo del mercato unico europeo e della stessa Unione – si abbattono le barriere nel commercio tra gli Stati. Ne consegue che la stessa disciplina pubblicistica che regola la materia in parola a livello nazionale risulta condizionata dal diritto Ue e dalla sua interpretazione, costantemente restrittiva: diminuiscono così i poteri di regolazione in capo alle autorità nazionali che, se non vi sono valide eccezioni, non possono chiudere il loro mercato ai prodotti provenienti da altri Paesi e devono quindi aprirsi alla concorrenza di questi ultimi, a favorire – secondo la teoria dei vantaggi comparati – i consumatori.
Al contempo, l’art. 36 stabilisce le eccezioni, consentendo agli Stati di adottare divieti o restrizioni all'importazione, all'esportazione e al transito, purché giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Anche quella appena citata costituisce una norma strategica nello sviluppo dell’integrazione europea: l’armonizzazione delle norme e l’apertura dei mercati incontrano dei limiti lì dove siano minacciati alcuni interessi fondamentali ritenuti prevalenti; in tali casi, riprende vigore il potere regolatorio degli Stati, che può quindi derogare alle norme comuni. Le misure restrittive, tuttavia, devono essere motivate e giustificate e possono essere oggetto di contestazione davanti a un organo giudiziario. Anche in tal caso, come anticipato, i principi e le norme di diritto amministrativo governano, limitandola, l’attività di regolazione pubblica.
Gli artt. 101 e 102 riguardano nello specifico la tutela della concorrenza e definiscono le azioni che, restringendo la concorrenza o arrecando un pregiudizio al mercato, sono vietate dal diritto dell’Ue. In tale ambito il diritto europeo stabilisce altresì le procedure e i criteri decisionali per l’attività concreta a tutela della concorrenza.
Sulla base delle citate norme di natura fondamentale, contenute nei Trattati istitutivi, si è sviluppata una copiosa legislazione ordinaria, che disciplina in dettaglio i singoli settori, segnatamente quelli in cui sono rinvenibili le condizioni per derogare al free-trade. Così, ad esempio, le norme a tutela della salute, dell’ambiente e della sicurezza dei prodotti alimentari, hanno previsto e disciplinato l’applicazione del principio di precauzione, che consente alle autorità pubbliche di optare per una misura restrittiva temporanea basandosi sull’incertezza scientifica e sulla possibilità di un rischio per la salute, purché adeguatamente motivata e giustificata nel rispetto dei principi di imparzialità, ragionevolezza e proporzionalità (art. 7, Reg. (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28.1.2002).
In altri ambiti, come nel commercio dei servizi, la Dir. 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12.12.2006, stabilisce un quadro giuridico generale volto a tutelare la libertà di stabilimento e di circolazione dei servizi, con l’obiettivo di favorire il commercio in tale settore per rafforzare i diritti dei destinatari dei servizi in quanto utenti degli stessi; promuoverne la qualità incrementando la concorrenza tra gli operatori; rafforzare la cooperazione e l’armonizzazione amministrativa tra gli Stati membri in tale settore.
Le norme che attengono al commercio, nel diritto globale (Cassese, S., Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino, 2009, passim), sono rinvenibili, essenzialmente, nei trattati istitutivi dell’Omc. Questi, oltre a dar vita e disciplinare il funzionamento dell’Organizzazione, stabiliscono una serie di norme che «regolano i regolatori», perché stabiliscono principi, condizioni, procedure e limiti cui devono attenersi le autorità nazionali nella governance dei traffici commerciali e dei settori da questi coinvolti. Il compito principale dell’Omc è quello di favorire lo sviluppo del commercio mondiale attraverso l’attuazione e il funzionamento degli accordi commerciali (artt. II e III dell’Agreement Establishing the World trade organization).
Come nel diritto europeo, la ratio è quella di liberalizzare lo scambio di beni e servizi: abbattendo dazi e barriere di natura statale; stabilendo norme comuni per garantire – inter alia – l’uguaglianza formale tra i Paesi membri e, quindi, tra gli operatori; favorendo la concorrenza. Il fine è il miglioramento del benessere generale del mondo. Anche in tal caso vi è un’analogia con il modello europeo: l’ottimale utilizzo delle risorse e degli scambi commerciali è coerente con la visione per cui il free-trade è solo uno strumento per raggiungere il benessere. A conferma, il Preambolo dell’Accordo istitutivo, già citato, include lo sviluppo sostenibile tra le diverse finalità dell’Omc:«the optimal use of the world’s resources in accordance with the objective of sustainable development».
