DIRITTO
(fr. droit; sp. derecho; ted. Recht; ingl. law).
Sommario: Filosofia del diritto, p. 983; Storia del diritto, p. 986; Etnografia e folklore: il diritto presso i primitivi, p. 987; Il diritto popolare, p. 987; Diritto comparato, p. 989; Diritto pubblico e diritto privato, p. 989; Diritto costituzioale, p. 991; Diritto amministrativo, p. 992; Diritto penale, p. 993; Diritto penale militare, p. 994; Diritto processuale civile, p. 994; Diritto processuale penale, p. 996; Diritto processuale penale militare, p. 997; Diritto civile, p. 997; Diritto commerciale, p. 998; Diritto canonico, p. 1001; Diritto canonico orientale, p. 1002; Diritto ecclesiastico, p. 1002; Diritto internazionale, p. 1003; Diritto internazoinale privato, p. 1005; Diritto penale internazionale p. 1006.
Per i diritti speciali, v. le voci singole, come: aeronautica; autore, diritto di; colonia: Il diritto coloniale; consuettudine; finanziario, diritto; marittimo, diritto; reale, diritto.V. pure: celti: Diritto; germani: Diritto; romani: Diritto, ecc. Per il diritto bellico, v. guerra: Diritto di guerra.
Filosofia del diritto.
La filosofia del diritto è quel ramo della filosofia dello spirito che studia il diritto come idea, cioè nella sua essenza, nel suo valore e fondamento ultimo. Il diritto ideale che forma oggetto della filosofia del diritto esprime ciò che vi è di universale nella vita storica e positiva del diritto. Le stesse soluzioni che negano l'esistenza d'un diritto ideale, di un criterio assoluto di giustizia, e si limitano a rilevare l'infinita varietà delle istituzioni giuridiche e le valutazioni empiriche in materia di giustizia, non possono sottrarsi a un'indagine filosofica sul fondamento del diritto. Il contrasto fra le esigenze ideali e quelle empiriche è il contrasto fondamentale della filosofia del diritto nel suo svolgimento storico. All'unità dell'assoluto e del relativo nella vita del diritto doveva pervenire la speculazione giuridica nella fase idealistica moderna.
La filosofia del diritto, che rientra nella filosofia generale, deriva da questa metodi, presupposti gnoseologici, principî fondamentali. Alle diverse soluzioni che del problema della realtà in generale furono date nei diversi tempi, corrispondono soluzioni diverse del problema filosofico del diritto. Sotto questo aspetto possiamo distinguere nella storia della filosofia del diritto tre fasi: a) la fase dell'antichità classica greco-romana in cui la realtà giuridica fu intesa come un aspetto della realtà naturale; b) la fase medievale in cui il diritto fu inteso come aspetto della realtà spirituale trascendente; c) la fase moderna idealistica in cui la realtà giuridica fu intesa come produzione del soggetto empirico o razionale.
a) Antichità classica. - I Greci ebbero profonda la fede in un ordine naturale estraneo e presupposto allo spirito. In tale ordine essi cercarono le ragioni e il fondamento del diritto, il criterio assoluto per valutare la giustizia delle istituzioni esistenti. Perciò il diritto apparve di preferenza ai Greci nel suo aspetto oggettivo, come una norma di condotta civile derivata dalla natura delle cose. Finché la natura fu intesa come un principio materiale e il soggetto non si distinse da essa come principio autonomo, il diritto si rivelò come un aspetto di quella fisica necessità che governa il mondo naturale. Perciò Eraclito poté definire la giustizia: "la fisica necessità che mantiene ogni cosa nel proprio ordine e nel proprio corso". E Pitagora modellò sull'ordine e armonia dell'universo i rapporti sociali. Ma già coi sofisti la fede nell'esistenza e nella intelligibilità di un ordine naturale è scossa, l'uomo empirico elevato a misura delle cose, l'origine umana, convenzionale della legge è affermata. Il diritto con Protagora si rivela come concetto di relazione, come un rapporto relativo tra le azioni e la legge positiva. Al diritto come relazione Socrate oppone il diritto come concetto. Non dubita Socrate dell'esistenza di una giustizia naturale; ma più che affermarla occorre intenderla, cioè tradurla in concetto, conoscerla nelle sue note universali e costanti. Il problema della giustizia si risolve per Socrate nel problema di conoscere ciò che è giusto in sé, indipendentemente dalle mutevoli opinioni umane. L'ingiustizia è vizio dell'intelletto, non della volontà. Socrate perviene al concetto di legalità, che è la giustizia nei suoi caratteri formali, ossia universali e necessarî e che come tale va rispettata indipendentemente dal suo contenuto. Morendo, Socrate rese omaggio al valore formale della giustizia.
Con Platone la natura diventa idea e il diritto una realtà ideale che l'uomo apprende con l'intelletto e attua nello stato. Giustizia e stato sono per Platone termini che si richiamano necessariamente. La sua repubblica è la celebrazione dell'idea eterna del giusto. La giustizia non è dell'uomo, ma dello stato. Essa è ordine, armonia, unità. Più che norma la giustizia è attività, è principio organizzatore dello stato, che attribuisce a ciascuno il suo, che impone a ogni classe sociale la sua funzione specifica. L'idea della giustizia non ha solo valore formale, non è un concetto che cerca fuori di sé il suo contenuto, ma è realtà e attività ideale che vive e si concreta nello stato. Il punto di vista naturalistico non è superato perché l'idea platonica è presupposta allo spirito, è oggettiva, non soggettiva. Ma è superato il concettualismo astratto di Socrate, poiché l'idea che l'intelletto sciolto dai vincoli del senso intuisce, è realtà concreta, principio di verità e di azione.
Con Aristotele la realtà naturale diventa l'unità della materia e della forma e passa, in virtù del moto, dalla potenzialità della materia alla varietà e molteplicità delle forme individuali. Se pertanto natura è attività degli esseri che si spiega secondo il loro fine, la giustizia naturale, cioè oggettiva, è attività dello stato che si spiega in ordine al bene e alla felicità comune. E questo è solo possibile se l'uguaglianza tra gli esseri che insieme convivono è rispettata e garantita. Soggettivamente considerata, la giustizia è l'abito di volere e operare ciò che è giusto nei rapporti con gli altri. Perciò Aristotele chiama la giustizia virtù intera e sociale, informando essa tutte le forme di attività umana in rapporto ad altri. La giustizia generale si specifica in forme particolari secondo l'indole e il fine dei rapporti ch'essa è chiamata a regolare. Le condizioni soggettive e oggettive del diritto sono da Aristotele analizzate; ma anche per lui la giustizia non è dell'uomo, ma dello stato, e questo a sua volta è istituzione naturale che sorge e si costituisce per educare con le leggi gli animi alla giustizia.
Con gli stoici il concetto di natura si confonde con la ragione immanente alle cose, per cui vivere secondo natura è vivere secondo questa ragione universale. Esiste pertanto un solo diritto, un solo stato, non circoscritti nell'ambito della πόλις, ma estesi a tutti gli uomini raccolti nella civitas omnium maxima sotto la stessa legge, senza distinzioni di classi, di condizioni sociali, di nazioni. Sennonché questa giustizia naturale oggettiva non è estranea all'uomo, anche se da lui non posta: dotato di ragione egli partecipa alla natura universale e può ricavare dalla sua stessa natura la legge comune. Il giusto oggettivo diventa il giusto soggettivo e per la sua razionalità la persona umana diventa sacra: homo homini res sacra. L'uguaglianza di natura genera una fratellanza tra gli uomini e tra i popoli, che preannunzia il cristianesimo.
La soggettivazione in senso empirico della legge naturale si accentua con gli epicurei, che la derivano dai bisogni, dalla tendenza alla felicità insita nella natura umana. In accordo con tale tendenza gli uomini creano lo stato e il diritto mediante un patto di reciproca garanzia. La natura, pertanto, invocata dai Greci a fondamento del diritto, da principio materiale si elevò col tempo a principio ideale e razionale fino a umanizzarsi e a individualizzarsi negli stoici e negli epicurei. D'altra parte l'idea del giusto, estranea dapprima e contrapposta all'uomo, andò col tempo soggettivandosi nelle forme del concetto e dell'idea in una prima fase, come esigenza della natura razionale e sensibile dell'uomo in una seconda fase. Ma anche nell'ultima più progredita fase, se l'uomo poté sciogliere l'idea del giusto dall'ordine politico, non riuscì a scioglierla dall'ordine naturale al quale egli stesso apparteneva e di cui rifletteva la legge e le finalità. Un processo inverso seguirono i Romani i quali intesero dapprima il loro diritto come comando della volontà diretta dall'utile e dalla necessità (ius civile), per intenderlo progressivamente come una norma di equità (ius aequum ac bonum), come norma rispondente alla comune natura umana (ius gentium), da ultimo come espressione della ragione umana in armonia con la ragione universale (ius naturale). Dovevano pertanto incontrarsi con gli stoici e con questi ricercare nella natura delle cose il fondamento del loro diritto.
b) Età medievale. - La filosofia del diritto doveva riflettere nel Medioevo la nuova concezione della vita e della realtà sorta col cristianesimo. Oggetto della speculazione non è più la natura impersonale, ma Dio concepito come pura spiritualità, come principio personale dotato d'intelligenza e di volontà infinita. L'umanità deve organizzarsi ai fini soprannaturali sotto la legge divina. Alla cui realizzazione più che lo stato coi mezzi del diritto, serve la chiesa con la sua gerarchia e coi suoi ordinamenti. Lo stato e il diritto hanno valore subordinato e strumentale, come le finalità temporali a cui servono. Dopo ciò si comprende come la speculazione giuridica medievale, più che a costruire nuovi sistemi e a spiegare e a giustificare le istituzioni positive, dovesse mirare a conciliare la vita religiosa con la necessità del diritto e dello stato, a inserire il mondo giuridico nell'organizzazione universale della chiesa. Fu una speculazione di compromesso nella quale uno degli elementi era il dogma cristiano, l'altro i sistemi di filosofia giuridica tramandati dall'antichità. Tra Platone e Aristotele (non potendosi pensare ad altri) la scelta cadde su Aristotele, la cui dottrina della giustizia e dello stato fu rivissuta in armonia col dogma cristiano.
La via fu aperta da S. Agostino il quale illustrò e difese la dottrina dell'incondizionata supremazia della chiesa sullo stato. La chiesa, come lo stato, costituisce una civitas, ma solo la civitas Dei è destinata da ultimo a trionfare. Lo stato si giustifica come mezzo necessario a garantire la pace esterna, terrena, che è la condizione per la quale la chiesa attua i suoi fini. Nella dottrina della pace si riassume l'aspetto più originale della filosofia del diritto di S. Agostino. Pace è per lui sinonimo di ordine, di armonia, di coordinazione delle parti col tutto. Ogni organismo ha un suo particolare interiore ordinamento per il quale esiste e si conserva: il corpo in rapporto alle sue membra (pax corporis); la creatura irrazionale nel regolamento dei suoi istinti (pax animae irrationalis); l'essere razionale nell'armonia dell'attività teoretica e pratica (pax animae rationalis). Analogamente lo stato è ordinata imperandi atque oboediendi concordia civium; e la civitas coelestis è ordinatissima et concordissima societas fruendi Deo et invicem in Deo. Questa dottrina agostiniana della pace, che rivela l'influenza platonica, doveva costituire elemento essenziale della concezione politica e sociale medievale. La legge dell'ordine è legge divina e naturale, è il vincolo universale che conserva il mondo fisico e morale, assegna a ogni essere il suo posto, la sua funzione, e costituisce l'essenza della giustizia. Particolare significato ha la dottrina della pace per l'etica, dove si rivela come principio di ordine interiore, cioè di freno e di misura delle tendenze sensibili e fa dell'individuo un membro armonico nella vita del tutto. La perfezione morale è sinonimo di pace con noi stessi, con i nostri simili, con Dio; per la pace l'uomo si garantisce contro i mali della vita terrena, conquista la salute dell'anima. L'ordinamento giuridico oggettivo non è che l'ordinamento pacifico, ossia organico dei rapporti umani. Tale ordinamento non si attua per sé, ma per l'opera dell'uomo; non basta conoscerlo, occorre volerlo e attuarlo costantemente nelle nostre azioni. Solo soggettivandosi si realizza. Esso è una conquista progressiva, né può mai attuarsi interamente nel tempo. In ciò consistono il fondamento e i limiti dell'ordine giuridico e politico.
La speculazione giuridica medievale culmina nella dottrina della legge di S. Tommaso. Dio guida l'intelletto dell'uomo con la legge, ne rafforza la volontà con la grazia. La determinazione della legge costituisce per S. Tommaso il problema fondamentale. Esiste una lex aeterna che è la ragion divina che ordina e governa il mondo. Da essa deriva la lex naturalis che è la partecipazione imperfetta, limitata, della ragione umana alla legge eterna. Per essa l'uomo, malgrado la corruzione originaria, riesce a distinguere, anche in mancanza di legge scritta e rivelata, il bene e il male. Esiste poi una legge positiva umana secundum quam disponuntur quae in lege naturae continentur. Il diritto positivo umano, come determinazione, specificazione, interpretazione della legge naturale, non può a questa derogare pur piegandosi alla diversità dei luoghi, dei tempi, delle persone, pur ispirandosi all'utilità individuale e collettiva. Ciò che è utile e opportuno non è per ciò solo in contrasto con la legge naturale. D'altra parte per l'imperfezione dei più la legge umana ha una sfera d'azione più ristretta di quella dell'etica. Essa non può omnia vitia cohibere, sed graviora tantum, cioè quelli che minacciano le condizioni della vita sociale e a quibus possibile est maiorem pariem multitudinis abstinere. Non sfuggirono al senso realistico di S. Tommaso i limiti tra la morale e il diritto. Non solo quest'ultimo si rivela col carattere formale della positività, cioè della sanzione umana ma i suoi precetti riguardano la moralità dell'uomo medio, cioè dell'uomo considerato non tanto in rapporto alle esigenze della vita religiosa e morale quanto in rapporto a quelle della vita esteriore sociale. Anche la nozione del diritto soggettivo acquista nel Medioevo cristiano nuovo valore. L'uomo è soggetto di diritto non in quanto è cittadino, ma in quanto è persona spirituale e morale. I suoi diritti l'uomo più non ripete dallo stato, ma da Dio, e quindi può opporsi allo stato che li viola. Perciò la libertà non è solo esterna o civile, ma interna, sottratta a qualsiasi coazione esteriore: l'uguaglianza in cui la giustizia anche per S. Tommaso consiste, non si fonda in natura, ma nell'essenza spirituale e morale dell'uomo. Era spezzato nel Medioevo il vincolo che teneva avvinto l'individuo e il suo diritto alla natura e allo stato, ma si costituiva il vincolo dell'uomo con Dio; esso non asserviva l'uomo, ma lo elevava accomunando tutti gli uomini in un ordine di giustizia e di uguaglianza ideale sopra la contingenza della loro diversa sorte terrena. L'uomo non più strumento passivo di una realtà a lui estranea si fa attivo cooperatore della giustizia. La quale non è più solo contemplata dall'intelletto, ma conquistata dal volere e dalla libertà dell'uomo che rivive in sé e nelle sue opere la giustizia eterna.
c) Età moderna. - La fase moderna della filosofia del diritto è in rapporto col rivolgimento filosofico iniziato da Bacone e da Cartesio, tendente a risolvere la realtà naturale e soprannaturale in realtà del soggetto. Alla logica aristotelica formale succede la logica del soggetto che si costruisce col senso e con la ragione la sua scienza e tende alla certezza del vero. In rapporto alla nuova posizione del problema filosofico si svolge il giusnaturalismo, cioè l'indirizzo che ricerca il fondamento del diritto nelle naturali tendenze ed esigenze della natura umana e trae da esse col concorso della volontà e delle convenzioni umane l'ordine giuridico e politico. Fondatore del giusnaturalismo è l'olandese Ugone Grozio che, astraendo da postulati teologici e da qualsiasi statuizione di diritto positivo, deriva il diritto naturale dalla natura sociale e razionale dell'uomo, lo concepisce come vincolo di unione e di conservazione della vita collettiva, lo distingue così dalla morale che governa i moti interiori dell'animo, come dalla politica che è prudente valutazione e distribuzione degl'interessi e dei beni comuni. La corruzione dell'umana natura ha offuscato la conoscenza del diritto naturale e ha reso impossibile la comunione di vita da esso regolata. Supplisce il diritto volontario che fondandosi sul principio del diritto naturale, pacta sunt servanda, genera rapporti di obbligazione reciproca tra gl'individui. Dal patto sorge anche lo stato, che è l'unione pacifica, ordinata di uomini liberi per il godimento e il reciproco riconoscimento dei diritti e per la comune utilità. Lo stato non solo sorge per garantire i rapporti convenzionali (ius aequatorium), ma esprime e difende l'interesse pubblico mediante norme aventi per oggetto rapporti di sovranità (ius rectorium).
Per Hobbes il diritto di natura è esplicazione di libertà egoistica, affermazione di potenza di ciascuno contro tutti, per cui è sinonimo di ius belli. Il ius pacis sorge in virtù di un pactum subiectionis, in virtù del quale gl'individui convengono tra loro con patto irrevocabile di trasferire i loro diritti naturali senza condizioni alla persona del sovrano, la cui volontà è fonte esclusiva e misura del diritto. Il quale da diritto naturale diventa civile e ha per fine la conservazione della pace interna, cioè dello stato personificato nel sovrano (Leviathan). Anche per lo Spinoza il diritto naturale è ipsa naturae potentia concessa a ogni essere ai fini della sua conservazione. Ma l'esperienza dei mali induce gli esseri dotati di ragione a crearsi un ordine civile, nel quale le esigenze dell'individualità e della socialità si esplicano sotto l'egida dello stato nei limiti imposti dalla salus publica.
Per il Locke il diritto naturale è il diritto dell'uomo nello stato ipotetico di semplicità e d'innocenza originaria, che opera sotto l'impero della legge di natura, in conformità ai suoi naturali bisogni, secondo un ragionato calcolo di utilità. In questo stato naturale di pace, di mutua assistenza, gli uomini si riconoscono liberi e uguali e ognuno in relazione ai suoi bisogni si costituisce una proprietà mediante il lavoro e l'occupazione della terra comune. La libertà di cui ognuno gode nello stato di natura è sinonimo di indipendenza reciproca e questa è solo possibile se l'arbitrio di ciascuno è limitato. L'uguaglianza è la misura della libertà naturale. A garanzia dei loro diritti naturali gli uomini convengono di creare lo stato e ad esso affidano il potere coattivo e punitivo che essi traevano da natura. Il diritto naturale s'identifica, secondo il Locke, col diritto inalienabile dell'uomo alla libertà e alla proprietà nei limiti dell'uguaglianza.
Il Rousseau doveva dimostrare che l'empirismo dei giusnaturalisti e dello stesso Locke se poteva spiegare il fatto del diritto nella sua genesi psicologica e sociologica, non lo giustificava razionalmente. Il diritto inteso in rapporto alle naturali tendenze dell'uomo può solo generare rapporti fondati sulla forza e sull'arbitrio. Inspirandosi ai metodi del razionalismo cartesiano il Rousseau fa del diritto un prodotto della ragion collettiva, che gli uomini creano rinunziando a vivere secondo le leggi della loro natura empirica. I diritti dell'uomo da esigenze della natura sensibile si trasformano per la mediazione dello stato in diritti della personalità razionale dell'uomo e come tali acquistano valore universale e morale.
Kant riassume la speculazione anteriore superando nella definizione del diritto il punto di vista empirico e il punto di vista razionale. A lui si deve se la filosofia del diritto poté costituirsi in disciplina autonoma. Nell'antichità, nel Medioevo, i problemi che oggi chiamiamo di filosofia del diritto erano trattati come parte dell'etica. Nell'età prekantiana il problema dei rapporti del diritto con la morale assunse significato storico e si pose come un aspetto della lotta che l'individuo sosteneva contro lo stato in difesa della sua libertà interiore. Cristiano Thomasius prima di Kant aveva cercato di distinguere la sfera morale da quella del diritto in base a criterî formali (esteriorità, bilateralità, coattività) o a criterî fondati sulla finalità della norma (pace interna ed esterna). Kant cercò nella natura dell'attività pratica del soggetto il fondamento della distinzione. Tale attività essenzialmente libera può affermarsi o in rapporto alla legge morale, o nei rapporti esterni sociali. Nel primo caso si determina per il dovere in sé, nel secondo per motivi eteronomi soggettivi, per cui la conformità alla legge è solo esterna (legalità). La volontà che si esplica in vista di fini soggettivi è volontà economica, non ancora giuridica. La sfera del lecito non coincide con quella del diritto. La libertà esterna in cui il diritto consiste è un'idea di relazione, implica un rapporto tra due voleri; donde la necessità di una norma di ragione regolatrice della libertà stessa. Tale norma si riassume nel riconoscimento e nel rispetto reciproco della libertà. La coesistenza delle volontà empiriche è condizionata alla norma razionale dell'uguaglianza delle libertà nei loro rapporti esterni; l'equilibrio di queste implica azione e reazione reciproca e quindi coazione. La stabilità di un sistema giuridico può essere concepita sul presupposto che ogni volere, qualunque sia il movente che lo spinge a operare, si mantenga esteriormente nei limiti imposti dalla legge di coesistenza senza la possibilità di sottrarvisi; perciò la coazione come potere di obbligare all'adempimento del diritto è condizione di libertà e si estende quanto la libertà stessa. Il diritto, ossia la libertà esterna, si realizza nello stato e questo deriva dal contratto il titolo razionale di legittimità. Lo stato kantiano serve ai fini del diritto e come tale è stato giuridico.