Tuttavia, la differenza fondamentale con l’ordinamento europeo, si rinviene proprio nel fatto che l’attuale modello di governance globale del free-trade è ancora troppo market-oriented, per cui la liberalizzazione degli scambi commerciali è a oggi ancora configurabile come un fine in sé, piuttosto che come uno strumento per migliorare il benessere della popolazione mondiale. L’Omc e i suoi organi istituzionali (il General Council con poteri normativi e il Dispute Settlement Body, con poteri di aggiudicazione di controversie, tra gli Stati membri) sono orientati e si basano su norme volte a tutelare la libertà degli scambi commerciali, piuttosto che altri eventuali interessi concorrenti (come la salute o l’ambiente). Ciò risponde a una logica condivisa e coerente, trattandosi di un’organizzazione fondata su trattati a carattere settoriale e a competenza specifica. Tuttavia, ancorché il commercio sia «la miglior resistenza all’arbitrio» e lo strumento più efficace a riavvicinare le nazioni (Constant, B., Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Roma, 1992, 30), lo stesso rivela – in mancanza di meccanismi di composizione e bilanciamento e per via del fatto che la tutela degli interessi deboli non ha raggiunto lo stesso livello di armonizzazione giuridica – una natura «cannibale» nei confronti di altri beni giuridici a esso collegati.
Al momento, l’integrazione dei diversi interessi – molti dei quali a carattere generale, come salute, ambiente o tutela dei lavoratori – che entrano in conflitto con la liberalizzazione dei traffici commerciali globali, appare di difficile realizzazione, a meno di favorire la prevalenza di un settore sull’altro o di consentire forme di protezionismo non giustificate dal diritto internazionale. E a oggi, proprio l’esigenza di scongiurare il protezionismo e di eliminare le barriere commerciali finisce per sacrificare gli interessi concorrenti, riducendo il potere regolatorio delle autorità domestiche.
L’aporia che insorge nel conflitto tra sistema settoriale e sistema generale trova conferma nel confronto tra sistema globale e sistema europeo: nel primo la settorialità comporta una contrazione della composizione tra interessi e settori e la mancanza di un disegno unitario produce squilibri ed effetti di spill-over (per cui il settore del free-trade prevale sugli altri); nel secondo la tutela dei diversi interessi è coerentemente inserita nell’ordinamento generale, bilanciata già nelle norme dei trattati e permeabile ai principi generali che consentono un migliore equilibrio tra beni giuridici in conflitto. La multifinalità della regolazione coincide con la complessità del disegno costituzionale e amministrativo previsto e con la struttura organizzativa approntata. Nel sistema europeo gli interessi concorrenti con il libero commercio, non figurano come mere eccezioni o deroghe, ma costituiscono materie oggetto di apposite discipline, che comprendono anche le norme poste a garanzia dei traffici commerciali e volte a evitare pratiche protezionistiche.
I diritti economici, come le libertà di circolazione di merci, servizi e capitali e di iniziativa economica privata, sono avvantaggiati dal loro ruolo centrale nello sviluppo del diritto globale. Lo stadio maggiormente avanzato dei meccanismi giuridici internazionali predisposti per la loro tutela e l’affermarsi di principi e garanzie formali comuni – per scongiurare arbitrii e pratiche protezioniste da parte delle autorità pubbliche domestiche – hanno l’effetto di favorire la libertà individuale e la tutela dei privati, anche a discapito degli interventi di regolazione pubblica.