Nella filosofia del diritto di Hegel convergono e trovano sistemazione le correnti di reazione da un lato, d' integrazione dall'altro del pensiero kantiano, correnti che si erano andate affermando nell'età del romanticismo e dello storicismo per opera del Humboldt, del Fichte, dello Schelling. Le nuove correnti tendevano a fare del diritto l'espressione dello spirito collettivo e ne intendevano la vita nelle forme dello svolgimento. La duplice esigenza si riflette nella concezione hegeliana dello spirito assoluto e del suo divenire dialettico. La sua filosofia del diritto è tutta penetrata d'influenze romantiche e storiche e può concepirsi come una filosofia della storia applicata al diritto e allo stato. Al diritto concepito nella sua essenza immutabile e sempre identica a sé, Hegel contrappone il diritto che si fa e diviene nella storia. Il soggetto in cui lo sviluppo si effettua è la volontà umana che da soggettiva nelle prime fasi diventa per gradi oggettiva: e oggettività significa moralizzazione del volere, superamento della propria individualità empirica, subordinazione a una realtà universale, affermazione di libertà non astratta, ma concreta e reale. Nel progressivo inserirsi dell'individuo nella collettività, cioè nella progressiva conquista della coscienza e della libertà di sé, consiste la ragione della storia e del mondo. E alla libertà l'umanità perviene mediante la coazione del diritto e dello stato. Il punto di partenza del diritto è la volontà libera; la libertà è la sostanza del volere in tutti i suoi gradi; ma la volontà prepolitica è volontà e libertà soggettiva, naturale, immediata; è determinata dagl'istinti, dai desiderî, è solo relativamente razionale, cioè in rapporto al soggetto finito. A misura che la volontà si scioglie dalla naturalità diventa universale e morale, cioè assolutamente libera, non solo nella forma ma anche nel contenuto. Lo sviluppo del diritto e quello del volere si corrispondono; e lo sviluppo ha luogo per contrasti perennemente superati e rinnovati in un più alto grado. Al volere immediato corrisponde il diritto astratto, la libertà soggettiva, a cui si oppone l'universale morale: dalla loro sintesi si generano le realtà etiche che si rivelano progressivamente nella forma della famiglia, della società, dello stato. Solo in questo ultimo il diritto è libertà dello spirito oggettivo interamente realizzato. Coi trattati del Kant e del Hegel erano tracciate le direzioni fondamentali della speculazione giuridica moderna. Non valsero ad arrestarne lo svolgimento né lo spiritualismo rinnovato del Rosmini, né il positivismo del Comte e dello Spencer, dell'Ardigò e del Vanni. L'importanza di questi sistemi è in ragione del grado con cui essi, con metodi e premesse diversi, esprimono l'esigenza fondamentale dell'idealismo d' intendere il diritto nella totalità dei suoi rapporti, come espressione di una realtà superindividuale. Notevole e rispondente a un'esigenza fondamentale della coscienza filosofica moderna è lo sforzo del Rosmini di ricondurre il dualismo tradizionale tra realtà e idea, che nel diritto si riflette all'unità originaria dello spirito, d'intendere l'idea del diritto come misura e forma del reale, di far rientrare il bene sensibile, soggettivo, che è materia del diritto, nell'universalità dell'idea morale. La quale implica il riconoscimento pratico della persona, così che il rispetto della persona nella sua libertà naturale e morale costituisce l'essenza del diritto che si realizza come natura nel concetto di proprietà.
D'altra parte vediamo nel Comte e nell'Ardigò la tendenza a intendere il diritto in funzione della vita sociale concepita nella sua unità organica. Di questa il diritto costituisce la forza specifica e riflette le leggi. Nello Spencer il diritto si rivela come un prodotto naturale dell'evoluzione universale che regola i rapporti esterni della vita associata così organica, come superorganica. Nel positivismo del Vanni penetra un' esigenza critica la quale si accentua nell'indirizzo neo-kantiano rappresentato nella speculazione giuridica dallo Stammler e in Italia dal Del Vecchio. Fondandosi sulla distinzione tra il concetto e l'ideale del diritto, il neo-kantismo intese a ricostruire l'universale logico, cioè la forma di ogni possibile esperienza giuridica, il presupposto, la condizione d'intelligibilità del diritto, non la causa del diritto effettivo e reale. D'altra parte era affermata l'esigenza di un diritto ideale perfetto, come misura e valutazione del diritto positivo. Il neo-kantismo lasciava insoluto il rapporto tra il concetto e l'idea del diritto, tra l'ordine logico e l'ordine ideale.
Il ritorno all'idealismo hegeliano espresse l'esigenza di ravvicinare e unificare la verità e la realtà, di concepire l'idea come principio e causa del reale, in contrasto con l'insegnamento kantiano secondo cui il concetto di una cosa non ne spiega l'esistenza. In forma originale rivissero in Italia l'idealismo giuridico B. Croce e G. Gentile. Il Croce risolve la filosofia del diritto nell'economia e identifica il diritto con l'utile individuale. Tale identificazione si fonda sopra la dialettica dello spirito pratico, il quale si realizza nel diritto come volizione del particolare, come attività economica, che è forma essenziale di attività spirituale. L'attività legislatrice che pone le leggi non è che la forma astratta dell'attività giuridica; essa è volizione di una classe di azioni ed è solo giustificata da ragioni pratiche. L'attività giuridica concreta e reale è la volizione singola che si crea continuamente la legge del proprio operare economico, e che risolve nell'atto singolo la legge astratta. Per tal modo il diritto oggettivo è ricondotto al diritto soggettivo, all'attività utilitaria dello spirito individuale.
Per il Gentile il diritto è la natura nel mondo della volontà, la quale è concreta e reale e quindi morale se è attuale, cioè se è considerata nel momento in cui si realizza ponendosi come esterna a sé, come oggetto. Il diritto è il volere obiettivato nella legge, astratto dallo spirito che lo crea, e quindi volere naturalizzato che riveste i caratteri dell'esteriorità e della coattività. Solo in quanto è riassorbito nell'attività dello spirito, il diritto è libertà, è eticità. La storia non è che la risoluzione progressiva della moralità nel diritto e del diritto nella moralità in corrispondenza alla dialettìca dello spirito che non può chiudersi nel voluto, ma deve tendere a superarlo, a ricrearlo continuamente per rivelarsi come attività libera, cioè morale. Non perciò il diritto deve intendersi separato dal soggetto; piuttosto deve intendersi come sua opposizione, suo limite, come condizione necessaria della sua libertà.
L'idealismo del Croce e del Gentile, fondandosi su una dialettica dello spirito individuale, portava logicamente a risolvere il diritto nell'attività utilitaria o in quella etica dello spirito. In ogni caso era negata l'autonomia della filosofia del diritto. Legittima pertanto deve apparire l'esigenza di cercare al diritto un fondamento suo proprio, d'intendere l'attività giuridica come attività autonoma dello spirito. Come espressione di questa esigenza fu in ogni tempo il diritto inteso come attività dell'uomo storico e sociale, come relazione, come proporzione personale e reale, come manifestazione della coscienza collettiva. In Italia la scuola giobertiana, rivissuta dal Carle nelle sue applicazioni al diritto, sostiene che in tal senso si affermò la costante tradizione del pensiero italiano. Il dogma della nazionalità e socialità del diritto è incompatibile con l'idealismo economico e morale, l'uno e l'altro fondati sul presupposto che il diritto è attività dello spirito individuale. Ma a liberare l'idealismo nazionale e sociale dagli elementi empirici e contingenti con i quali va congiunto, è necessario elaborare una dialettica dello spirito collettivo e riprendere la tradizione storico-romantica del periodo post-kantiano, la quale pose le condizioni di una concezione idealistica del diritto come espressione dell'Io sociale.
Bibl.: Cfr. i più ampî trattati di storia della filosofia. E inoltre: C. Hildebrand, Geschichte u. System d. Rechts- und Staatsphilospihe, I: Das klassische Alterthum (solo pubbl.), Lipsia 1860; F. J. Rossbach, Die Perioden d. Rechtsphil., Ratisbona 1842; J. Stahl, Die Phil. d. Rechts, I: Gesch. d. Rechtsphil., 2ª edizione, Heidelberg 1847 (trad. it. di P. Torre, Torino 1855); F. Berolzheimer, System d. Rechts u. Wirtschaftsphilosophie, II: Kultustufen d. Rechts- und Wirtschaftsphil., Monaco 1905; H. Ahrens, Cours de droit naturel, 8ª ed., Lipsia 1892; A. Lasson, System d. Rechtsph., Berlino 1882; J. Kohler, in Encyklopädie d. Rechstwiss., 7ª ed., I, Monaco 1915; A. Geyer, Geschichte u. System d. Rechtsphilosophie, Innsbruck 1863; R. Stammler, Lehrbuch der Rechtsphilosophie, 3ª ed., Berilno 1928; G. Carmignani, Storia dell'origine e dei progressi della filosofia del diritto, Lucca 1851; G. Carle, La vita del diritto, 2ª ed., Torino 1890 (e G. Solari, Il pensiero civile di G.C., in Memorie d. R. Acc. di Torino, s. 2ª, LVI, Torino 1928); G. Laviosa, La filosofia scientifica del diritto in Inghilterra, Torino 1897; I. Petrone, La fase recentissima della filosofia del diritto in Germania, Pisa 1895; B. Croce, Filosofia della pratica, 3ª ed., Bari 1925; G. Del Vecchio, Lezioni di filosofia del diritto, Città di Castello 1930.
Storia del diritto.
Non poteva sorgere questa disciplina finché non fosse avvertita la mobilità delle norme e delle istituzioni giuridiche. Un certo qual senso dell'incoercibile variazione delle forme giuridiche fa capolino nelle leggi di Giustiniano. Ma l'antichità ci ha dato soltanto un modesto disegno storico tracciato a scopo didattico dal giurista Sesto Pomponio che nel suo Enchiridion (Dig., I, 2, de origine iuris) si proponeva di dimostrare l'origine e il processo del diritto oggettivo di Roma e delle sue fonti, dei nomi e delle origini delle magistrature, della scienza del diritto civile. Fu però la favilla che destò il nuovo fuoco, quando, al chiudersi del Medioevo, avvezzo a riguardare il diritto sub specie aeterna, il rinascere della filosofia aristotelica trasse a una revisione delle opinioni correnti. Già tra il secolo decimoterzo e il decimoquarto il rinnovato senso dell'individualità fece sembrare opportuno che non si perdesse il ricordo dei più celebri giuristi interpreti del diritto romano e del diritto canonico. La commemorazione dei dottori illustri, incominciata da Giovanni d'Andrea e da Baldo degli Ubaldi, è il primo germe di un nuovo ramo di cultura, che andò continuamente svolgendosi, aggiungendo ai cataloghi degli autori le indicazioni delle opere loro, come fece il Diplovataccio (v.). A lui contemporaneo, nei primi decennî del secolo decimosesto, Aymar du Rivail, francese ma educato nelle scuole italiane, contemplando insieme il diritto romano e l'ecclesiastico scrisse una Historia iuris civilis, in cui trattava delle strutture politiche, della legislazione, degl'interpreti di essa. Con più larga visione diede così materia e titolo a una nuova disciplina, che era destinata a sviluppi sempre più ampî. Se il Du Rivail faceva ancora la parte del leone al diritto romano, l'Agustin rivendicò poi dignità di storia al diritto ecclesiastico. E finalmente, richiamata l'attenzione sui monumenti giuridici barbarici da quello stesso umanesimo che condannava il Medioevo come l'età delle tenebre il Conring col suo De origine iuris germanici (1643) mostrò come anche il diritto germanico avesse avuto i suoi fasti. Il senso storico si era affinato e all'esplicazione della vocazione storica si era offerta sempre più la materia. La giurisprudenza colta fu tutta pervasa dallo spirito storico. E non solo le fonti del diritto e la scienza furono da essa contemplati, ma le istituzioni stesse; la storia del diritto si fece in certo qual modo più intima. Specialmente la storia del diritto romano, che per secoli ebbe ancora le maggiori cure, trovò il maggiore successo in Francia, in Olanda, in Germania. Ma anche l'Italia nel secolo decimottavo, per merito di una fitta schiera di storici, fra i quali emerge il Muratori, trasse alla luce ricchissimi materiali per illuminare il suo sviluppo giuridico, da cui dipese qu̇ello di tante altre nazioni. Il Vico sopraggiunse a dare un fondamento filosofico alla ricerca erudita. E Pietro Giannone diede il tipo di una storia civile, in cui gli sviluppi giuridici erano ricondotti con organico legame a tutto lo svolgimento della storia. L'opera sua parve nuova e avviatrice anche a quei paesi come la Francia che, raggiunta l'unità politica da secoli, già si vantava da tempo di avere delle Histoires du droit français. In Italia, le indagini storiche si frazionavano, ancora rispecchiando il frazionamento politico. Così avveniva del pari nella Germania, dove pur la continuità del diritto pubblico spingeva, come in Inghilterra, in ogni campo, alla ricerca dei precedenti. Al bisogno di chiarire il passato rispondevano le antiquitates iuris, di cui diede esempio cospicuo, fra molti, J. M. Heineccius; ma esse dimostrano anche come si stentasse a interpretare con vero senso di vita i monumenti giuridici. La histona literaria iuris poteva agevolare ma non supplire la ricostruzione delle vicende del diritto oggettivo. La ricerca storica del diritto restava in prevalenza una storia esterna. Giunse a proposito, reagendo contro gli arbitrî della scuola del diritto naturale, la scuola storica tedesca, della quale, se parve fondatore Gustavo Hugo, fu in realtà sommo istitutore Carlo Federico Savigny. Essa insegnò che il diritto, prodotto della coscienza popolare, varia secondo i tempi e i popoli, che ogni popolo dà particolare impronta al proprio diritto e che questo non può intendersi appieno se dalla contemplazione del suo sviluppo non ne appariscano i caratteri peculiari. Ogni diritto ha la sua dignità. Duce lo stesso Savigny, il diritto romano, come il più evoluto, sembrò ancora il più degno di storia: ma ogni diritto nazionale poteva ormai aspirare a esser materia di questa. Carlo Federico Eichhorn diede fondamento, tra il 1808 e il 1823, alla storia del diritto germanico, e prim0 estese al diritto privato l'indagine storica già limitata al diritto pubblico. La scuola storica ebbe larga eco negli altri paesi: dappertutto, anche indipendentemente da essa, le rievocazioni del passato tornavano in pregio in Europa: nella Francia anzitutto e nell'Italia stessa, dove esse secondavano e riaccendevano il sentimento nazionale. La storia del diritto stentava però a staccarsi dalla politica, era ancora in principal modo storia delle costituzioni e delle legislazioni, ma tendeva sempre più a diventare una storia interna, e una storia di tutto il diritto. Si proponeva ormai nettamente il compito di studiare le origini e gli sviluppi delle istituzioni giuridiche, non pure in sé, ma nel loro sistema. Lo studio delle legislazioni e della giurisprudenza fu considerato come il vestibolo di un edificio ancor più maestoso; la visione positivistica suscitò persino la speranza che potesse rivelare le leggi generali del divenire del diritto: si chiese però alla storia più di quello che potesse dare. Gli audaci tentativi fatti specialmente da Giuseppe Kohler per assurgere a una storia generale del diritto che, prescindendo dall'individualità e accidentalità dei fatti storici attingesse gli elementi generali e costanti dei sistemi giuridici, finirono nello schematismo. La storia del diritto si è rivelata invece più feconda se applicata a singoli popoli. Trattandosi di diritti vigenti, qualche ragione pratica di studio si aggiunge pure alla scientifica, ma non si deve dimenticare che scopo della storia del diritto non è la determinazione di regole giuridiche per l'oggi, bensì la ricostruzione dei processi che il diritto come sistema di norme ha seguito nel suo divenire. Non semplice constatazione e descrizione di fatti e istituti, ma interpretazione di essi in rapporto alla loro funzione: Lo storico del diritto, pur occupandosi di forme, per inserirsi nel processo della realtà concreta, deve guardare oltre il diritto e cogliere la ragione delle mutazioni formali e scoprire gli elementi da cui le istituzioni traggono vita e alimento. Se noi non chiediamo alla storia del diritto più di quello che essa può dare, troveremo che non è venuta meno alla fiducia in essa riposta. La Germania ha chiuso con la pubblicazione del suo codice quello che fu il periodo eroico della sua attività per la ricostruzione della propria storia giuridica. Là furono maestri insuperati Giorgio Waitz, Giulio Ficker, Andrea Heusler, Ottone Gierke, Carlo von Amira. Usciti dalla scuola tedesca furono i fondatori della storia del diritto italiano Antonio Pertile e Francesco Schupfer. Paul Viollet e E. Glasson posero le basi della storia del diritto francese; e in Inghilterra Stubbs, F. W. Maitland e Frederick Pollock f0ndarono la storia del diritto inglese. Ora ogni popolo civile aspira ad avere la sua storia giuridica: non solo in Europa, ma in America e in Asia, dappertutto dove l'indirizzo storico riuscì a mettere piede.
Come disciplina storica la storia del diritto trae sussidio da tutte le discipline di cui la storia si giova (geografia, cronologia, paleografia, diplomatica, epigrafica, numismatica, sfragistica, ecc.). E si vale di tutti i monumenti che a quella servono. Più particolarmente, oltre alle fonti immediate date dalle leggi, dalle consuetudini, dalla giurisprudenza e dalla letteratura giuridica, considera come sue fonti mediate i documenti giuridici, i formularî, i proverbî, i simboli, le piante topografiche, i catasti, il linguaggio stesso.
Avendo materia comune con le discipline giuridiche, presuppone la conoscenza di queste nelle loro diverse branche. La dogmatica attuale giova a dominare il passato anche se lo storico deve tener presente che pur la dogmatica si mutò nel tempo e deve cercare di trarre dalla realtà transeunte da esso contemplata il sistema con cui ordinare gli elementi offerti dalle varie età. Per dare l'impressione del movimento egli è obbligato a confronti fra quei diversi sistemi. Nella ricostruzione di quelli segue gli stessi metodi dell'interprete delle leggi vigenti; il criterio storico trova piuttosto applicazione nella successiva comparazione tra i sistemi ricostruiti, considerati come fasi di uno sviluppo unico. La distinzione in periodi ha sempre qualche cosa d'irreale: nella realtà vi è sviluppo continuo.
Ricorrendo a quella come a un mezzo tecnico utile alla nostra comprensione, dobbiamo cercare che gli estremi posti ai periodi rispondano più che sia possibile a momenti critici dello svolgimento giuridico. Non sempre questi rispondono ai periodi critici della politica, e nemmeno a quelli dell'economia. Le dottrine del materialismo storico che considerano le strutture giuridiche in rapporto immediato di dipendenza di fronte alle strutture economiche sono smentite dalla mancanza di una esatta sincronia fra i movimenti delle une e delle altre, ma anche se noi teniamo conto delle correnti spirituali, il momento critico dell'evoluzione giuridica non coincide senz'altro col momento iniziale della loro influenza.
Le fasi ottenute attraverso la divisione in periodi sono sempre legate intimamente fra loro. Di qui derivano le imperfezioni del metodo sincronistico nell'esposizione della storia del diritto; obbliga necessariamente a ripetute contemplazioni dei varî istituti, il cui sviluppo è frammentariamente considerato. Ma d'altra parte è giustificata una certa diffidenza contro il metodo sistematico che segue gl'istituti singoli in tutto il loro svolgimento. Può accadere per esso che si proiettino nel passato distinzioni che allora non esistevano ancora, perché i distinti di poi erano fusi nell'indistinto.