Nello spazio giuridico globale, ancor più che in ambito strettamente domestico, gli interessi sociali, a dispetto della loro natura generale, appaiono – e sono perciò definiti – deboli o sotto-protetti perché bisognosi di una tutela pubblica maggiormente incisiva rispetto alle libertà economiche. Il godimento di beni giuridici quali un ambiente sano o un’elevata tutela della salute ha bisogno di norme e strutture amministrative comuni, con poteri ispettivi e di controllo, e necessita della presenza di restrizioni, divieti e sanzioni. Si tratta quindi di diritti e interessi che non possono essere lasciati alle negoziazioni tra cittadini, ma che necessitano di interventi regolatori di natura pubblicistica. E ciò presenta limiti e problemi quando la regolazione è decisa a livello extra-nazionale, ma ha un impatto negli ordinamenti domestici. In special modo se si considera che le norme che tutelano il free-trade sono ormai comuni, mentre quelle finalizzate a tutelare gli interessi deboli sono ancora prevalentemente statali e quindi non omogenee. Di qui, in mancanza di una global governance a tutela di questi interessi, le misure di regolazione nazionali sono trattate sempre come eccezioni alla libertà commerciale; la quale, viceversa, costituisce la regola fondamentale attorno a cui si sviluppano la società e il diritto globale.
Per le ragioni appena esposte, le policy globali in tema di libera circolazione di merci, servizi e capitali condizionano le regolazioni interne. Queste, infatti, devono essere giustificate non solo ai sensi del diritto e dell’orientamento politico statali; ma anche in base a norme e indirizzi dettati a livello sovranazionale. Benché l’esecuzione finale e i poteri autoritativi siano ancora appannaggio delle autorità domestiche, il momento decisionale non è più esclusivo degli organi di governo nazionali: è a livello extranazionale che operano i poteri a effetto governativo, anche lì dove le autorità statali mantengono i propri poteri amministrativi in senso stretto (Sulla divisione tra «poteri governativi» e «poteri amministrativi» ci si rifà a Giannini, M.S., Diritto amministrativo, I, Milano, 1988, ora in Cassese, S., a cura di, Massimo Severo Giannini, Roma-Bari, 2010, 150).
Quanto appena descritto ha, da un lato, l’effetto di aumentare alcune garanzie procedurali a favore degli individui e a discapito dei poteri pubblici, limitando l’arbitrio e le politiche protezionistiche; dall’altro, riduce la discrezionalità delle amministrazioni domestiche, sottoponendola a indirizzi regolatori stabiliti a un livello di governo che presenta garanzie ridotte in termini di rappresentatività, pluralismo e accountability. Infine, riduce il margine di intervento per tutelare gli interessi deboli che entrano in conflitto con il free-trade.
La disciplina del commercio ha ormai luogo in uno spazio di regolazione divenuto mondiale, in cui la rigida dicotomia tra domestico e internazionale si fa sempre meno netta, nel quale le funzioni amministrative sono spesso esercitate mediante complessi interscambi tra funzionari e istituzioni operanti su diversi livelli e che si sviluppa sul crinale di un difficile equilibrio che deve essere raggiunto tra numerose dialettiche: intervento pubblico e libero mercato; tutela degli scambi commerciali e protezione degli interessi deboli; crescita economica e tutela dei consumatori; standardizzazione e protezione delle differenze.
Sono ancora irrisolti i problemi legati al bilanciamento tra interessi del free-trade e interessi generali sotto-protetti (ambiente, salute, ecc.). A questi si accompagna il problema di democratizzare, giustificare e armonizzare le scelte di regolazione a carattere discrezionale: solo se queste trovano una loro legittimazione sul piano del diritto, oltre che del consenso democratico, lo sbilanciamento tra libertà commerciale e interessi deboli può essere riequilibrato.
Gli ordinamenti globali, e in misura minore anche quello europeo, a fronte di problematiche relative alla legittimazione delle policy e delle norme adottate che condizionano le misure regolatorie, si basano sulla rappresentanza indiretta dei governi, sull’affidabilità delle norme tecniche, sul rispetto di principi e regole procedurali. Segnatamente, l’affermazione e lo sviluppo di tali principi e regole, ricavati dai diritti costituzionali e amministrativi domestici, possono incidere sulla disciplina pubblicistica del commercio, e sono in grado di renderla più equilibrata, plurale e imparziale.
Artt. 41 e 117, co. 2, lett. e), Cost.; art. 3, co. 3, TUE; artt. 3, 28, 32, 34, 35 36, 43, 101 e 102 TFUE; Dir. 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'8.6.2000; Reg. (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28.1.2002; Dir. 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12.12.2006; Marrakech Agreements dell’Omc; l. 11.6.1971, n. 426; d.lgs. 31.4.1998, n. 114; d.l. 4.7.2006, n. 223, convertito con modificazioni nella l. 4.8.2006, n. 248.
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