I due metodi si sogliono contemperare applicando il metodo cronologico ai diritti più facilmente esposti a modificazioni derivanti dall'interno o dall'esterno, come il diritto pubblico e la storia delle fonti di cognizione del diritto stesso; e il metodo sistematico a quei rami del diritto in cui l'evoluzione è più lenta e le forme del passato sono più resistenti, come, p. es. il diritto privato. È un contemperamento di un'utilità prammatica. Nell'ambito stesso del diritto pubblico l'ordine sistematico sembra preferibile per la storia del diritto amministrativo, del diritto penale, delle procedure.
Bibl.: F. Patetta, Introd. al corso di storia del dir. ital., Torino 1914; OL. F. von Schwerin, Einführung in das studium der germ. Rechtsgesch., Friburgo 1922; E. Besta, Avviamento alla st. del dir. ital., Padova 1926.
Etnografia e folklore.
Il diritto presso 1 primitivi. - I germi del diritto sono da cercare nei tabù (v.), ossia in quelle regole che presso i primitivi, in forma d'interdetti magico-religiosi, disciplinano le azioni dei singoli e delle collettività. Dai tabù si viene svolgendo, a poco a poco, il complesso delle leggi sociali, o meglio delle consuetudini, le quali, presso i popoli ignari dei mezzi grafici, si trasmettono di generazione in generazione in forma di massime o di proverbî, e riguardano sia l'organizzazione politica, sia quella gentilizia, sia quella economica. Detentore del potere è il capo, che a volte è assunto per prestigio personale, a volte elettivo e a volte ereditario, specie se discenda da un capostipite mitico; depositarî della legge sono gli anziani, i padri di famiglia, i sacerdoti, i maghi, che spesso formano i consigli, le assemblee, i tribunali.
La potestà familiare (v. famiglia) è in dipendenza del regime, e in alcuni casi, imperando il matriarcato, è attribuita allo zio materno, che può avere anche il diritto di vita o di morte sui soggetti. La parentela può essere, rispetto alla derivazione, materna e paterna; rispetto alla forma, individuale e collettiva; rispetto all'essenza, naturale o artificiale o imitativa. I rapporti economici concernono la produzione e la proprietà, a cominciare dai frutti della caccia e della pesca per passare alla coltivazione del suolo e all'allevamento del bestiame. La caccia nella terra comune è riservata ai membri della tribù, e norme precise regolano l'appartenenza dell'animale ucciso o ferito e la ripartizione della selvaggina. I distretti pastorali sono, come le riserve per i cacciatori, soggetti al godimento esclusivo di quanti ne hanno diritto. In genere anche l'agricoltura è esercitata in comune da un gruppo totemico, da una tribù, da un villaggio, dividendosene i frutti fra gl'individui interessati o le loro famiglie. Talvolta il territorio comune è ripartito in lotti; talaltra la ripartizione si rinnova periodicamente (rotazione).
Nelle forme inferiori di organizzazione sociale il diritto non distingue tra fatti civili e penali. Una sola è la sfera che tutti li abbraccia e li confonde, siano essi infrazioni morali o religiose, danni economici o lesioni personali. La vendetta e l'ordalia, che rappresentano l'elementare sistema di pena e di prova, procedono da idee magico-religiose, e hanno, la prima carattere espiatorio, la seconda divinatorio. Presso alcune popolazioni, le quali difettano di organi adatti, la giustizia è nelle mani di società segrete, come quelle del Komo fra i Bambara, e dei Duk-Duk fra gl'indigeni della Nuova Guinea.
Bibl.: A. E. Post, Giurisprudenza etnologica, trad. it., Milano 1906-1908, voll. 2; id., Der Ursprung des Rechts, Oldenburg 1879, e varie altre opere: Ch. Letourneau, L'évolution juridique dans les diverses races humaines, Parigi 1888; L. Morgan, Systems of consanguinity and affinity in the human family, in Smithsonian Contributions, XVII (1871); MacLennan, The patriarchal theory, Londra 1885; J. Kohler, Zur Urgeschichte der Ehe: Totemismus, Gruppenehe, Mutterrecht, in Zeitschrift f. vergleichende Rechtswissenschaft, XIV; G. R. Steinmetz, Ethnologische Studien zur ersten Entwicklung der Strafe, voll. 2, Groninga 1928.
Il diritto popolare. - Il diritto popolare o consuetudinario è costituito dalle consuetudini giuridiche che il popolo si tramanda di generazione in generazione e che le leggi dello stato in parte riconoscono come norme integratrici, in parte escludono perché a esse contrarie. Rappresentazione dei bisogni e dei sentimenti locali (paese che vai, usanza che trovi), tale diritto, che è stato detto anche diritto "vivente", forse per distinzione da quello "vigente" è ordinariamente formulato in massime che hanno la forma di proverbî e passano di bocca in bocca. Per i suoi caratteri morfologici, esso ha fatto riandare gli studiosi alle leggi ritmate degli antichi popoli (memorabili i Carmina necessaria dei Romani) e alla giurisprudenza poetica delle prime civiltà. E difatti della poesia i proverbî giuridici volgari conservano non solo la forma metrica, ma anche le rime, le assonanze, le immagini e i simboli.
Storia delle ricerche. - Trascurato dai giuristi del secolo scorso, che riconoscevano solo le leggi vere e proprie, create dagli organi dello stato, il diritto popolare è venuto in onore ai nostri giorni, per reazione a quel principio e per affermare il valore della tradizione etnica, storica e nazionale di fronte al legislatore statale. Il Bogišić, che fu il primo a dare mano, nel 1866, alla raccolta delle consuetudini giuridiche slave, rileva appunto la collisione esistente tra il costume e la legge, e il semplicismo dei giudici i quali nonostante il monito legislativo non tengono conto, nel pronunciare le sentenze, degli usi popolari. Dieci anni dopo lo spagnolo Joaquín Costa y Martínez pubblica il primo dei suoi importanti studî sul diritto consuetudinario del suo paese per dimostrare che le costumanze del popolo, non prese in considerazione dalla scuola storica, rappresentano una delle tante forme dell'attività giuridica; e più tardi, nel 1888, promuove nel congresso giuridico spagnolo un ordine del giorno per la raccolta ufficiale degli usi vigenti nel territorio dello stato allo scopo di concorrere e portar lume all'opera annunziata della codificazione. L'eco di tale movimento si diffonde in varie nazioni, ove si fanno interpreti della nuova tendenza ricercatori di valore e autorevoli. L'Italia non rimane estranea al risveglio, onde nel 1886 (due anni dopo l'appello rivolto dal Bogišić ai lettori di La Mélusine) Antonio Scialoja dirige una lettera al direttore della rivista L'antologia giuridica per la raccolta degli usi giuridici, ma i tempi non erano maturi e gli uomini non erano preparati a rispondere all'invito. Nel 1906 R. Corso comincia a fare raccolte sistematiche di consuetudini rurali, illustrandole con note di carattere comparativo. Contemporaneamente in varî paesi (Romania, Ungheria, Grecia, Germania, ecc.) le ricerche prendono impulso; onde all'iniziativa dei singoli studiosi, che mettono in vista istituzioni e costumanze popolari d'interesse giuridico, si unisce quella di enti e di associazioni allo scopo di far conoscere e meglio valutare questa parte del patrimonio delle tradizioni nazionali.
Norme e importanza. - Nel senso più alto dell'espressione, il diritto popolare ha un'importanza maggiore di quel che si creda. Difatti esso non consiste soltanto nelle regole e nelle norme, che chiamiamo consuetudini, ma si sorprende nelle costumanze domestiche, religiose, agricole, economiche, nei giochi. Non è dunque esatta l'affermazione che esso fiorisca sui margini dei codici, giacché elementi giuridici sono nelle cerimonie, nei riti e in altre solennità indispensabili a dar vita e consistenza al negozio e che i codici e i legislatori sogliono relegare nel museo della storia. Diritto sono le regole con cui i fanciulli nei loro giochi si dispongono e si muovono, stringono patti, istituiscono associazioni, celebrano alleanze e parentele, stabiliscono premî e penitenze. Il fanciullo che, dopo aver donato un oggetto al compagno, voglia riprenderlo, è ritenuto sacrilego, perché viola il patto sacro della donazione. Il fanciullo che trova un oggetto se ne impossessa e non sente l'obbligo di restituirlo. Diritto sono altresì le ordalie dell'acqua, del fuoco, del pane che il volgo adopera per scoprire i ladri. Valore e significato giuridico hanno non pochi riti nuziali: così la vestizione della sposa, che trae origine dallo scambio degl'indumenti fra i coniugandi, comporta l'obbligo da parte dello sposo di fornire alla futura compagna le vesti e gli ori per la cerimonia. Un diritto è insito nell'uso del serraglio (o travata, parata, ecc.), per cui comitive di giovani e fanciulli sbarrano la via al corteo nuziale, per avere mance e regali; un diritto è nella penitenza che col nome di "ammenda" il parroco impone in qualche luogo ai coniugandi i quali, prima della celebrazione, abbiano avuto rapporti sessuali; nonché nel castigo che si suole infliggere al vecchio o al vedovo che passi di nuovo a matrimonio, facendolo cavalcare alla rovescia sopra un asino. Dice Jakob Grimm che il diritto è tanto più vivo, quanto più praticato. Questo principio vale per la caccia, le cui regole sono affidate alla memoria dei cacciatori che le osservano nei loro rapporti, facendole applicare dal capocaccia (v. caccia, VIII, p. 222).
Come la caccia, anche la pastorizia conserva un buon numero di disposizioni che non trovano riscontro nelle leggi scritte dello stato. Se dal gregge pascolante una pecora si sbandi e produca danni agli altrui coltivati, il pastore ha l'obbligo di risarcire il proprietario danneggiato, che gli esibisce un bioccolo spiccato dal vello dell'animale. Ma se la pecora, prima che il danneggiato si faccia vivo, avverta belando il padrone, dal luogo in cui è rinchiusa, nulla il pastore deve, qualunque sia l'entità del danno, perché in tal caso si dice che la pecora chiami il padrone. Come i cacciatori di una comitiva ubbidiscono al capocaccia, così i pastori ubbidiscono al capopastore, che, come dice un adagio calabrese, è giudice di ogni controversia fra i suoi dipendenti.
Anche più della pastorizia e della caccia, l'agricoltura conserva consuetudini variabili da luogo a luogo persino nella stessa provincia, e alle quali spesso i codici si rimettono, nell'impossibilità di prevedere e disciplinare gli svariatissimi casi che la pratica presenta. I patti che governano la mezzadria non si contano, tanto differiscono da regione a regione, a seconda della natura dei poderi e delle loro coltivazioni. Le inchieste agrarie ne hanno messo in vista alcuni relativi all'Italia meridionale, e da essi si può rilevare che talora gli appellativi mezzadria e mezzadro sono termini non corrispondenti alla vera figura del negozio giuridico. In alcuni territorî della provincia di Catanzaro il prodotto degli alberi si ripartisce fra il colono e il proprietario, tenendo conto di varî elementi economici. Delle ghiande, p. es., spetta al colono il terzo nei luoghi accessibili; il quarto nei luoghi ove la raccolta è facile, e la metà ove il terreno montuoso e aspro presenta difficoltà alla raccolta. Delle castagne i 2/3 sono attribuiti al padrone e il resto al colono, che ha l'obbligo di coglierle e disseccarle. Delle ulive si divide l'olio: nei primi quindici giorni per metà, mentre nei quindici successivi solo il terzo è dato al colono, e in seguito il proprietario raccoglie e molisce le olive per proprio conto. Avvenuta la raccolta dei frutti, incominciano la spigolatura e la racimolatura da parte dei poveri, generalmente a partire dal primo novembre. In qualche regione l'inveterata consuetudine impone al padrone delle piante anche maggiori tolleranze. Dall'editto di Rotari, che riconosceva al viandante di poter asportare impunemente dalla vigna altrui tre grappoli (Si quis usque tres tulerit, nulla sit ei culpa), lo statuto di Biella (sec. XIII) conservò la norma: Die primo septembris statuerunt quod accipiens uvas de die in gremio aut portaret surgum teneantur in frix. VIII communi ei domino, salvo si acciperet duos rapos in manu causa comedendi. E la norma continua ancora per tradizione, p. es. nel Monferrato.
Dal punto di vista scientifico il diritto popolare può essere distinto in due parti, di cui una di carattere storico-etnografico e l'altra di carattere pratico-giuridico. La prima comprende quelle consuetudini che perdurano nei nostri tempi come vestigia di arcaiche costumanze; la seconda gli usi che hanno effettivo valore nella vita sociale. Molti di questi integrano gl'istituti del diritto vigente, ora regolando i casi da quello non previsti, ora completandoli nei particolari che il legislatore lascia all'arbitrio delle parti; molti altri, poi, sono in evidente contrasto con le leggi dello stato.
L'ordinamento interno della famiglia si regge sui costumi i quali spesso completano o correggono l'opera del legislatore. In Romagna (cfr. G. Pasolini-Zanelli, Gite in Romagna, Firenze 1880, p. 277), il più anziano della famiglia colonica, detto il reggitore, tiene sotto di sé tre o quattro coppie coniugali coi rispettivi figli, amministrando l'azienda con l'aiuto della moglie (massaia) e del bovaro che prende cura della stalla. Tutto è in comune in tale famiglia: bestiame, strumenti, risparmî, lavori. Nel Friuli le consuetudini domestiche fissano perfino il posto che ciascun componente la famiglia deve prendere presso il focolare. L'eredità ha speciali norme dettate dalla tradizione. Gli ori materni si ripartiscono tra i figli e le figlie, assegnando a queste gli orecchini e le collane, agli altri gli anelli. I campi e gli armenti si dividono per stipiti, i foraggi e le granaglie per capi o bocche. Sono considerati come mezze bocche gli eredi che non abbiano compiuto il 12° anno; non sono considerati affatto i bambini sotto l'anno (cfr. V. Ostermann, La vita in Friuli, Udine 1892, p. 207 seg.). In qualche regione, come in Calabria, il compendio ereditario è ripartito in lotti, che poi sono estratti a sorte dagli aventi diritto. La prima operazione è di competenza del maggiore dei figli, la seconda del minore, che ha la facoltà di scegliere la propria quota. Altrove, come in Corsica, la facoltà della scelta fra i varî lotti è attribuita al figlio che passa per primo a matrimonio. Alle figlie compete la dote, per la quale le consuetudini fanno obbligo al genitore benché l'art. 147 del cod. civile italiano dichiari il diritto sfornito di azione. La dote è ordinariamente adeguata all'entità del patrimonio paterno o alle possibilità della famiglia. La mercatura ha le sue regole speciali: ne ricordiamo due. Chi vende un cavallo, un asino, un bue, se non vuole cedere la cavezza, deve dire prima che il compratore gli sborsi il prezzo: Franco capestro! Chi esca dalla bottega con la merce pagata, non può ritornarvi per fare recriminazioni sulla qualità: si confronti la disposizione inserita nell'Ordine dei Consoli dei mercanti (26 marzo 1459) e nello Statuto di Venezia: "Quando alcun mercante compera alcuna mercanzia, debba veder et tentar di sotto et sopra o in mezzo, et con tutte quelle diligenze et vie che li sarà soddisfacevole, perché dopoi mossa et portata via detta mercatanzia non si possa né debba far alcuna rason".
Fanno parte del diritto popolare, nel significato generale del termine, le penitenze che il popolo suole infliggere ai violatori del costume locale e le cerimonie con cui quelle sono eseguite, nonché le credenze che dànno vita a determinati fatti giuridici, e altri elementi di cui hanno incominciato a occuparsi i democriminologi; ma il diritto popolare, nonostante i volenterosi che ne promuovono qua e là la ricerca, attende ancora i suoi investigatori. In Italia è stata costituita di recente, presso il Ministero della giustizia, una commissione per la raccolta degli usi giuridici relativi ai rapporti di natura civile.
Bibl.: V. Bogišić, Zbornik sadašnijh pravnih običaja u Južmik Slovena (Raccolta di usi giuridici attuali presso gli Slavi meridionali), Zagabria 1874 (riassunto in Demelic, Le droit coutumier des Slaves méridionaux d'après les recherches de V.B., in Rev. de législ. anc. et moderne franç. et étrang., 1876, pp. 253 segg. e 587 segg.); id., De l'importance des usages pop. juridiques, in La Mélusine, 1884, p. 6; per le opere di J. Costa, v. vol. XI, pag. 592; R. Altamira y Crevea, Valor del derecho consuet. en la historia, in Atti del congresso internaz. di scienze storiche, Roma 1904, IX, p. 381 seg.; A. Scialoja, Proposta di una raccolta di usi giur. popolari, in Antol. giuridica, 1886, p. 441 seg.; R. Corso, Usi giurid. contadineschi, in Circolo giuridico, XXXIX, 1908; id., Ländliche Gewohnheitsrechte einiger Gebiete Calabriens, in Zeitschr. Vergleich. Rechtswiss., XXII, p. 431 seg.; id., Gli sponsali popolari, in Rev. des études ethnograph. et social., 1908, p. 487 seg.; id., Sponsali di fanciulla in Calabria, in Lares, 1915, id., Di un preteso avanzo di matrim. per ratto, in Riv. ital. di sociologia, 1919; id., per la tradiz. giurid. popolari, in Folklore, VII (1921), n. 2; A. Levi, Contributi della Società di etnogr. ital. allo studio del diritto e della coscienza giuridica popolare, in Lares, 1913, p. 51 seg.; G. Antonucci, I giudizî degli anziani in Sardegna, in Folklore, IX (1923), p. 10 sgg.; id., Il folklore giurid., in Atti dell'Ateneo di scienze, lettere ed arti di Bergamo, XXVII (1926), p. 34 seg.; id., Der stein der Zahlungsunfähigen, in Zeitschr. f. vergleich. Rechtswiss., XI, p. 355; F. Maroi, Costumanze giur. pop., Roma 1925; id., Per un racc. di usi giur. pop., in Annuario di dir. compar. e studi legislativi, 1927, p. 344 seg; E. Ehrlich, Die Erforschung des lebenden Rechts, in Schmoller, Jahrbuch f. Gesetzgebung, Verwaltung u. Volkswirtschaft, XXXVI, p. 129 seg.; id., La sociol. nel dir., in Riv. intern. di filosofia del diritto, 1922, p. 99 seg.; Segall, Das bürg. Recht u. die Lebensgewohnheiten, in Arch. f. bürg, Recht., XXXII (1908), p. 410 seg.; M. Wolff, Das bürg. Recht u. die Lebensgewohnheiten, in Jurist. Wochenschr., 1906, p. 697 seg.; C. Taganyi, Lebende Rechtsgewohnheiten u. ihre Sammlung in Ungarn, Berlino-Lipsia 1922; D. Pappulias, Ελληνικῶν ἐϑίμων περισυλλογή, negli Atti dell'Accademia di Atene, 1926, p. 94 seg.
Sulla poesia giuridica popolare, v.: J. Grimm, Von der Poesie im Recht, in Zeitschr. f. geschichtl. Rechtswiss., II (1816), pp. 25-99; J. Chassan, La poésie du droit, in Essai sur la symbolique du droit, Parigi 1847; J. Costa, La poesía del derecho, nel vol. Poesía popular española, Madrid 1881; T. Braga, Poesia do direito, Oporto 1868; T. Wolf, Beiträge z. span. Volkspoesie, in Sitzungsberichte der philos.-histor. Classe der Wiener Akad., XXIII, 1859; R. Corso, Poesía giur. pop., in Annuario del mondo latino, Roma 1908; per i proverbi: G.F. Eisenhart, Grundszätze der deutschen Rechte in Sprüchwörtern, 3ª ed., Lipsia 1823; M. Hillebrand, Deutsche Rechtssprichwörter, Zurigo 1858; E. Graf e M. Dietherr, Deutsche Rechtssprichwörter, Nördlingen 1869; R. Corso, Proverbi giuridici italiani, in Riv. ital. di sociologia, XX (1916), e la bibliografia ivi citata.
Su singole costumanze giuridiche e vestigia di antiche istituzioni v.: G. Lefort, La survivance des ordalies en Bretagne, in Rev. Anthrop., XXXI, p. 243 sg.; A. Pfleger, Charivari und Eselritt, in Mein Elsassland, I, p. 421 segg.; A. Bricteux, Le châtiment pop. de l'infidélité conjugale, in Anthropologie, XXXII, p. 322 seg.; G. Bodlak, Reste alten Rechtswesens, ecc., in Heimat, IV, pp. 112 seg., 149 seg.; G. Kugler, Reste des Mutterrechts, in Deutshes Vaterland, 1923, p. 250 seg.; C. Peeters, Consécration de dons entre enfants, in Folklore Brabançon, IV, p. 39; De Ceuster e Jamar, Le droit du premier occupant chez les enfants, ibid., I, p. 41 seg.; G. Antonucci, Il diritto dei fanciulli, in Folklore calabrese, IX, p. 87 seg. - Per il diritto nelle tradizioni orali: A. Mailly, Deutsche Rechtsaltertümer in Sage und Brauchtum, Vienna 1929.
Sui delitti di superstizione: A. Löwenstimm, Superst. e dir. penale, trad. ital., Cassino 1902; A. Helwig, Die beziehungen zwischen Aberglauben u. Strafrecht, in Schweizer. Archiv für Volkeskunde, X (1906), p. 36 segg.; G. Amalfi, Delitti di superstizione, in Riv. di dir. penale e sociol. criminale, 1914; A. Niceforo, Idee e fatti nuovi nello studio dell'uomo delinquente, in La scuola positiva, 1916.
Diritto Comparato.
Comparazioni fra norme e istituzioni giuridiche si possono trovare presso i giuristi di ogni tempo; ma un ricorso sistematico ad esse con intenti scientifici si ebbe solo ai primi del sec. XIX per l'impulso degl'insegnamenti giusnaturalistici e della scuola storica. Agli uni la comparazione si offriva come il mezzo per constatare l'esistenza e completare la cognizione del diritto di natura e delle genti, agli altri per cogliere le caratteristiche degli sviluppi giuridici corrispondenti alle varie coscienze nazionali. Il primo punto di vista, snolto da Alberto de Simoni (1822) nel suo Saggio critico storico e filosofico sul diritto di natura e delle genti e sulle successive leggi istituti e governi civili e politici (postumo), ha ancora qualche eco nel vichiano Emerico Amari che nel 1857 illustrava i criterî di una scienza della legislazione comparata. Questo scrittore dava anche adatto nome a quella Vergleichende Rechtswissenschaft che doveva trovare più fortunati banditori nei giuristi tedeschi.
La comparazione può riguardare o diversi momenti dell'evoluzione giuridica di un medesimo popolo o l'evoluzione giuridica di diversi popoli in uno stesso momento. La prima dà luogo alla storia del diritto; la seconda adduce alla costruzione del cosiddetto diritto comparato, che è considerato non solo come un metodo verso altre mete, ma come una disciplina autonoma. Dominando le vedute positiviste, si sperò già che nel diritto comparato si potesse trovare, indipendentemente dalla filosofia, una soluzione al problema della genesi del diritto e delle leggi regolanti il suo sviluppo. Mentre solo i diritti dei popoli civili, parvero degna materia di storia, il diritto comparato predilesse le consuetudini e gl'istituti dei popoli primitivi; e si credette che dall'esame di esse emergessero le forme primordiali che, in base alla presunta natura comune di tutti gli uomini, il diritto dovette assumere presso tutti i popoli. La preistoria e la storia insieme avrebbero illuminato le linee generali seguite poi dal loro svolgimento: Da codesto indirizzo, promosso specialmente da G. Giacomo Bachofen, da Enrico Giacomo Sumner Maine, da Alberto Ermanno Post, da J. Kohler, e da moltri altri, doveva scaturire la cosiddetta etnologia giuridica.
Ma l'illusione che il diritto comparato potesse sostituire la filosofia del diritto fu presto sfatata. Alla comparazione, specialmente se rivolta ai diritti civili attuali, furono attribuiti fini più limitati e pratici. Non la rivelazione dei segreti profondi delle strutture giuridiche attraverso la constatazione delle universalità immanenti, ma il superamento delle singolarità contingenti e la generalizzazione dei dogmi giuridici. All'accertamento e alla descrizione dei diversi sistemi giuridici per raffrontarli fra loro (nomoscopia comparativa) si aggiunse la loro valutazione allo scopo di modificare le leggi vigenti (nomotesia comparativa). Già il Saleilles pensava che per mezzo della comparazione dovesse risultare l'apporto che da elementi dei singoli diritti nazionali poteva derivare alla formazione di un diritto comune. Edoardo Lambert considerò poi il diritto comparato come una guida e uno strumento verso un progresso uniforme del diritto nelle varie nazioni. Una premessa necessaria per l'applicazione del diritto internazionale privato, e insieme un ausiliario potente della politica legislativa. Codesta generalizzazione deve essere prudente e aderente alla realtà. Deve essere perciò fondata sulla concreta affinità dei diritti vigenti, che per comune derivazione etnica o per comunanza di cultura storicamente affermatasi abbiano uno sfondo comune. Il gruppo dei diritti latinogermanici da un lato e quello dei diritti anglo-americani dall'altro potrebbero già prestarsi all'adozione di norme giuridiche sempre più generali: i diritti orientali potrebbero formare un altro complesso suscettibile di progressivi adattamenti verso l'uniformità.
Per i suoi lati pratici la comparazione dei diritti non interessò soltanto gli scienziati, ma i legislatori e gli avvocati e i giudici. Fin dal 1869 sorse nella Francia, che si vanta delle fortune del codice napoleonico emulo della legislazione giustinianea, una Société de legislation comparée; ebbe a suoi organi l'Annuaire de législation comparée e un Bulletin mensuel de la Société de législation comparée, e nel 1922-1923 poté celebrare il proprio centenario con un bel volume su Les Transformations du droit depuis cinquante ans dans le principaux pays. Nel 1908 un istituto analogo sorse nel Belgio, avendo a organo un bollettino e una Revue de l'Institut du droit comparé. In Germania si costituì nel 1915 una International vereinigung für vergleichende Rechtswisscnschaft che annualmente pubblica il suo Jahrbuch. Dal 1927 vi si pubblica anche, per iniziativa di E. Rabel, una Zeitschrift fur ausländisches und Internationale Privatrecht. L'Italia, che gli studî comparativi del diritto non aveva trascurati mai, creò il suo Istituto di studî legislativi, che sin dal 1928 pubblica un suo annuario (Annuario di diritto comparato e di studî legislativi, Milano 1928 segg., a cura di S. Galgano). E appunto in Roma fu posta nel 1928 la sede dell'Istituto internazionale per l'unificazione del diritto privato, posto sotto l'egida della Società delle nazioni.
I cultori del diritto comparato sogliono naturalmente dedicarsi con speciale cura a quel ramo di esso, di cui sono particolarmente competenti: e si son già viste delle trattazioni di diritto civile comparato, di diritto commerciale comparato, di diritto pubblico comparato, di diritto amministrativo comparato, ecc. Alla nuova disciplina e ai diversi suoi rami si sono anche dedicate cattedre apposite.
Il lavoro di confronto è agevolato da imprese editoriali che si propongono di pubblicare le leggi del mondo raggruppate secondo l'identità dell'oggetto. Abbiamo già lodevoli raccolte per il diritto commerciale, per il civile, il processuale, l'amministrativo. E a offrire un primo orientamento si è già pensato alla redazione di speciali dizionarî di diritto comparato.
Bibl.: R. Saleilles, Conception et objet de la science du droit comparé, in Bulletin de la Société de législation comparée, XXIX (1899); id., La fonction juridique du droit comparé, in Zur Festgabe des Auslands zu J. Kohlers 60. Geburstag, Stoccarda 1909; G. Trade, Le droit comparé et la sociologie, in Bulletin de la Société de législation comparée, 1900; E. Zitelmann, Aufgabe und Bedeutung der Rechtsvergleichung, in Deutsche juristique Zeitung, V (1900); E. Lambert, La fonction du droit civil comparé, Parigi 1903; G. Del Vecchio, Sull'idea di un diritto universale comparato, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, XLV (1909); Haynes, L'étude du droit comparé, in Revue trimestrelle du droit civil, VIII (1909); J. Kohler, Über die Methode der Rechtsvergleichung, in Zeitschrift für das privat und öffentliche Recht des Gegenwart, 1901; E. Carusi, Il problema del diritto comparato, in Atti della Soc. ital. per il progresso delle scienze, 1917; P. De Francisci, la scienza del diritto comparato secondo recenti dottrine, in Riv. ital. della filos. del diritto, I (1921); H. Lévy-Ullmann, De l'utilité des études comparatives, in Revue de droit, Quebec 1923; E. Lambert, L'enseignement du droit comparé, Parigi 1919; L. Paumier, Introd. au droit comparé, nuova ed., Parigi 1924; E. Rabel, Aufgabe und Notwendigkeit der Rechtsvergleichung, München 1925; F. Messineo, L'indagine comp. negli studî giuridici, Milano 1930.
Diritto pubblico e diritto privato.
La distinzione fra diritto pubblico e diritto privato, come due parti in cui si distribuiscono gli elementi di uno stesso ordinamento giuridico, si trova già nei giureconsulti romani, fra le cui definizioni è rimasta celebre quella di Ulpiano, riferita nel Digesto (I,1, de iust. et iure,1,2)- "ius publicum est quod ad statum rei romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem". La distinzione, trascurata e quasi scomparsa nell'età di mezzo sotto i principî dello stato patrimoniale, si riafferma nell'età moderna fino dallo stato di polizia e costituisce oggi la base di ogni partizione nel campo del diritto. Oltremodo numerosi sono peraltro i criterî usati per la distinzione. In primo luogo, sono da ricordare quelle definizioni che s'ispirano a criterî sostanziali, al pari di quella di Ulpiano: si tien conto, cioè, dell'interesse, sociale o individuale, generale o particolare, che forma oggetto della norma, del rapporto o di altro elemento dell'ordinamento giuridico. Però, la distinzione deve riguardare differenze intrinseche esistenti fra le norme e fra i rapporti, non quelle che concernono oggetti estranei agli elementi dell'ordinamento, pur potendo essere causa di differenze fra tali elementi.
Fra le dottrine che, seguendo tale metodo, partono da considerazioni formali, cioè esclusivamente giuridiche, alcune assumono come criterio il soggetto, al quale il diritto oggettivo può riferirsi, secondo che esso sia lo stato (o una comunità in genere) oppure singole persone. Altri, considerando che non nella qualità dei soggetti ma nell'essenza del rapporto deve consistere la distinzione, definiscono come pubblici i rapporti nei quali un soggetto appare investito di supremazia, di imperium, verso gli altri soggetti del rapporto stesso. Una formulazione particolare di questa distinzione è quella per cui nel diritto pubblico i rapporti si stabiliscono e si svolgono in forza di provvedimenti, ossia di atti unilaterali, il che invece non avviene nel diritto privato. Siccome però, secondo questo criterio, non sarebbero pubblici i rapporti fra più stati o fra più comunità, perché basati sulla reciproca eguaglianza e derivanti da atti plurilaterali, così è stato sostituito da alcuni al carattere di supremazia del rapporto la posizione di supremazia dei soggetti, o di uno di essi, verso altri che al rapporto e allo stesso ordinamento possono essere anche estranei (come i sudditi rispetto ai rapporti fra gli stati). In tal modo il criterio si può ridurre a quello soggettivo già ricordato, e, anche se meglio precisato, partecipa al difetto logico originale di esso. È ancora da far cenno di una tendenza, che viceversa assumerebbe come carattere distintivo la natura dell'oggetto: in quanto la patrimomalità di esso indicherebbe sempre i rapporti di diritto privato. A parte ogni altra considerazione, il diritto moderno conosce numerosi diritti pubblici patrimoniali (demanio, tributi, ecc.). Di fronte a questi e ad altri tentativi di definire dualisticamente l'ordine giuridico, sta una tendenza, che è stata a ragione detta monistica, la quale, sia per ragioni teoriche, sia per queste pratiche difficoltà, giunge a negare completamente la distinzione. Viceversa, dobbiamo riconoscere che mentre ogni altra distinzione, essendo basata solo sulla diversa attività sociale a cui il diritto si riferisce, è estranea alla natura di esso e fatta solo per soggettiva utilità della nostra conoscenza; quella fra diritto pubblico e privato è distinzione che l'ordinamento presenta naturalmente, perché effettivamente fondata sopra caratteri intrinseci diversi delle varie parti di esso.
Assumendo la dottrina che sembra avere colto realmente l'essenza della distinzione, si deve considerare la diversa importanza sociale degl'interessi come causa del differenziarsi dei varî elementi dell'ordinamento giuridico e porre tale differenza nei seguenti termini. Un ordinamento, p. es., lo stato, regola direttamente con proprie norme e cura con propria attività quelli fra gl'interessi sociali che reputa più importanti e generali, mentre abbandona alla libertà e all'autonomia meramente lecita di altri soggetti (individui o collettività) quegli altri interessi che, pur reputando degni di tutela, non crede dover regolare e curare direttamente. Alla prima categoria corrisponde il diritto pubblico, all'altra il diritto privato. È vero che esistono soggetti autonomi, il cui ordinamento e la cui attività rientrano nel diritto pubblico (come i comuni, le provincie, gli enti sindacali): ma gl'interessi, che a essi fanno capo, non si possono dire loro abbandonati dall'ordinamento dello stato, ma piuttosto affidati, perché, sotto il controllo dello stato e quali forme indirette della sua attività, siano curati come interessi dello stato stesso: non sono autonomie soltanto lecite, ma funzionali dell'ordinamento. Ciò che si dice per lo stato, vale per qualunque altro ente d'una certa complessità, come la chiesa, la comunità degli stati, ecc. Quindi si può concludere con la definizione seguente: "il diritto pubblico è la sfera dell'ordinamento di un ente, che dipende dall'ente stesso considerato nella sua unità o nei suoi elementi che hanno un'autonomia soltanto funzionale; mentre il diritto privato è quella parte dell'ordinamento che lo stesso diritto pubblico, limitandosi, riserva alle autonomie meramente lecite" (Romano). Così, tutti gli altri caratteri (della supremazia dei soggetti, dell'inderogabilità delle norme, dell'unilateralità degli atti, ecc.) non sono che conseguenze eventuali della differenza, mentre poi la natura dei varî interessi non è che la causa di essa: senza che niente di tutto ciò s'identifichi o si confonda con la distinzione. Il diritto privato, se da un lato "sub tutela iuris publici latet", dall'altro ripete da questo la sua esistenza e la sua estensione, in quanto deriva da una limitazione di esso, che potrebbe anche mancare.
Quest'ultimo accenno dimostra quanto inesatta sia l'opinione, molto diffusa un tempo e non ancora universalmente abbandonata, che attribuirebbe al diritto privato valore di diritto comune, assegnando al diritto pubblico la posizione di un diritto eccezionale o speciale di fronte a quello. Tale opinione ha una ragione puramente storica ed estrinseca: la maggiore estensione e completezza che presentavano un tempo le fonti scritte del diritto privato in confronto alla frammentarietà di quelle del diritto pubblico. Il moderno sviluppo della legislazione pubblicistica esclude oggi anche tale giustificazione, che a ogni modo non sarebbe sostanziale. Esistono, tuttavia, fra i due campi relazioni e interferenze, che valgono a provare come la distinzione, per quanto essenziale, sia pur sempre relativa e non giunga a rompere la fondamentale unità dell'ordinamento giuridico.
a) È in primo luogo da considerare l'esistenza di varî istituti comuni così al diritto pubblico come al diritto privato: tali quello della personalità e della capacità giuridica, quello dell'atto giuridico, della responsabilità e, secondo alcune scuole, anche quelli della proprietà e del contratto. Tuttavia anche tali istituti, accanto ad alcuni elementi comuni, che ne costituiscono la struttura fondamentale, ne presentano altri particolari e distinti, che ne determinano un diverso atteggiamento nei due campi giuridici. Spesso avviene che i detti principî comuni si trovano enunciati soltanto nelle fonti del diritto privato, come ramo più antico e più sviluppato: in tale ipotesi, e limitatamente a questi punti, le norme del diritto privato sono fonte altresì di diritto pubblico.
b) Il commercio giuridico privato non è del tutto scevro da ingerenze dirette dell'ordinamento pubblico dello stato e dell'attività di organi pubblici di esso: norme legislative d'ordine pubblico, inderogabili dai privati, e atti amministrativi di controllo, come le autorizzazioni e le omologazioni nei riguardi di certi negozî compiuti nell'interesse degli enti morali e delle persone fisiche incapaci, intervengono spesso a limitare l'autonomia dei privati per fini d'interesse sociale e generale. Gli atti di volontà, poi, in cui si estrinseca questa autonomia, hanno bisogno in molti casi di un'attestazione pubblica, ora per poter dispiegare alcuni dei loro effetti, ora addirittura per conseguire esistenza giuridica. Tali le iscrizioni, le trascrizioni, le registrazioni di determinati contratti, la celebrazione del matrimonio, la registrazione dei diritti sopra beni immateriali. Queste forme d'ingerenza sono state talora designate con l'espressione comprensiva di "amministrazione pubblica del diritto privato"
c) Gli enti di diritto pubblico, infine, in alcuni rapporti giuridici si sottopongono talora alla disciplina del diritto privato: onde la necessità di una discriminazione della precisa natura dei rapporti, che i detti enti volta per volta pongono in essere. Oltre a ciò, è , da tener presente che anche i rapporti che cadono nel campo privatistico dànno luogo all'applicazione dei principî del diritto pubblico per tutto ciò che riguarda la formazione della volontà degli enti pubblici, la quale deve seguire sempre secondo le norme del diritto che è loro più naturalmente proprio.
Così il diritto pubblico come il diritto privato si usano distinguere in varie parti, la cui autonomia, peraltro, non è sempre egualmente e pienamente dimostrabile:1. naturalmente distinto, nel campo del diritto pubblico, si presenta il diritto costituzionale: distinto sia per i suoi caratteri formali, distinguendosi, specie nel diritto italiano (legge 9 dicembre 1928, n. 2693, art. 12), la categoria delle leggi costituzionali da tutte le altre leggi, che in contrapposto si dicono ordinarie; sia per il contenuto, riguardando esso le basi stesse dell'ordinamento giuridico, quelle da cui quest'ultimo assume la fisionomia che lo distingue dagli altri e da cui tutte le sue parti prendono alimento (il sistema di governo, il modo di formarsi e di divenire dell'ordinamento e del diritto, la posizione dei sudditi nello stato, ecc.). Rispetto a questa parte, che si può considerare come il tronco centrale di tutto l'ordinamento, le altre si presentano come altrettanti rami, che da quel tronco si partono. La distinzione di questi ultimi è data esclusivamente dalla diversa materia. Così, salvo più precisa definizione da ricercarsi sotto le singole voci, abbiamo: 2. il diritto amministrativo, concernente nei suoi particolari l'ordinamento, le attività e il funzionamento della pubblica amministrazione; 3. il diritto processuale o giudiziario, civile e penale, che riguarda l'ordinamento e il funzionamento dei tribunali giudiziarî; 4. il diritto penale, che riguarda l'attività criminosa dei sudditi e predispone le sanzioni che lo stato deve applicare nella sua funzione di giustizia punitiva. L'autonomia diminuisce fortemente nelle rimanenti specificazioni, fatte principalmente a scopo sistematico. Tali sono nell'ordinamento italiano; 5. il diritto finanziario, che è una parte del diritto amministrativo; 6. il diritto ecclesiastico, che risulta a un tempo da norme di diritto costituzionale, di diritto amministrativo, di diritto privato e da principî proprî di un ordinamento diverso da quello statale, l'ordinamento della chiesa. Il diritto internazionale è un ordinamento estraneo a quello dello stato, e, solo per utilità di trattazione, è considerato con alcune parti del diritto pubblico interno, che più si connettono ai rapporti e ai doveri dello stato verso gli altri stati.
Di fronte ai numerosi rami del diritto pubblico, due soltanto sono le parti in cui viene tradizionalmente diviso il diritto privato: 1. il diritto civile; 2. il diritto commerciale. Il primo, che è la parte più vasta e più antica, comprende tutta l'autonomia della vita giuridica privata (stato personale e di famiglia, signoria delle persone sulle cose, rapporti di obbligazione fra le persone, successioni); il secondo concerne solo una parte dei rapporti obbligatorî: quelli che costituiscono l'attività commerciale. Per la nozione di questa attività e per le ragioni che giustificano rispetto a essa un diritto privato speciale e un apposito codice separato dal codice civile, v. oltre, p. 998 segg.
Non ha una posizione netta, nella partizione fondamentale, il diritto marittimo, le cui norme, sebbene riunite dallo stesso legislatore in un codice apposito, appartengono in parte al diritto privato (specialmente commerciale), in parte al diritto pubblico (amministrativo e penale). È poi tuttora oggetto di elaborazione la sistemazione del diritto del lavoro, il quale rientra nel diritto pubblico in quanto riguarda la legislazione sociale, l'ordinamento sindacale e i rapporti collettivi; nel diritto privato per quanto riguarda i rapporti individuali del lavoro. Nella più recente dottrina italiana, in considerazione dell'importanza che l'ordinamento sindacale e corporativo assume nello stato fascista, come principio informatore di tutto l'ordine giuridico, si sta affermando la tendenza a separare il diritto corporativo dal diritto del lavoro, costituendolo in un ramo giuridico autonomo, che ricadrebbe evidentemente nel diritto pubblico. Una diversa tesi, pur favorevole al distacco del diritto corporativo dal diritto del lavoro, non giungerebbe tuttavia a riconoscere a esso una propria autonomia, inquadrandolo piuttosto nel diritto costituzionale o, secondo altri, nel diritto amministrativo.
Lo studio di queste varie parti del diritto pubblico e del diritto privato dà luogo ad altrettante scienze giuridiche, che prendono nome dal loro rispettivo oggetto. Possono, per altro, le stesse materie essere assunte a contenuto di alcune scienze non giuridiche, quali principalmente: la politica, la scienza dell'amministrazione, la politica criminale, la politica economica, commerciale e doganale, e altre. Senza entrare nei particolari circa il contenuto di queste varie discipline (per alcune delle quali esso è ancora oggetto di discussione: v. le rispettive voci), rileviamo soltanto che, mentre le scienze giuridiche studiano le varie parti dell'ordinamento dello stato da un punto di vista descrittivo e statico, le altre scienze, fra cui massimamente la politica, studiano le medesime da un punto di vista critico e dinamico.
Bibl.: F. Weir, Zum Problem eines einheitlichen Rechtssystems, in Archiv f. öff. Recht, XXIII (1908); O. Ranelletti, Principî di dir. amm., Napoli 1912, pp. 479-531; A. D'Eufemia, Il dir. priv. e il der. pubbl., Napoli 1912; Schenk, Die Abgrenzung ds öffentl. u. priv. Rechts, in Öst. Zeitschr. f. öff. Recht, I (1914), p. 63 segg.; L. Raggi, Ancora sulla distinzione fra dir. pubbl. e privato, in Riv. it. per le scienze giur., 1915; S. Zanobini, Sull'amministr. pubbl. del dir. privato, in Riv. di dir. pubbl., X (1918); F. Ferrara, Tratt. di dir. civ., I, Roma 1921, pp. 71-80; S. Romano, Corso di dir. costit., 2ª ed., Padova 1928, pp. 4-16; G. A. Walz, Vom Wesen des öffentlichen Rechts, Stoccarda 1928; A. Gysin, Öffentl. Recht u. Privatrecht, in Zeitschr. f. öff. Recht, 1930.
Diritto costituzionale.
Questo nome indica una delle scienze particolari in cui si specificano le varie parti delle scienze giuridiche; indica pure (come avviene in generale per le denominazioni degli altri rami del diritto) l'esposizione sistematica di quelle norme dell'ordinamento che costituiscono l'oggetto di uno studio scientifico. In quanto scienza, il diritto costituzionale fa parte di quelle di diritto pubblico in antitesi a quelle di diritto privato, secondo la vecchia distinzione romana, che si è poi sempre mantenuta nelle sue linee essenziali. Quanto al contenuto specifico della scienza stessa, esso sarebbe fatto abbastanza palese dal suo nome, che letteralmente importa lo studio di quella parte del diritto che si riferisce alla costituzione dello stato. In verità, ogni gruppo sociale, di origine sia naturale (famiglia, comune), sia volontaria (associazioni in generale) presuppone necessariamente un suo ordinamento obbligatorio, e quindi una sua costituzione; ma siccome lo stato rappresenta la forma giuridicamente superiore e più caratteristica fra le organizzazioni sociali, così l'espressione costituzione può essere presa, ed è presa, in un senso antonomastico, cioè come la costituzione dello stato. Segue da ciò che la definizione di diritto costituzionale si collega con la definizione di costituzione, e si potrebbe fare, e potrebbe bastare, un rinvio a questa voce (XI, p. 656). Sennonché a questa posizione della questione, che pur essendo esatta è desunta per via puramente teorica, si contrappongono le specialità dell'origine storica di quella scienza e del modo della sua trattazione.
L'idea, infatti, di una trattazione scientifica autonoma delle varie parti del diritto può dirsi relativamente recente: lo stesso Ulpiano, quando contrappose il ius publicum al privatum, li considerò non come scienze diverse, ma come semplici positiones. Nato da necessità pratiche, il diritto considerò la soluzione delle varie questioni concrete che la realtà poneva, in maniera se non identica logicamente simmetrica e sempre in relazione a fonti comuni, se pure da interpretare con spirito diverso. Dall'altro lato, l'idea pura di stato apparve all'antichità classica e allo stesso Medioevo nella sua vasta complessità, con prevalenza di quegli aspetti di essa che hanno carattere filosofico e politico. Una certa tendenza nel senso d'isolare i problemi del diritto attinenti allo stato e di considerarli come una forma autonoma e specializzata di scienza giuridica, comincia assai tardi, e cioè con le scuole di diritto naturale che fiorirono nei secoli XVII e XVIII. Tale tendenza tuttavia è affatto embrionale; e quelle scuole rimȧngono nel campo di costruzioni astratte, in cui l'elemento puramente razionale, filosofico o politico, assorbe in sé quello tecnico-giuridico, di guisa che il più delle volte quest'ultimo ne rimane sopraffatto.
Intanto, sotto l'influenza appunto del giusnaturalismo, due rivoluzioni, l'americana e la francese, mentre chiudono il sec. XVIII e aprono e informano di sé il XIX, fanno trionfare il sistema di fondare tutto il diritto pubblico su documenti scritti, detti carte costituzionali, o statuti, o semplicemente costituzioni; su documenti, cioè in cui in forma solenne e irrevocabile, almeno da parte dei governanti, con varia ampiezza e sistema, sono consacrati i principî fondamentali dell'ordinamento politico dello stato, le garanzie essenziali che limitano, equilibrandole, le attribuzioni degli organi sovrani e assicurano la libertà politica e civile dei cittadini. Per tal modo, la parola costituzione viene ad assumere un senso più speciale e nel tempo stesso più materiale, in rapporto a quel senso generale cui accennammo in principio; e cioè come il documento stesso in cui l'ordinamento dello stato veniva espresso, nei suoi elememi essenziali. Inoltre, sotto l'influenza delle idee politiche dominanti in quel periodo storico, tali costituzioni (che furono adottate dalla generalità di tutti gli stati civili) rispecchiarono le istituzioni dello stato rappresentativo moderno, detto anche, sempre per la stessa antonomasia, stato costituzionale; il che, ben inteso, non significava già uno stato che avesse una costituzione (posto che ogni stato ha necessariamente, e sempre, una costituzione) ma uno stato che avesse una costituzione scritta, con un contenuto di reggimento politico di quella speciale natura.
Avvenne così, in maniera spontanea, che, per la loro stessa grande solennità e importanza, siffatti testi costituzionali diventassero oggetto di uno studio speciale e continuo, diretto a esporre, a commentare, a illustrare lo spirito e le disposizioni di quelli, e che a siffatto studio si desse un'apposita rappresentanza autonoma nell'insegnamento universitario. Se ne trovano le primissime tracce proprio nelle scuole d'Italia, in quella Repubblica Cisalpina, effimera creazione delle prime vittorie bonapartiste, e che ebbe pure una sua costituzione, nel 1797, sia pure come copia del modello francese; in maniera più autorevole e soprattutto più stabile, viene poi istituita a Parigi, nel 1834, ed è coperta da un professore italiano, Pellegrino Rossi, una cattedra gli diritto costituzionale per l'esposizione e lo studio della Carta francese del 1830. Da questo momento, può dirsi che si afferma definitivamente l'esistenza di una scienza autonoma, la quale assume bensì il titolo di "diritto costituzionale", ma nelle gravi - se pur naturali - incertezze e deficienze dei primi passi dà a quel titolo un senso particolarmente ristretto e insufficiente. Così per esempio, i primi trattatisti italiani diedero del diritto costituzionale una definizione che ne limitava la portata ai soli stati costituzionali e rappresentativi o, quanto meno, agli stati liberi. Quando poi si affermò in Italia (Orlando, 1885; cfr. S. Romano, Corso di diritto costituzionale, 1926, p. 16) e divenne prevalente la scuola che volle sottoporre a una radicale revisione critica la scienza stessa, specie sotto l'aspetto metodico e sistematico per rivendicare il carattere propriamente giuridico di essa, fu allora fra l'altro rilevato l'arbitrio e il difetto sistematico di quel modo di concepire la definizione della scienza stessa. E ora nessuno più dubita che l'oggetto del diritto costituzionale presupponga la costituzione nel suo senso più ampio, cioè così le basi dell'ordinamento giuridico dello stato, come l'intima struttura onde si organizza e si esplica il potere sovrano dello stato stesso, indipendentemente tanto dalle forme che la costituzione stessa possa assumere, come scritta o non scritta, quanto dal riconoscimento di questo o di quel tipo di governo. Così, l'influenza dell'origine storica ha ceduto alla determinazione razionale e oggettiva, e si è quindi tornati a quello che sarebbe il puro senso etimologico dell'espressione, secondo quanto si è già detto.
Considerando poi la maniera con cui il contenuto della scienza viene sistematicamente disposto, diremo sommariamente che suole precedere una parte generale in cui trova luogo lo studio delle teorie fondamentali, quali la stessa nozione di stato, nella sua natura e nei suoi elementi (territorio, popolo, potere di dominio); le categorie storiche e nazionali della sua formazione e dei suoi caratteri, (se e in quanto sovrano; se e in quanto persona giuridica); i momenti essenziali del suo ordinamento giuridico (organi e rappresentanza, funzioni); le varie forme di governo con cui l'ordinamento si attua, ecc. Alle teorie generali segue poi lo studio particolare degl'istituti giuridici di cui consta in concreto la costituzione di uno stato determinato e quindi, in Italia, secondo il diritto positivo d'Italia, primieramente degli organi sovrani, in secondo luogo delle competenze loro, seguendo la triplice distinzione di legislazione, governo e giurisdizione (o, come si dice, meno esattamente, di potere legislativo, esecutivo e giudiziario). Si considera infine l'argomento delle garanzie dei cittadini verso l'autorità dello stato (teoria dei diritti pubblici soggettivi o diritti di libertà).
Questo è dunque il contenuto della scienza che ne attua il compito, quale si è definito. Che se poi tale concetto si confronta con altre tendenze o aspirazioni scientifiche che hanno autorevole seguito ed effettiva importanza, non si può tacere di quella, originariamente propria della letteratura tedesca ma ora largamente diffusa dovunque, per cui, in sostanza, quelle due parti generali di un'unica scienza darebbero invece luogo a due distinti ordini di studio e d'insegnamento. L'uno considererebbe il diritto dello stato nei suoi elementi generali e nelle dottrine fondamentali (in larga corrispondenza con la prima delle due parti indicate dianzi); l'altro un determinato diritto costituzionale positivo, che sarebbe quello relativo a un singolo stato nel suo ordinamento concreto, e ciò in corrispondenza al contenuto della seconda divisione, con la tendenza di ampliarlo alquanto, comprendendovi anche alcuni argomenti che in Italia sono studiati come diritto amministrativo. Si avrebbe dunque da un lato un diritto pubblico generale (Allgemeines Staatsrecht dei Tedeschi) e dall'altro lato un diritto pubblico italiano, o tedesco o francese, e così via. Questa distinzione ha lati certamente assai seducenti. Si rivolge ad essa l'obiezione che non sarà mai possibile a una scienza, per quanto generale, di prescindere da riscontri di diritto positivo e a una scienza di diritto positivo di prescindere affatto dai principî generali. La quale obiezione, per quanto in sé stessa vera, ha forse il difetto di provare troppo, poiché essa, più o meno, si può rivolgere a ogni nuova specificazione fra le scienze, ognuna di esse avendo sempre bisogno di collegarsi con altre, specialmente con le più affini. Comunque, secondo l'ordinamento ufficiale degli studî in ltalia, se anche in qualche facoltà di giurisprudenza è stata istituita una cattedra di diritto pubblico generale, essa ha un carattere complementare ed eccezionale, mentre invece in tutte, organicamente, si riscontra l'insegnamento del diritto costituzionale, il quale di regola viene inteso nel modo che la presente trattazione ha precisato.
Bibl.: Citeremo i più importanti trattati di diritto costituzionale italiano e alcuni stranieri, nei quali, consultando rispettivamente le premesse generali, si potranno anche riscontrare i punti di vista sistematici sulla definizione della scienza. Trattati italiani: G. Saredo, Principî di diritto costituzionale, Parma 1862; L. Casanova, Lezioni di diritto costituzionale, Torino 1876; G. Palma, Corso di diritto costituzionale, 3ª ed., voll. 3, Firenze 1883-1885; A. Brunialti, Il diritto costituzionale e la politica nella scienza e nelle istituzioni, voll. 2, Torino 1896-1900; G. Arcoleo, Diritto costituzionale. Dottrina e storia, Napoli 1907; V. Miceli, Principî di diritto costituzionale, 2ª ed., Milano 1913; G. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto costituzionale italiano, Torino 1913; V.E. Orlando, Principî di diritto costituzionale, 5ª ed., Firenze 1888-1917; P. Chimienti, Manuale di diritto costituzionale, voll. 2, Roma 1918-1920; E. Presutti, Istituzioni di diritto costituzionale, 2ª ed., Napoli 1920; G. Mosca, Appunti di diritto costituzionale, 2ª ed., Milano 1921; S. Romano, Corso di diritto costituzionale, Padova 1926. Tra i francesi: L. Duguit, Traité de droit constitutionnel, voll. 4, 3ª ed., Parigi 1921 segg.; Hauriou, Précis de droit constitutionnel, Parigi 1923. Tra i tedeschi: M. Seydel, Grundzüge einer allgemeinen Staatslehre, 2ª ed., Friburgo in B. 1889 (trad. it., in Biblioteca di scienze politiche, s. 2ª, Torino 1892 segg., VIII); P. Laband, Staatsrecht des deut. Reiches, 5ª ed., Tubinga 1911-15 (trad. it. in Bibliot. sc. pol., s. 3ª, Torino 1912 segg., VI); G. Jellinek, Das Recht des modernen Staats, 3ª ed., Berlino 1914 (trad. it. con aggiunte di V.E. Orlando, I, Milano 1921); H. Kelsen, Allgemeine Staatslehre, Berlino 1925. Tra gl'inglesi: W. Anson, The law and custom of the constitution, 3ª ed., Londra 1897-1907 (trad. franc., Parigi 1903). Tra gli americani: M.T. Cooley, The general principles of constitutional law, 2ª ed., Boston 1891 (trad. in Bibl. sc. pol., s. 2ª, Torino 1892 segg., VI).
Diritto amministrativo.
Logico presupposto della nozione di diritto amministrativo è quella di amministrazione pubblica, il diritto amministrativo essendo infatti il ramo di diritto che a questa si riferisce. Ma poiché di essa, come è noto, si può avere un duplice concetto, oggettivo e soggettivo (v. amministrazione pubblica), il diritto amministrativo concerne l'amministrazione soggettivamente considerata. Resta perciò fuori del suo campo l'attività degli organi legislativi, anche quando abbia il carattere di amministrazione nella sua determinazione oggettiva e neppur vi rientra l'attività degli organi giudiziarî diversa da quella di mera organizzazione. Così, né l'emanazione delle leggi puramente formali, né l'esercizio della giurisdizione volontaria sono disciplinati da questo diritto, mentre spetta a esso di regolare anche l'attività degli organi amministrativi che ha indole di legislazione o di giurisdizione, come l'emanazione dei regolamenti e la tutela in forma contenziosa dei diritti e degl'interessi lesi dall'azione amministrativa. Naturalmente, il diritto amministrativo non può riguardare che il lato giuridico dell'amministrazione: sfuggono alla sua comprensione il lato politico e i varî lati tecnici. Restano quindi da questa esclusi gli atti dei supremi organi del potere esecutivo che sono immediatamente sottoposti alle elastiche direttive della politica della quale esprimono l'indirizzo e che portano il nome di "atti di governo" o "atti di potere politico", come, ad esempio, alcuni di quelli concernenti i rapporti con gli stati stranieri, o i sommi interessi della tutela dell'ordine pubblico e della disciplina dell'economia nazionale, ecc. Ma neppure tutto il lato giuridico dell'amministrazione è proprio del diritto amministrativo, perché, in quanto gli organi di essa operano valendosi dei mezzi che l'ordinamento giuridico offre ai privati per conseguire i loro scopi, spetta al diritto privato, civile e commerciale, di regolare la loro attività. Ciò, peraltro, è solo in parte vero, quando particolarità di forma e di procedimento che possono riflettersi sull'efficacia differenzino gli atti degli organi amministrativi dagli atti sostanzialmente analoghi dei privati, in tal caso sembrando logico riferire al diritto amministrativo la speciale disciplina di quegli atti.
Il lato giuridico dell'amministrazione è costituito dal complesso dei rapporti giuridico-amministrativi, che possono distinguersi in tre gruppi: a) rapporti dello stato e degli enti autarchici con le persone fisiche e le persone giuridiche private; b) rapporti dello stato con gli enti autarchici; c) rapporti degli enti autarchici fra loro. Il primo gruppo poi può essere scisso in due sottogruppi, secondo che i rapporti fra le persone pubbliche e le private in esso compresi si riferiscano o no a queste come organi di quelle.
Per i rapporti ora indicati il diritto amministrativo è il diritto regolatore normale. Questo concetto si è fatto strada in dottrina alquanto faticosamente, essendo stato ritenuto in passato che il diritto amministrativo costituisse una sorta di diritto eccezionale di fronte al diritto civile, considerato come diritto normale per la disciplina dei rapporti stessi.
Il diritto amministrativo può esser definito come il complesso delle norme giuridiche regolatrici dei rapporti dello stato e degli enti autarchici, in quanto operano come persone pubbliche per i fini dell'amministrazione, sia fra loro, sia con i privati. Tale definizione riguarda il diritto positivo, ma poiché l'espressione "diritto" si assume talora a significare la scienza giuridica, di diritto amministrativo si parla anche per indicare quella parte della dottrina che concerne il diritto stesso e che oggi in Italia, come nella maggior parte degli stati per cultura più progrediti, s'insegna nelle scuole, si richiede come elemento di preparazione speciale per molti uffici e professioni e forma oggetto di ampia letteratura.
Nel complesso del diritto amministrativo possono tracciarsi, sulla scorta di diversi criterî, distinzioni varie. Una larga serie di queste, rispondente soltanto a finalità teoriche, poggia sulla considerazione dell'oggetto specifico dell'attività amministrativa regolata, che può essere rappresentato da un servizio o da un gruppo omogeneo di servizî, onde si distingue un diritto militare, un diritto sanitario, un diritto scolastico, ecc., o può invece essere rappresentato dall'organizzazione e dall'azione di un dato ente amministrativo, onde si distingue un diritto comunale, un diritto provinciale, ecc. Nel primo caso l'attività amministrativa viene considerata in ragione del contenuto, indipendentemente dalla qualità del soggetto che la esplica; nel secondo caso in ragione del soggetto, indipendentemente dal contenuto. Nel primo caso, però, si affaccia talora il problema della discriminazione del diritto amministrativo da altri rami di diritto che hanno relazione col contenuto di certe attività amministrative, problema non sempre facilmente risolubile per gli intimi nessi che collegano i varî elementi dell'ordinamento giuridico della materia; così, ad esempio, a proposito del diritto postale, del diritto ferroviario, del diritto aeronautico, ecc.
Meno notevole teoricamente, ma più importante dal punto di vista pratico, è la distinzione del diritto amministrativo secondo la sfera territoriale di applicazione, potendosi avere un diritto amministrativo nazionale e un diritto amministrativo regionale, o provinciale, o comunale, o coloniale.
Il diritto amministrativo è un ramo del diritto pubblico. Ma, oltre al diritto amministrativo che è parte del diritto pubblico interno e che è quello al quale ci si vuol riferire quando si designa senza alcuna aggiunta, si ha un diritto amministrativo che fa parte del diritto internazionale e che in questo si distingue per l'indole dei rapporti regolati, fra i quali primeggiano oggi quelli concernenti le unioni internazionali amministrative, come l'Unione postale universale, l'Unione telegrafica internazionale, ecc.
Qualche cenno meritano le relazioni del diritto amministrativo con alcuni dei rami nei quali, insieme con esso, viene di solito distinto il diritto pubblico interno e lo svolgimento di quel diritto in Italia.
Il diritto costituzionale, a ragione reputato il tronco originario del diritto pubblico, pone i fondamenti dell'organizzazione e delinea genericamente le funzioni dello stato, regolando particolarmente la posizione del capo dello stato, del capo del governo, dei ministri, del Gran Consiglio del fascismo e la funzione legislativa; il diritto amministrativo regola invece particolarmente l'organizzazione degli uffici amministrativi e lo svolgimento della loro attività.
Sulla determinazione delle relazioni fra diritto penale e diritto amministrativo ha influenza la soluzione della questione se il primo abbia o no carattere esclusivamente sanzionatorio: accogliendo l'affermativa, infatti, al diritto amministrativo sarebbe da ascrivere una parte delle norme primarie cui il diritto penale fornisce sanzione. Ma, anche seguendo la negativa, si deve riconoscere il legame che unisce certe norme penali a certe norme amministrative rivolte alla tutela d'identici interessi e il loro completamento reciproco, in grazia del quale la pena agisce come mezzo di coazione per l'osservanza di disposizioni amministrative e fra i compiti dell'amministrazione è quello di organizzare e attuare l'esecuzione penale. Particolarmente evidenti sono i rapporti fra norme che statuiscono sanzioni penali e norme che statuiscono sanzioni disciplinari, l'applicazione delle seconde spesso collegandosi all'applicazione delle prime; i rapporti fra norme che determinano i requisiti di alcune specie di atti amministrativi e norme che comminano pene per l'inosservanza degli obblighi portati da tali atti in quanto siano legittimi, o per l'emanazione ed esecuzione degli atti stessi in quanto siano illegittimi; infine i rapporti fra norme penali e norme amministrative in materia di contravvenzioni, dei quali si è largamente occupata la dottrina per sostenere o per combattere la configurazione di uno speciale ramo del diritto amministrativo denominato diritto amministrativo penale.
Piuttosto che di rapporti fra diritto amministrativo e diritto processuale è opportuno parlare di rapporti fra diritto amministrativo e diritto processuale civile e penale, perché, dato che un'attività giurisdizionale è esplicata anche da organi amministrativi, è necessario un diritto processuale amministrativo, che ormai tradizionalmente si considera parte del diritto amministrativo. E, appunto in dipendenza di ciò, assai strette si delineano le relazioni fra diritto amministrativo e diritto processuale, riguardo alla giurisdizione degli organi amministrativi, all'istruttoria e alla decisione dei ricorsi amministrativi semplici e all'accertamento delle responsabilità disciplinari. Ai rapporti di cui si tratta debbono anche riferirsi le non poche deroghe che la pr0cedura civile e quella penale subiscono quando una delle parti contendenti sia un'amministrazione pubblica, e più specialmente l'amministrazione dello stato, o quando l'imputato o il querelante sia un funzionario amministrativo investito di un dato ufficio o facente parte di una data organizzazione. Così, ad es., le comuni regole di competenza civile sono nel diritto italiano modificate per le controversie nelle quali è parte l'amministrazione dello stato e anche più per quelle in materia d'imposte; l'incompetenza assoluta dell'autorità giudiziaria può dall'amministrazione dedursi in modo speciale; la rappresentanza dell'amministrazione dello stato e di altre pubbliche amministrazioni in giudizio è regolata con norme particolari: i prefetti, i podestà, ecc., non possono essere sottoposti a procedimento per atti del loro ufficio senza autorizzazione sovrana; per le offese contro funzionarî che rappresentano un corpo amministrativo non si procede penalmente che dietro autorizzazione del corpo stesso o del suo capo gerarchico, ecc.
La distinzione fra diritto amministrativo e diritto finanziario risponde soltanto a esigenze espositive e didattiche e trova ragione nella particolare connessione che il secondo ha con le discipline economiche. Quindi la distinzione sussiste nel campo dottrinale e dà luogo a una serie di intimi rapporti fra le due materie, ma in sostanza le norme finanziarie non sono che una specie delle norme amministrative, perché rientra fra gli oggetti dell'attività amministrativa il provvedere alla raccolta e alla gestione dei mezzi necessarî alla cura degl'interessi pubblici. La determinazione dei rapporti fra diritto amministrativo e diritto corporativo dipende naturalmente dalla concezione o meno di questo come ramo per sé stante di diritto e dal carattere che viene riconosciuto al medesimo, materia che forma tuttora oggetto di vive discussioni.
Nello svolgimento del diritto amministrativo del regno d'Italia possono distinguersi cinque periodi. Il primo è quello che va dalla costituzione del regno sino al principio del 1865, periodo di adattamento del diritto degli antichi stati italiani conservato in vigore, e di preparazione del diritto nuovo più rispondente allo spirito e ai bisogni dell'Italia unità il secondo periodo va dal 1865 al 1887, periodo d'unificazione, di cauto esperimento e di lento sviluppo, ancora sotto l'influenza della legislazione del cessato regno di Sardegna, e rispecchiante vigile cura dell'autorità statale, dell'ordine, della sicurezza e della finanza pubblica; il terzo periodo va dal 1888 alla metà del 1915, periodo di larga espansione legislativa, con profonda revisione delle prime leggi unificatrici, con speciale dedicazione alle provvidenze sociali e con spiccato orientamento democratico; il quarto periodo va dalla metà del 1915 al 1922, periodo della legislazione di guerra e dell'immediato dopo guerra, frammentaria, occasionale, frettolosa, necessariamente contraddittoria nel complesso, se pur coerente in ciascuno dei successivi momenti segnati dalle più notevoli vicende di quell'agitato settennio; il quinto periodo va dal 1923 in poi, periodo di rinnovazione, lenta e superficiale prima, rapida e profonda dopo, tuttora in corso di svolgimento secondo le direttive fasciste.
Bibl.: Opere francesi: F. Moreau, Manuel de droit administratif, Parigi 1909; H. Berthélemy, Traité élémentaire de droit administratif, 11ª ed., Parigi 1926; M. Hauriou, Précis de droit administratif, 11ª ed., Parigi 1927; G. Jèze, Les principes généraux du droit administratif, 3ª ed., Parigi 1925-26.
Opere belghe: A. Giron, Le droit administratif de la Belgique, Bruxelles 1885; P. Errera, Traité de droit public belge. Droit constituionnel. Droit administratif, 2ª ed., Parigi 1918; M. Vauthier, Précis de droit administratif de la Belgique, Bruxelles 1928; M. Capart, Droit admin. élémentaire, Bruxelles 1930.
Opere spagnole: A. Posada, Tratado de derecho administrativo, 2ª ed., Madrid 1923; J. Gascón y Marín, Tratado elemental de derecho administrativo, 2ª ed., Madrid 1921; R. Fernández de Velasco, Resumen de derehco administrativo, Murcia 1921-22. Inoltre: F. Godonow, The principles of the administrative law of the United States, New York 1905; Y. Oda, Principles de droit administratif du Japon, Parigi 1028; P. Negulescu, Tratat de drept administrativ român, Bucarest 1930; F. Port, Administrative law, Londra 1929.
Opere di diritto austriaco: J. Ulbrich, Österreichischen Vewaltungsrechte, Vienna 1904; J. Prazák, Rakowské právo správní, Praga 1905; R. H. Herrnritt, Grundlehren des Verwaltungsrechts, Tubinga 1921.
Opere di diritto tedesco generale: G. Meyer-Dochow, Lehrbuch des deutschen Verwaltungsrechts, 6ª ed., Lipsia 1913; O. Meyer, Deutsches Verwaltungsrecht, 3ª ed., Lipsia 1924; F. Fleiner, Institutionen des deutschen Verwaltunsrechts, 7ª ed., Tubinga 1922; J. Hatschek, Lehrbuch des deutschen und preussischen Verwaltunsgrechts, 4ª ed., Lipsia 1924; W. Jellinek, Verwaltungsrecht, Berlino 1928; A. Merkl, Allgemeines Verwaltunserecht, Vienna 1928.
Nella bibl. italiana si distinguono le opere d'interesse storico da quelle che servono alla conoscenza del diritto attuale. Fra le prime, delle quali s'indica la data di pubblicazione nella prima ed.: D. Romagnosi, Principî fondamentali di diritto amm. onde tesserne le instituzioni, Milano 1814; G. Lorenzoni, Ist. del dir. pubblico interno pel Regno lombardo-veneto, Padova 1835-36; con tre volumi di appendici, 1836-39; P. Liberatore, Inst. della legislazione amministrativa vigente nel Regno delle Due Sicilie, Napoli 1836-40; G. Manna, Corso di diritto amministrativo, Napoli 1839-42; A. Lione, Elementi di diritto amministrativo esposti nella R. Università di Torino, Torino 1849; G. Rocco, Corso di diritto amministrativo, Napoli 1850-56; S. Scolari, Del diritto amministr., Pisa 1864; F. Persico, Principî di diritto amministrativo, Napoli 1866; G. De Gioannis Gianquinto, Corso di dir. pubbl. amministrativo, Firenze 1877-81; L. Meucci, istit. di diritto amministr., Torino 1879-85.
Fra le opere più recenti: V.E. Orlando e altri, Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, Milano 1897 segg., tuttora in corso di pubblicazione; V. E. Orlando, Principî di diritto amministrativo, 5ª ed., riveduta, Firenze 1925; O. Ranelletti, Principî di diritto amministrativo, Napoli 1912; un volume e prima puntata del secondo; id., Lezioni di diritto amministrativo tenute nella R. Università di Napoli negli anni scolastici 1920-21-22-23-24, Napoli 1921-24; S. Romano, Principî di diritto amministrativo, 3ª ed., Milano 1912; id., Corso di diritto amministrativo, padova 1930; C.F. Ferraris, Diritto amministrativo, Padova 1922-23, con appendice, 1924, integrato dall'opera: L'amministr. locale in Italia, Padova 1920; E. Presutti, Ist. di dir. amministrativo ital., 2ª ed., Roma 1917-20. Inoltre varî corsi di lezioni universitarie in litografia, specie di: A. Salandra (univers. Roma); O. Ranelletti (università Milano); F. Cammeo (univers. Padova); L. Raggi (univers. Genova); U. Forti (università Napoli); U. Borsi (univrs. Padova e Bologna, ecc.).
Diritto penale.
È la disciplina giuridica della criminalità e dei mezzi che lo stato appresta per combatterne le manifestazioni. E poiché questi mezzi oggi consistono non solamente nelle pene vere e proprie ma anche nelle misure di sicurezza, la denominazione di "diritto penale", a stretto rigore è inadeguata. Alcuni autori preferiscono la terminologia di "diritto criminale". Il diritto penale in senso largo è il complesso delle istituzioni penali, e cioè delle leggi penali, e da questo aspetto, esso s'identifica col codice penale (v. codice penale) e con le altre leggi che comminano pene per assicurare, con una particolare concezione, un determinato comportamento dell'uomo, ritenuto necessario e indispensabile per l'ordine sociale. Sotto altro aspetto, diritto penale è la scienza o dottrina che, in base alle leggi, costruisce il sistema punitivo.
Una questione fondamentale, dall'aspetto tecnico-giuridico, è la possibilità di configurare, in corrispondenza col diritto penale oggettivo (norme penali), un diritto penale soggettivo (facultas agendi). Il diritto penale si può infatti concepire, oltreché oggettivamente, soggettivamente, come un diritto dello stato all'applicazione della pena, cui dà luogo la trasgressione al comando (reato). Non tutti gli autori sono concordi nell'esistenza dello statale ius puniendi, perché ritiene taluno che il diritto di punire non sia niente altro che un potere o una potestà, che fa capo alla sovranità dello stato. Tuttavia, il diritto statale soggettivo di punire deve ammettersi, anche perché spiega la direzione antistatale del reato, fornisce una base salda alla teoria del processo, chiarisce la dottrina dell'esecuzione penale.
Le più lontane origini dello studio del diritto penale indicano una trattazione prevalentemente pratica. Pochi accenni di dottrina penale si trovano nei glossatori (Odofredo, Bartolo, Baldo); successivamente, sono da segnalare Guido da Suzzara, il bolognese Rolandino de Romanciis, cui si attribuisce un Parvus libellus de ordine maleficiorum, Alberto de Gandino col suo Libellus de maleficiis, Bartolo da Sassoferrato con ì trattati (Bannitorum, De carceribus, De percussionibus, ecc.). Nel Seicento, ebbe grande prestigio il romano Prospero Farinaci, il difensore di Beatrice Cenci, autore dei Praxis et theoricae criminalis libri. Gli ultimi rappresentanti di questa schiera di criminalisti pratici sono il romano Renazzi e l'aretino Cremani (nel sec. XVIII). Il primo grande nome di penalista che i tempi moderni offrono, è Cesare Beccaria (1738-1794), il quale però rappresenta piuttosto l'esigenza riformatrice dei tempi moderni, la critica delle leggi ancora spietate, il negatore della pena di morte. Il Filangieri (1752-1788), partendo, come il Beccaria, dal contrattualismo, svolgeva i principî generali che lo scrittore milanese aveva appena accennato e dava alla sua trattazione la concretezza matura di un codice. Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) s'ispirava al giusnaturalismo nella sua Genesi del diritto penale, nella quale fa largo posto all'esigenza della difesa sociale. Giovanni Carmignani (1768-1847), nei suoi Elementa iurisprudentiae criminalis, s'ispira un po' alla concezione del Beccaria, un po' al sistema del Romagnosi. La consapevolezza giuridica diventa massima in Francesco Carrara (1805-1888), il quale nel suo Programma del corso di diritto criminale costruì veramente il sistema giuridico punitivo, partendo dalla premessa che il reato è un ente giuridico consistente nella violazione di un diritto. Nel sistema carrariano, tutto si svolge per via di sillogismi, e le convinzioni filosofiche che l'autore ebbe, coincidenti con le vedute dei suoi tempi, restano come una premessa ideale, che non influisce sullo sviluppo del sistema. Con Carrara, quella che fu chiamata "scuola classica" del diritto penale raggiunge l'apice della perfezione. Essa può riassumersi in queste proposizioni: che si punisce il reato, che la pena ha carattere retributivo, che le particolarità individuali del delinquente (la pericolosità, in ispecie) interessano scarsamente.
Nella seconda metà dell'Ottocento, per l'efficacia generale spiegata dal metodo e dalle scienze naturalistiche, nasce quella corrente di studî che fu detta "scuola positiva" (o sociologica o antropologica) del diritto penale. Cesare Lombroso (1835-1909), Enrico Ferri (1856-1929), Raffaele Garofalo (nato nel 1852) sono gl'iniziatori di questo largo e vivace movimento. Ciascuno di essi rappresenta un punto di vista proprio: Lombroso immette nella scienza penale la biologia e l'antropologia; Garofalo vuol fondare la penalità sulla psicologia; Ferri concepisce tutta la scienza criminalistica in funzione della bio-psico-sociologia e il delitto come la risultante di un triplice ordine di fattori: antropologici, psichici, sociali. La caratteristica essenziale del positivismo, in confronto degli scrittori precedenti, è che il delinquente è un'individualità anormale; onde la responsabilità non è in funzione di particolari atteggiamenti o possibilità volitive individuali, e tutti sono imputabili. Pertanto, la sanzione va adeguata alla personalità individuale; inoltre, dovendo essa rieducare l'individuo alla vita sociale (prevenzione speciale), non può essere determinata a priori. Grandissima è stata l'influenza che la scuola positiva italiana ha avuto sulle legislazioni più recenti: numerosi sono gl'istituti legislativi che dimostrano tale influenza. La pericolosità criminale assunta come base di particolari misure diverse dalla pena, i provvedimenti contro gli anormali psichici, i minorenni, i recidivi, gli abituali, i professionali, ecc., la distinzione dei delinquenti in categorie, l'adozione di misure di sicurezza a tempo indeterminato, la condanna condizionale a favore dei soggetti non pericolosi, il perdono giudiziale, la "liberazione su parola", l'abolizione della segregazione cellulare continua, i sistemi penitenziarî basati sul lavoro, sono altrettante consacrazioni delle nuove teorie dovute alla scuola italiana. Di queste sono state criticate piuttosto le premesse filosofiche che le proposte riformatrici, perché non è facilmente accettabile la concezione naturalistica che intende spiegare il delitto riducendolo a fattori verificabili sperimentalmente. La tendenza critica modernissima è di distinguere: ammettendo cioè il determinismo somatico negli autori di gravi reati, che sono assai spesso commessi da individui anormali, e rivendicando la libertà per tutti gli altri soggetti, come capacità di condotta, possibilità selettiva, autodeterminazione (determinismo psichico). L'idealismo moderno ha portato un più profondo concetto di libertà: esso vede nell'individuo non il fenomeno particolare su cui l'universo intero influisce, ma l'unità pensante e operante dell'universo stesso, la sua realtà concreta. La responsabilità universale è la logica conseguenza di questa posizione. La filosofia moderna annulla, così, la vecchia distinzione fra imputabili e non imputabili, come l'aveva annullata il positivismo, che però partiva da un'antitetica premessa, il determinismo.
Sennonché il positivismo, se portò un soffio vivificatore sulla vecchia scienza, troppo limitata a esigenze puramente logiche e formali e avulsa dalla considerazione dell'uomo delinquente, fece temere, in un primo momento, l'eversione del diritto penale. L'antropologia, la psicologia, la sociologia nella concezione dei riformatori prendevano il sopravvento sul diritto, il quale dal Ferri venne concepito come un semplice capitolo della scienza complessiva della criminalità, la sociologia criminale. C'è voluta una maggiore consapevolezza metodologica, un regolamento più preciso dei confini di ciascuna scienza per assicurare l'autonomia e l'individualità scientifica propria del diritto penale. Questo non può essere dominato che dal metodo proprio di tutte le scienze giuridiche, che sono essenzialmente logico-normative.
Si può concludere che il cosiddetto metodo tecnico-giuridico, che negli ultimi anni si è largamente sviluppato, è non solo legittimo, ma altresì indispensabile e unico possibile nel diritto penale. E questa determinazione ha reso possibile un approfondimento concettuale assai notevole, perché ha fatto precisare, dal punto di vista logico, gl'istituti del diritto penale. Peraltro, tale approfondimento è andato di pari passo con l'esplorazione della costituzione delinquenziale, delle cause della criminalità, degli accertamenti di statistica criminale, con lo studio dei provvedimenti più idonei a infrenare la delinquenza. Il diritto penale, mentre ha rivendicato e attuato la propria autonomia come scienza, si è giovato, così, e continua a giovarsi dell'antropologia, della sociologia, della statistica, della politica criminali. E queste scienze, essenzialmente causali ed esplicative, spiegano tutta la loro importanza specialmente nel momento della critica delle leggi vigenti e della riforma legislativa.
Bibl.: E. Ferri, Principi di dir. criminale, Torino 1928; id., Sociol. crim., con prefazione di A. Santoro, 5ª ed., Torino 1930; U. Spirito, St. del dir. pen. ital., Roma 1925, voll. 2; S. Longhi, Prevenzione e repressione nel dir. penale attuale, Milano 1911; A. Rocco, Il problema e il metodo della scienza del dir. pen., in Riv. dir. proc. pen., Milano 1910; F. Grispigni, La dommatica giuridica ed il moderno indirizzo nelle scienze crimin., in Riv. dir. proc. pen., Milano 1920.
Diritto penale Militare. - la parte del diritto penale riflettente lo studio delle leggi penali militari, ossia del complesso dei precetti (comandi o divietí) muniti di sanzione penale (diritto sostantivo) e delle norme formali (diritto processuale), risultanti da leggi, regolamenti e bandi militari (art. 251 cod. pen. eserc.), e diretti a reprimere le violazioni degli speciali doveri incombenti ai militari come tali e alle persone a essi per determinati scopi assimilate, al fine di assicurare, in tempo di pace o di guerra, il conseguimento dei fini specifici, dell'organizzazione militare. La legge penale militare ha carattere prevalentemente politico; onde l'irrilevanza - a tenore del cod. pen. comune 1889 (art. 83, n. 3) - delle condanne per reati esclusivamente militari agli effetti della recidiva in relazione ai reati comuni e la loro esclusione, in via generale, dagli accordi concernenti l'estradizione. Ma, per il codice penale in vigore dal 1° luglio 1931, la recidiva è ammessa anche tra un reato contemplato in esso o in una diversa legge penale e un reato preveduto dai codici penali militari o da una particolare legge penale militare, anche se soltanto esclusivamente militare (art. 99). È un ramo speciale (non però eccezionale) del diritto penale; respinge di regola ogni interpretazione analogica; ammette l'estensiva nei limiti in cui può ritenersi consentita dalla legge penale comune. Prevale a questa in quanto vi deroga come ius singolare, dominato da criterî direttivi proprî; ma ai principî generali che la reggono fa talora richiamo - nonostante la sua autonomia - per taluni istituti o per fondamentali nozioni comuni e, generalmente, in tema d' interpretazione e di applicazione in rapporto al tempo. In Italia tale riferimento, salvo espressa disposizione in contrario, per quanto concerme i vigenti codici penali militari che, con le successive modificazioni, ne costituiscono la fonte precipua (cod. pen. eserc. e cod. pen. mil. mar., emanati con r. decr. 28 novembre 1869), s'intende fatto - per dottrina e giurisprudenza prevalenti - non al codice penale del 1889 (cui non sono coordinati), né al cod. di proc. pen. del 1913, bensì a quelli esistenti al momento della loro emanazione (cod. pen. sardo 1859; cod. proc. pen. 1865). Superata la pregiudiziale, secondo la quale un codice penale militare non dovrebbe contenere che le norme di deviazione dal diritto penale comune, i due codici presentemente in vigore (l'uno per l'esercito, l'altro per la marina) costituiscono testi legislativi in massima parte autonomi e fra loro distinti. Ma della manifesta opportunità della loro unificazione in corpo legislativo riflettente tutte le forze armate si sono fatte eco le varie commissioni di riforma (progetto approvato dal Senato il 7 febbraio 1907; disegno della commissione istituita con r. decr. 16 nov. 1920). Di una personalità della legge penale militare può parlarsi, non tanto in contrapposto al principio della territorialità della legge penale comune (in determinati casi applicatole, del resto, anche per reati commessi all'estero), quanto nel senso che - mirando a reprimere la violazione di particolari doveri immanenti, e non mutevoli col variare dei luoghi - l'esistenza nel soggetto della qualità militare, o il concorso di condizioni soggettive di equiparazione o di rapporti permanenti o occasionali di dipendenza (assimilati, prigionieri di guerra, ecc.), costituisce il requisito necessario e sufficiente per la sua applicazione. Questa quindi si ha "ancorché i reati siano commessi in estero stato" (art. 3 cod. pen. es.) indipendentemente - quanto ai militari - da una pubblicazione formale della legge. V. reato militare.
Bibl.: P. Di Vico, Diritto penale militare, Milano 1917, I, nn. 1, 53 segg. e in Enciclopedia giuridica; V. Manzini, Commento ai codici penali militari, Milano 1928, I, n. 1 segg.; I. Mel, I codici penali militari per l'esercito e per l'armata comparati e illustrati, Napoli 1880; G. Nappi, Trattato di diritto e procedura penale militare, Milano 1917, I, p. 30 segg.
Diritto processuale civile.
Per diritto processuale civile (detto anche, con denominazione meno propria e notata di francesismo, ma tuttora in uso nella denominazione ufficiale delle cattedre della disciplina, procedura civile; meno usato l'altro termine di diritto giudiziario civile) si intende sia il complesso delle norme giuridiche che disciplinano l'attuazione (ed eccezionalmente la formazione) del diritto oggettivo, in quanto essa avviene attraverso il processo civile, sia la disciplina giuridica che ha per oggetto lo studio e la sistemazione scientifica di queste norme.
Le norme costituenti il diritto processuale civile (leggi processuali, contenute per la maggior parte nel codice di procedura civile), sono in prevalenza norme di carattere strumentale, che regolano l'organizzazione, i requisiti, l'attività degli organi chiamati ad agire nel processo (giudice e parti, e rispettivi ausiliarî), i mezzi di prova e gli effetti degli atti processuali. Nell'ordinamento italiano il processo civile è destinato ad attuare il diritto oggettivo (Chiovenda) o a comporre i conflitti d'interessi (liti) attraverso l'accertamento e l'applicazione delle norme giuridiche preesistenti (Carnelutti) - eccezionalmente anche a dare in via autonoma la disciplina concreta a rapporti non regolati da norme giuridiche sostanziali; processo dispositivo - non solo nel campo del diritto privato, ma anche, almeno in linea di principio, vulnerata da numerose eccezioni, nel campo del diritto pubblico, ove "si faccia questione di un diritto civile o politico" (legge 20 marzo 1865, n. 268, alleg. E, art. 2); non vale quindi per l'Italia l'insegnamento corrente nella dottrina tedesca che ascrive al diritto processuale civile le norme che disciplinano l'attuazione del diritto oggettivo privato attraverso il processo.
Le norme di diritto processuale civile appartengono, secondo l'insegnamento comune, al diritto pubblico interno (l'opinione che le ascriveva al diritto privato è giustamente abbandonata), donde si desumono importanti conseguenze intorno ai principî generali cui si deve risalire in mancanza di norme esplicite di legge; inapplicabilità, cioè, dei principî generali di diritto privato e necessità di ricorrere a quelli del diritto pubblico, soprattutto in tema di atti processuali (v. atto). Tuttavia un indirizzo dottrinale tedesco (Goldschmidt) tende a staccare il diritto processuale civile, col diritto penale e processuale penale, dal diritto pubblico per riunirli in categoria a sé, il cosiddetto "diritto della giustizia" (Justizrecht), distinto a sua volta in materiale e formale.
Strettissime relazioni passano in ogni modo fra diritto processuale e diritto privato (materiale); molte norme processuali sono compenetrate in norme di diritto materiale, né l'opera di sceveramento del diritto processuale è ancora compiuta: il criterio di distinzione va ravvisato in ciò, che appartengono al diritto materiale le norme che accanto al potere di una parte costituiscono un vero e proprio obbligo dell'altra; al diritto processuale quelle invece che accanto al potere di una parte costituiscono una semplice soggezione dell'altra parte o un obbligo di un organo diverso dall'altra parte (F. Carnelutti, in Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe chiovenda, Padova 1927, p. 231 segg. e spec. p. 238).
Strette relazioni corrono in particolare fra le norme di diritto processuale civile e penale (già l'organizzazione giudiziaria è in buona parte comune ai due processi); le une e le altre costituiscono (insieme anche col più recente diritto processuale amministrativo) il diritto processuale semplicemeute detto o diritto processuale generale; questo, attraverso un'elaborazione unitaria degl'istituti dei varî tipi di processo, risale ai principî comuni a tutti i campi e a una sintesi più comprensiva. È tuttavia da osservare che l'elaborazione autonoma, in distinti codici, delle norme processuali civili e penali fa escludere che l'una delle due legislazioni processuali possa considerarsi legge comune rispetto all'altra e rende assai delicato stabilire fino a che punto i principî dell'un processo possano trasportarsi all'altro, nel silenzio della legge. Invece deve ritenersi che le norme vigenti per il processo civile (in quanto non abbiano carattere eccezionale) costituiscano diritto comune anche per il processo amministrativo; lo stesso deve dirsi per il processo del lavoro che esorbita in parte (processo collettivo) dal processo civile.
Le riforme processuali si distinguono in dispositive e cogenti a seconda che le parti possano con un contrario accordo escluderne l'osservanza o no; l'attribuire alla norma l'uno o l'altro carattere dipende naturalmente dall'apprezzamento del legislatore; fra le norme cogenti poi vi è una gradazione, secondo che la loro inosservanza può essere rilevata d'ufficio o no ed è o no sanabile. Si distinguono poi norme comuni o generali e norme eccezionali o speciali a seconda che dettate per il processo ordinario siano applicabili, in mancanza di diversa norma espressa, anche ai varî procedimenti speciali (avanti il giudice ordinario o alle giurisdizioni speciali) o che siano dettate esclusivamente per uno o più procedimenti speciali. Tipo delle prime sono - in massima parte - le disposizioni contenute nei due primi libri del codice di procedura civile e nelle leggi che vi hanno apportato modificazioni organiche; tipo delle seconde le norme contenute nelle varie leggi che istituiscono e regolano i varî tipi di processi speciali. L'interpretazione delle leggi processuali è regolata dalle norme comuni; può tuttavia essere messa in rilievo la grande importanza dell'elemento sistematico e la diversa posizione che il giudice ha rispetto alle norme processuali in confronto a quelle di diritto sostanziale; queste regolano il rapporto concreto su cui il giudice deve pronunziare, mentre quelle regolano l'attività stessa del giudice nel processo, determinandone i poteri e i doveri; in modo che rispetto a queste il giudice si trova in posizione analoga a quella delle parti rispetto alle prime (indi la distinzione fra errores in iudicando ed errores in procedendo). Quanto ai limiti nel tempo e nello spazio le norme processuali si staccano sensibilmente dalle norme di diritto materiale; come principio generale si può dire che le norme processuali applicabili sono quelle vigenti nel luogo e nel momento nel quale si svolge il processo, non quelle imperanti nel momento in cui è sorto il rapporto litigioso che ne forma oggetto (qualche deroga al principio generale si ha, per ragioni di equità e di opportunità pratica, soprattutto in tema di limitazioni di prova dalle quali sono eccettuati i rapporti sorti sotto una legge che non preveda tali limitazioni: art. 10 disp. prel. al cod. civ.; art. 29 r. decr. 4 novembre 1928 per l'unificazione legislativa con le nuove provincie); si ammette anche, come principio generale, che la legge nuova trovi immediata applicazione ai procedimenti in corso, salvo le deroghe di volta in volta stabilite con disposizioni transitorie. Gli atti validamente compiuti sotto l'impero della legge cessata conservano efficacia anche dopo l'entrata in vigore della legge nuova.
Il diritto processuale civile comprende lo studio del processo nel suo scopo (v. sopra), nei suoi elementi (parti, giudice, prove, res in iudicium deducta), nei suoi atti, nelle sue forme di processo di cognizione (procedimento ordinario, procedimenti speciali avanti il giudice ordinario, procedimenti avanti i giudici speciali, processo arbitrale: v. arbitrato) e di processo di esecuzione (così di esecuzione singolare, come di esecuzione consensuale: v. fallimento). Per ragioni di connessione e di convenienza pratica viene attribuita al diritto processuale l'intera materia dell'organizzazione giudiziaria e delle professioni forensi (che a rigore apparterrebbero al diritto amministrativo), come lo studio delle attività non processuali del giudice (giurisdizione volontaria) per le quali trovano applicazione i principî generali valevoli per gli atti giurisdizionali (v. G. Cristofolini, in Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda, Padova 1927, p 337 segg).
Storia. - Trattazioni autonome del diritto processuale non si hanno nei giureconsulti romani (anche la parola processus nel significato attuale è d'origine medievale) per quanto la struttura stessa di quel diritto ponesse nel maggior rilievo il profilo processuale delle questioni e non manchino trattazioni di problemi processuali e d'organizzazione giudiziaria. Schemi di esposizioni sistematiche del processo devono essere tuttavia molto antichi; i primi scritti giuridici medievali (Brachilogo) ne serbano tracce. Graziano dedica un libro del suo Decretum al processo, e larghe trattazioni processuali si trovano nei decretisti; nel sec. XII abbiamo opere sistematiche complete (ordines iudiciarii) e monografie processuali elaborate sulle fonti romane a opera di varî glossatori (Bulgaro, Piacentino, Pillio, ecc.); queste divengono più frequenti nel sec. XIII a opera specialmente di canonisti (Tancredi, Grazia, Innocenzo IV, l'Ostiense, ecc.) fino all'opera fondamentale di Guglielmo Durante, Speculum iudiciale (scritto nel 1271, rifatto nel 1286). L'elaborazione continua nei secoli successivi, per opera dei commentatori (Bartolo, Baldo, Paolo di Castro, ecc.), degli autori di Practicae iudiciariae (Pietro de Ferrari, Roberto Maranta, ecc.), degli autori di consultazioni e di monografie processuali (Vanti, Mascardi, Massa, Lancellotti, ecc.). Col sec. XVI lo svolgimento scientifico del diritto processuale (senza una distinzione netta fra il processo civile e quella penale) ha raggiunto il culmine; i due secoli successivi abbondano di opere processuali, dedicate al diritto comune e alle legislazioni particolari, ma scarse d'originalità e valore scientifico.
La produzione italiana dei secoli migliori si era intanto imposta anche fuori d'Italia, facendo prevalere quel tipo di processo che si dice romanocanonico; opere processuali ispirate ai modelli italiani spesseggiano anche in Francia, dove assumono poi particolare importanza i commentarî alle ordinanze regie (Rebuffe nel sec. XVI, e dopo l'ordinanza del 1667 Jousse, Rodier, Fenière padre e figlio e Pothier); in Germania, è poi notevole la scuola degli scrittori che illustrarono il regolamento del tribunale camerale dell'impero (cameralisti; fra essi particolarmente notevoli Gaill e Mynsinger), cui si contrappongono gli scrittori della scuola sassone, illustratori del processo germanico che oppose viva resistenza al processo italiano (il più celebre fra questi Benedetto Carpzovio [Carpzov, v.], morto nel 1666). Sulla fine del sec. XVIII nella numerosa letteratura che precede e accompagna le riforme legislative sono considerate anche quelle relative al processo (si ricordino a mo' d'esempio Ludovico Antonio Muratori col suo libro sui Difetti della giurisprudenza e Francesco Vigilio Barbacovi).
Alla promulgazione del codice napoleonico fa seguito in Francia, continuatrice diretta degl'illustratori del precedente diritto, una larga produzione d'indirizzo prevalentemente esegetico, che si diffonde largamente, attraverso traduzioni e riduzioni, sulle orme del codice; a questo indirizzo tradizionale è informata tuttora la dottrina processuale francese, che non pare aver risentito l'influenza della dottrina tedesca e italiana. Invece in Germania fin dagl'inizî del sec. XIX si manifesta un vasto movimento di elaborazione sistematica del diritto processuale, fondato sull'indagine storica e sulla ricostruzione dogmatica (Bethmann-Hollweg, Briegleb, Planck; esposizione sistematica del processo comune di G. Wetzell, System des ordentlichen Civilprozesses, 3ª edizione, Lipsia 1878) che prepara il rigoglioso movimento scientifico dei decennî successivi. La seconda metà del sec. XIX vede sorgere in Germania la moderna trattazione sciemifica del diritto processuale, non limitata all'esegesi della norma legislativa, ma risalente alla costruzione del sistema del diritto positivo con i mezzi della dogmatica e col sussidio della storia; nella pleiade di giuristi che a quest'opera hanno contribuito emergono Oscar Bülow (morto nel 1902) la cui opera, Die Lehre von den Prozesseinreden und die Prozessvoraussetzungen (Giessen 1868) segna l'inizio dell'era moderna nella scienza processuale (se pure alcuno dei concetti fondamentali di quel libro è ora da molti abbandonato), Adolfo Wach (1843-1926), autore del classico Handbuch des Zivilpromessrechts (uscito il solo vol. I, Lipsia 1885), e di fondamentali monografie, alla cui scuola si formò la maggior parte della successiva generazione di studiosi, Giuseppe Kohler (1849-1919), tempra d'esuberante genialità, che percorse tutto il campo del diritto.
In Italia il periodo anteriore all'unificazione vede il dominio della produzione francese (nel Lombardo-Veneto, dell'austriaca), diffusa anche da numerose traduzioni, e le opere originali sono cadute in non immeritato oblio, a eccezione del Commentario del Codice di procedura civile per gli stati sardi (Torino 1855-1861, voll. 5, e appendice, 1863), redatto per la maggior parte da Giuseppe Pisanelli, Antonio Scialoja e Pasquale Stanislao Mancini, opera fondamentale, che si eleva sul mediocre livello della produzione francese e francesizzante. Ma la produzione vastissima successiva al codice del 1865, salvo sporadiche eccezioni, non si scosta dall'indirizzo tradizionale; tra i seguaci di questo vanno ricordati specialmente Luigi Mattirolo, il cui Trattato di diritto giudiziario civile italiano (voll. 6, 4ª ed., Torino 1903-1906), pregevole per chiarezza e compiutezza di esposizione, è tuttora utilmente consultato; Carlo Lessona (morto nel 1919), di cui può essere ricordata l'ampia Teoria delle prove (voll. 5, 4ª ed., postuma, Firenze 1922-1925). Rientra nella scuola esegetica, tenendovi un posto a sé, Ludovico Mortara, che col suo Commentario del codice e delle leggi di procedura civile (voll. 5, 5ª ed., Milano s. a., ma 1923-1924) ha moltissimo influito sulla giurisprudenza pratica.
Sul finire del secolo scorso e nei primi anni del nostro, anche nel campo del diritto processuale, nel generale rinnovamento della scienza giuridica italiana, si manifesta una nuova tendenza, che, riallacciandosi alla progredita scienza tedesca, mira ad assorbirne i risultati e adottarne i metodi, per instaurare lo studio scientifico del processo civile italiano.
Se anche non priva di fondamento fu l'accusa mossa a taluno dei seguaci minori del nuovo movimento di essere pedissequo ripetitore di dottrine straniere, talora estranee al diritto italiano, si deve riconoscere che il nuovo indirizzo ha elevato il diritto processuale civile a dignità di scienza, sostituendo alla mera esegesi letterale della legge lo studio sistematico degl'istituti processuali e la loro ricostruzione dogmatica. Al nuovo indirizzo è legato, con altri, il nome di Giuseppe Chiovenda (v.), e dopo di lui una schiera di valenti studiosi che affronta con indagini monografiche i temi più svariati del diritto processuale (specialmente nel campo del processo di cognizione, mentre lo studio del processo esecutivo è stato relativamente trascurato così in Italia come in Germania), portando a notevole altezza la scienza processuale italiana e mettendola in grado di competere con la dottrina tedesca. Nel seno dell'indirizzo storico-dogmatico va intanto delineandosi una corrente che potrebbe chiamarsi realistica o naturalistica, la quale tende ad attribuire importanza prevalente allo scopo pratico degl'istituti; di questa tendenza, della quale sarebbe prematuro tentar di prevedere gli sviluppi, possono considerarsi iniziatori, in modo indipendente, e con divergenze notevoli su molti punti, Francesco Carnelutti, professore a Padova, in Italia, specialmente con le Lezioni di diritto processuale civile (volumi 7, Padova 1921-1931) e con numerosi scritti monografici (raccolti quasi tutti nel secondo volume degli Studi di diritto processuale, Padova 1928), e James Goldschmidt, professore a Berlino, in Germania (Prozess als Rechtslage, Berlino 1925; Zivilprozessrecht, Berlino 1929).
Bibl.: Per i problemi generali del diritto processuale civile toccati in questo scritto vedi specialmente G. Chiovenda, Principii di diritto proc. civ., Napoli 1906, § 4; F. Carnelutti, Lezioni, I, nn. 54-67; A. Rocco, L'interpretazione delle leggi processuali, in Archivio giuridico, LXXVII (1906), p. 87 segg. Per la storia del processo, G. Chiovenda, principii, Introduzione; id., Romanesimo e Germanesimo nel processo civile (1901), poi in Saggi di diritto processuale civile, I, Roma 1930; ampia introduzione storica con particolare riguardo all'evoluzione processuale tedesca offre R. Schmidt, Lehrbuch des deutschen Zivilprozessrechts, 2ª ed., Lipsia 1906.
Diritto processuale penale.
Una fondamentale distinzione del diritto penale è quella che si determina in base al contenuto sostanziale delle norme, ovvero alla loro concreta attuazione; secondo che si considerino i precetti, la loro violazione e le conseguenze giuridiche di essa, in astratto e nel loro momento statico; ovvero il modo e le forme d'indagine e di accertamento e di decisione circa la sussistenza del reato e l'eventuale applicazione al colpevole delle corrispondenti sanzioni, e quindi in concreto e nel momento dinamico. Questo secondo compito spetta al diritto processuale penale, che alla sua volta si avvisa in senso oggettivo, come complesso di norme giuridiche disciplinate nel codice processuale, e in senso soggettivo, come complesso delle varie attività dei soggetti del rapporto giuridico che s'instaura e si svolge in relazione a ciò che ne costituisce l'oggetto. Il sistema degli atti, delle facoltà soggettive e delle forme che regolano gli uni e le altre, si dice processo, dalla parola procedere, che indica appunto un movimento, un andare avanti, dal momento iniziale in cui si ha conoscenza che un reato sia stato commesso o possa essere stato commesso, a quello in cui l'organo giurisdizionale ha emesso la decisione definitiva sull'imputazione e sulle altre situazioni giuridiche che incidono nel processo e che reclamano del pari di essere risolute.
L'evoluzione storica del processo penale si delinea fondamentalmente intorno alla sua pratica organizzazione e alla precisa nozione dello scopo a cui è diretto. Dapprima si ravvisa in esso il mezzo per attuare la repressione, mediante la mal distinta differenza tra imputato e colpevole, la predeterminazione legislativa delle prove, i severi mezzi coercitivi processuali, culminanti nella confessione estorta con l'atroce espediente della tortura. Nella seconda metà del sec. XVIII si fa strada e si afferma energicamente un criterio del tutto opposto. Mentre per l'innanzi il processo era stato strumento di abusi nelle mani del pubblico potere, allora fu concepito come mezzo di difesa individuale e come un complesso di garanzie, allo scopo di attuare la tutela giuridica, sul presupposto della presunzione d'innocenza dell'imputato fino a quando una sentenza non lo abbia proclamato colpevole. Onde il processo viene inteso quale un sistema di garanzie, un complesso di forme, null'altro che rito; e l'assieme delle norme regolatrici si denomina diritto penale formale. La scienza moderna, pure attribuendo rilevante valore storico a questa dottrina, la rigetta come criterio informatore del processo, alla pari di quella opposta della repressione, meglio precisando la nozione giuridica d'imputato, che, ai fini dello svolgimento del processo, non va riguardato, né come colpevole, né come innocente, ma solo come la persona a cui è attribuita un'imputazione di reato. Il processo non è diretto a perseguire un colpevole, né a tutelare una presunta aprioristica innocenza, ma ad attuare e svolgere il rapporto giuridico processuale, che si determina al confronto dei soggetti, nella mutua correlazione delle rispettive loro attività. Conseguentemente oggetto del processo è l'imputazione di un fatto come reato a carico di una persona; a essa si riallacciano le particolari situazioni e quanto altro forma oggetto particolare e accessorio del rapporto fondamentale. Contenuto del processo sono le attività dei soggetti, gli atti che ne costituiscono l'estrinsecazione, e le forme e le condizioni cui gli atti sono sottoposti per la loro validità ed efficienza giuridica. Scopo infine è di provocare l'intervento e la decisione del giudice su ciò che del processo forma l'oggetto.
Nella sua organizzazione il processo moderno contempera e armonizza gli elementi utili e sani dei due sistemi opposti, l'accusatorio e l'inquisitorio. Del primo accoglie i caratteri della pubblicità, dell'oralità, del contraddittorio, della continuità o concentrazione processuale e dell'immediatezza, applicati nella fase del giudizio; del secondo quelli della segretezza e della forma scritta e della discontinuità degli atti, applicati nella fase istruttoria, con gli opportuni temperamenti, che sono il risultato dell'esigenza di tutelare i diritti della difesa e nello stesso tempo gl'interessi dello stato in ordine all'accertamento della verità, ed eventualmente alla punizione di chi sia accertato autore e responsabile della violazione della legge penale.
Dal sistema inquisitorio scaturiscono i due caratteri basilari del processo moderno: l'ufficialità e l'obbligatorietà. Il primo importa che sia affidato ad appositi organi dello stato il compito di procedere alle prime indagini e accertamenti subito dopo avere avuto notizia del reato, e occorrendo di assicurarsi della persona del colpevole (organi della polizia giudiziaria), e quello di promuovere ed esercitare l'azione penale (pubblico ministero, e pretore per i reati di sua competenza, cui spetta inoltre di compiere atti demandati agli organi della polizia giudiziaria). Il principio dell'ufficialità peraltro non esclude la cooperazione sussidiaria dei privati cittadini e degli enti, specialmente con l'esercizio del diritto di querela in ordine a taluni reati e con la costituzione di parte civile nel procedimento penale. Né mancano istituti che disciplinano un vero e proprio diritto di azione penale del privato, in via sussidiaria o integrativa dell'attività dell'organo pubblico, come in alcune legislazioni moderne. Il carattere di obbligatorietà importa che il pubblico ministero è tenuto ad esercitare l'azione penale sempre che concorrano le condizioni di legge per promuoverla; né l'esercizio dell'azione penale può sospendersi, interrompersi, o farsi cessare, se non nei casi espressamente preveduti dalla legge, a norma dell'art. 75 cod. proc. pen. 1930.
La legislazione processuale penale italiana, codificata sull'esempio della legislazione napoleonica e per effetto dell'introduzione di essa in Italia, ha inizio nei primi del sec. XIX col Regolamento di procedura del regno di Napoli del 1808 e col codice pubblicato l'8 settembre 1807 per il Regno italico. Il codice sardo del 18 novembre 1859, fu sostituito da quello del 26 novembre 1865, che ebbe esecuzione nel costituito Regno d'Italia il primo gennaio del 1866. Dopo una serie di riforme parziali, il 1 gennaio 1914 entrò in attuazione un nuovo codice di procedura penale, sostituito in seguito dal codice pubblicato il 28 ottobre 1930. Le principali caratteristiche di quest'ultimo sono: a) l'accrescimento delle facoltà del pubblico ministero e degli organi della polizia; b) la migliore considerazione della personalità dell'imputato e il trattamento di esso più consono alla sua concreta situazione nel corso del procedimento; c) la disciplina della difesa e la semplificazione e celerità del processo, mediante la sanatoria di qualsiasi nullità, il sistema delle notificazioni e la preminente autorità del giudice; c) l'ammissione della prova testimoniale senza i limiti delle leggi civili rispetto alle convenzioni, e l'ammissione del consulente tecnico delle parti private accanto al perito ufficiale; d) la reformatio in peius consentita solo in seguito ad appello principale o incidentale del pubblico ministero; e) la distribuzione della materia con criterî sistematici in base ai più recenti progressi della scienza processualistica moderna; f) l'abolizione della giuria, per cui la corte di assise è costituita da due magistrati e cinque assessori, sul tipo dello scabinato, aventi giurisdizione piena. Parte notevole del codice è dedicata all'esecuzione delle misure di sicurezza e all'accertamento, alla revisione e alla declaratoria di cessazione dello stato di pericolosità sociale, intesa l'attività del giudice di sorveglianza e dello stesso giudice del procedimento come attività amministrativa con la garanzia giurisdizionale.
Bibl.: Il diritto processuale penale nel suo disciplinamento scientifico vanta oggi in Italia insigni cultori. Senza dire delle numerose e pregevoli monografie, dei commenti in collaborazione, e dei vecchi trattati, ricordiamo tra i più recenti: L. Lucchini, Elementi di procedura penale, 4ª ed., Torino 1920; V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, voll. 4, 2ª ed., Torino 1925; id., Istituzioni di diritto processuale penale italiano, 3ª ed., Padova 1929; B. Alimena, Principi di procedura penale, Napoli 1914; V. Lanza, Sistema di diritto processuale penale, Messina 1920; E. Florian, Principi di diritto processuale penale, Torino 1928; E. Massari, Lineamenti del processo penale italiano, 2ª ed., Napoli 1930; G. Sabatini, Principi di diritto processuale penale italiano, 2ª ed., Città di Castello 1931. Notevole, soprattutto dal lato sistematico è il contributo apportato alla scienza processuale penale dai criminalisti tedeschi. Informata alle idee tradizionali è generalmente la produzione processualistica francese, dal Garraud al Roux. Quasi nulla si può dire di quella della Spagna, dei paesi di lingua spagnola e degli altri paesi del continente, ove si attende invece con fervore alle riforme delle leggi penali e agli studî di diritto penale internazionale; rivolta soprattutto a scopi pratici è la produzione inglese e nordamericana.
Diritto processuale penale militare. - Diritto penale militare è il complesso delle norme giuridiche, penalmente sanzionate, poste a tutela degl'interessi inerenti all'esistenza e agli scopi delle istituzioni militari, e facenti parte dell'ordinamento giuridico dello stato. A queste norme si coordinano quelle che sono intese a disciplinare gli atti e le attività dirette a conseguire la decisione del giudice sull'imputazione di un fatto come reato militare, cioè come violazione della legge penale militare. Siffatte norme costituiscono nel loro complesso il diritto penale militare processuale.
Fonti del diritto penale militare processuale sono le leggi processuali militari, contenute nei codici penali per l'esercito e per la marina, pubblicati con le leggi 28 novembre 1869 ed entrati in vigore il 15 febbraio 1870. I quali codici alla loro volta sono la riproduzione, con opportune modifiche introdotte da leggi speciali successive, del codice penale militare 1 ottobre 1859 e del vecchio editto sardo-piemontese per la marina del 18 luglio 1826. Da molto tempo, e fin dal 1881, si è avvertita la necessità di riformare la legislazione penale militare italiana, e all'uopo si sono compilati diversi progetti. Notevoli i progetti presentati al Senato dal ministro della Guerra il 23 novembre 1900, poi ripresentati il 5 dicembre 1905. Il 7 febbraio 1907 il Senato aveva approvato un nuovo progetto di codice penale per l'esercito e per la marina; ma per vicende parlamentari poi decadde. La medesima sorte ebbe il progetto compilato dalla commissione nominata nel novembre 1925. L'ultima commissione per tali riforme fu istituita con r. decr. 28 giugno 1921.
La giurisdizione penale militare è giurisdizione speciale, perché conosce di determinati reati in relazione a determinati soggetti, e come tale si contrappone alla giurisdizione comune. È ordinaria perché esplica le sue funzioni in via normale e in modo continuativo, laddove soltanto in via eccezionale funziona da tribunale straordinario, per esempio in tempo di guerra, o quando all'interno sia proclamato lo stato di assedio o comunque, per contingenze speciali, la giustizia sia affidata all'autorità militare. È inoltre permanente, in quanto sono permanenti le cause che la giustificano, e per lo stesso carattere permanente dell'esercito e dell'ordinamento militare. È infine giurisdizione piena e autonoma, perché conosce dell'imputazione del fatto in sede d'istruzione e di giudizio, pronunziando in merito, e svolgendo la propria attività indipendentemente da ogni altro potere, nei limiti della propria competenza.
Oggetto della giurisdizione penale militare è "la cognizione dei fatti costituenti violazione delle leggi penali militari in quanto siano commessi da persone soggette alla disciplina militare".
Soggetto alla giurisdizione militare è il militare che commetta o sia sospettato di aver commesso un reato previsto nel codice penale per l'esercito o per la marina.
L'azione penale militare è essenzialmente pubblica; ed è anzi notevole, al confronto del processo comune, che il promovimento e l'esercizio di essa non è subordinato in alcun caso a querela o richiesta. Solo, ove si tratti di reati lievi, il pubblico ministero non procede se l'autorità militare abbia creduto d'infliggere al colpevole una sanzione disciplinare; e, se l'imputato sia membro del parlamento, occorre la preventiva autorizzazione a procedere.
L'istruttoria dei processi è demandata a una comissione d'inchiesta, composta da un ufficiale superiore, che funziona da presidente e da due capitani o equiparati, oltre due giudici supplenti. Essa risiede presso ogni tribunale militare, e decide sulla competenza e in merito, proscioglie e formula l'accusa. Organi dell'istruttoria sono anche gli ufficiali istruttori, che hanno attribuzioni di polizia giudiziaria e provvedono alla formazione degli atti del processo. Il tribunale militare, che è investito del giudizio, è permanente per i militari di truppa e speciale per gli ufficiali. Contro la sentenza del tribunale militare non è ammesso appello, ma soltanto ricorso al tribunale supremo di guerra e marina per nullità. La giurisdizione militare marittima a bordo delle navi è amministrata per i reati minori dai consigli sommarî; per i più gravi, dai consigli di guerra. Contro le loro decisioni non è ammesso neppure il ricorso al tribunale supremo. Rimedio straordinario è l'istituto della revisione, che i codici militari disciplinano in conformità dell'abolito codice di procedura penale. Speciale giurisdizione militare è quella del tribunale per la difesa dello stato, istituito con la legge 25 novembre 1926 n. 2008. Questa giurisdizione è informata al principio reale, nel senso che alla medesima sono deferiti i reati di cui nella legge suddetta, da chiunque commessi.
Diritto civile.
La locuzione diritto civile può intendersi con diverso significato a seconda del termine cui si contrappone. Così per ius civile intendevano già i Romani, o, contrapposto a ius gentium, il complesso degl'istituti proprî di una civitas (Dig. I,1, de iust. et iure, 6 pr.; ibid.,1,2) e in particolare della civitas romana, o, contrapposto a ius naturale, quei principî che sono proprî di una contingente legislazione positiva nei confronti di quei principî più generali, e per Giustiniano immutabili, che scaturiscono dalla stessa natura, o, come da molti s'intende, dalla stessa ragione. Nell'uso intermedio della scienza e dell'insegnamento, ius civile, contrapposto a ius canonicum o a ius criminale, comprendeva l'insieme dei principî del diritto privato comune contenuto in gran parte nelle stesse fonti romane e in questo senso si parlò anche dopo le prime codificazioni di diritto civile e di codice civile.
Benché infatti accada anche di sentir parlare di diritto civile contrapposto al diritto che scaturisce da altro ordinamento, per es. quello della Chiesa, nel qual caso il significato di civile viene ad essere quello di laico - (si parla così di uno stesso diritto ecclesiastico civile intendendo il complesso dei principî di diritto laico, posto dallo Stato nei confronti dell'attività esplicata dalla Chiesa) - o di sentir parlare di diritto civile contrapposto al diritto militare - (per es., codice penale civile, codice penale militare), nel qual caso s'intende contrapporre la norma speciale a una particolare classe di persone a quella comune all'universalità dei cittadini - ordinariamente e più tecnicamente s'intende per diritto civile il complesso delle norme di diritto privato che si applicano all'universalità dei cittadini, in contrapposto all'altra branca in cui per tradizione - confermata dalla separazione dei due codici civile e commerciale - si suol dividere il diritto privato, e cioè il diritto commerciale, ordinariamente definito come il complesso delle norme giuridiche di diritto privato disciplinanti attività mercantili, situazione e obblighi personali del commerciante, nonché altre attività legislativamente considerate come commerciali. È precisamente questo il significato che noi intendiamo attribuire alla locuzione diritto civile. Questo si suole tradizionalmente ripartire in: 1. diritto delle persone e di famiglia, comprendente la disciplina della condizione della persona, del matrimonio, della famiglia, e della filiazione estranea alla famiglia civile basata appunto sul valido matrimonio; 2. diritto delle cose, comprendente la distribuzione della natura giuridica delle cose e la disciplina dei diritti di proprietà e diritti tutti sulle cose; 3. diritto delle obbligazioni, comprendente in generale la dottrina dei rapporti obbligatorî; 4. diritto successorio contenente i principî della successione a causa di morte.
L'introduzione del codice napoleonico in Italia, la derivazione dei codici preunitarî e del codice civile italiano dal codice napoleonico, la suddivisione politica della penisola, che con la conseguente scarsa estensione territoriale dei codici degli ex stati aveva impedito il sorgere e lo svilupparsi di un'analisi a carattere scientifico del contenuto delle nuove codificazioni, lo sviluppo in breve raggiunto dalla dottrina francese sviluppatasi nello spazio d'ormai più di mezzo secolo all'entrata in vigore del codice italiano, e assurta ormai dalla semplice analisi esegetica - sia pur singolarmente approfondita - alla visione sistematica degl'istituti, contribuirono a far sì che, prima e dopo l'entrata in vigore del codice italiano, la dottrina francese facesse testo in Italia, e le opere dei sommi commentatori francesi avessero ripetute traduzioni italiane, traduzioni spesso assai difettose anche se avevano la pretesa di aggiornare o rivedere con note e postille il contenuto dell'opera per adattarlo alla legislazione italiana.
Ma a un primo periodo di divulgazione dell'opera dei grandi maestri francesi seguì un periodo di sviluppo del pensiero giuridico nazionale nel campo del diritto privato. Anche questa volta vi contribuì il rifiorire degli studî del diritto romano, per opera prima di un isolato quanto benemerito studioso italiano, l'Alibrandi, poi specialmente sotto l'influsso della dottrina germanica nella quale lo studio del diritto romano, vigente ancora come legge positiva, era assurto a singolare sviluppo. L'elaborazione scientifica, i metodi e qualche volta i difetti del metodo della scuola tedesca e soprattutto certo abuso dell'indagine astratta, che così facilmente e ripetutamente rimproverato alla dottrina germanica non tocca certo tutti né i migliori rappresentanti di quella scuola, non mancarono di fare sentire in seguito la loro influenza sullo sviluppo della dottrina civilistica italiana, sì che una dottrina civilistica a carattere schiettamente nazionale non si affermò forse ancora. La scuola italiana del diritto romano iniziatasi con Filippo Serafini, Vittorio Scialoja, Carlo Fadda, Contardo Ferrini diede allo studio del diritto privato il più largo impulso; tanto il Serafini, quanto lo Scialoja, il Fadda, il Ferrini, dotati di larghissima preparazione storica e dogmatica e spesso di una tecnica filologica raffinata, pur essendo prevalentemente romanisti, non mancarono di dirigere anche al diritto civile vigente la loro indagine in scritti, spesso di brevissima mole ma che per i loro risultati rimasero classici. Romanisti furono molti fra i cultori del diritto civile italiano a cominciare dal Bonfante, altri la cattedra romanistica lasciarono per quella del diritto civile come il De Ruggiero, il Segré, il Vassalli, l'Ascoli, il Pacchioni, ecc.
Mentre pertanto una scuola romanistica si affermava così nobilmente collocandosi in invidiabile posizione nel confronto della dottrina straniera, mentre nella stessa Francia per opera soprattutto del Gény e del Saleilles un profondo rinnovamento di metodi si manifestava nella dottrina civilistica, in Italia non possiamo segnalare il formarsi di una scuola nazionale benché uomini veramente insigni si siano manifestati in questo campo di studî e abbiano lasciato opere notevolissime e di carattere spiccatamente personale.
Così vanno ricordati Francesco Filomusi Guelfi, per i suoi scritti sul Diritto ereditario e la dottissima Enciclopedia giuridica; Carlo Francesco Gabba, per le svariate monografie e la vasta opera sulla Teoria della retroattività delle leggi; Giorgio Giorgi, che tra i primi scrisse con bella indipendenza di pensiero anche di fronte ai grandi maestri francesi un ampio trattato sulle Obbligazioni; Emilio Bensa, che iniziò col Fadda, già ricordato, le Note dell'edizione italiana delle Pandette del Windscheid, ricche di vasta e sicura dottrina alle quali largamente attinse o dalle quali prese spunto la dottrina civilistica posteriore; Ferdinando Bianchi, specialmente per la monografia sulle servitù legali; Gian Pietro Chironi, che affrontò nelle ampie opere sulla Colpa e sui Privilegi temi fra i più ardui del diritto civile; Vittorio Polacco, che racchiuse nel volume sulle Obbligazioni e in opere minori i risultati di un'indagine condotta con metodo impeccabile e giudizio critico sicuro; Vincenzo Simoncelli, che negli scritti sulla destinazione del padre di famiglia, sulla custodia, sulla locazione, sull'enfiteusi trasse profitto da una larga visione storica analitica della funzione degl'istituti per tracciarne con felice e sicura mano la struttura giuridica; Emmanuele Gianturco, giurista versatile e profondo di cui resta, disgraziatamente incompiuto dopo il primo volume, il Sistema, oltre a svariate monografie, memorie, discorsi; Nicola Coviello che negli scritti sui giudicati di stato, sul contratto estimatorio, sulla responsabilità senza colpa, sulla successione dei debiti, sulla trascrizione, segnò spesso, in tempi particolarmente ardui, un cammino sicuro e acquisì risultati duraturi, mentre nel Manuale di diritto civile, interrotto dopo il primo volume da immatura fine, tracciò una sintesi della parte generale del diritto civile; Bartolomeo Dusi, che doti di astrazione filosofica unite a profondo intuito di giurista mostrò negli scritti sull'eredità giacente, sulla filiazione, sulla successione nel possesso per atto fra vivi; Luigi Tartufari, che alla teoria generale del negozio giuridico dedica, nei contratti a favore di terzi e nel volume sulla rappresentanza, indagini ricche di vigore e di acuta sensibilità di giurista; Giacomo Venezian, le cui monografie sull'usufrutto e sul danno e risarcimento mostrano a quante novità di risultati possa condurre l'indagine anche degl'istituti apparentemente più noti quando parta da una visione sintetica profondamente originale. Nè possiamo chiudere questa rassegna senza ricordare fra i viventi i nomi almeno di Ludovico Baragli, che primo dedica in Italia un'opera organica al contratto di lavoro, Antonio Cicu, studioso del diritto di famiglia, della filiazione, del diritto degli alimenti, Francesco Ferrara che tratta delle persone giuridiche e inizia un trattato di diritto civile, Giuseppe Messina, Leonardo Coviello, Gioacchino Scaduto, Mario Ricca-Barberis, ecc.
Bibl.: F. Barassi, Istituzioni di diritto civile, 2ª ed., Milano 1921; B. Brugi, Istituzioni di diritto civile italiano, 4ª ed., Milano 1923; G.P. Chironi, istituzioni di diritto civile italiano, voll. 2, 2ª ed., Torino 1912; R. De Ruggiero, istituzioni di diritto civile, 3ª ed., Napoli 1923; B. Dusi, Istituzioni di diritto civile, 8ª ed., Firenze 1908; G. Pacchioni, Elementi di diritto civile, 2ª ed., Torino 1920; V. Simoncelli, Istituzioni di diritto privato italiano, 2ª ed., Roma 1917.
Al primo volume sono rimasti il trattato di L. Landucci (Corso di dir. civ. francese di C. Aubry e G. Rau, versione italiana coordinata ad un trattato di diritto civile, Torino 1900) e quelli di N. Coviello (Manuale di diritto civile italiano, 2ª edizione, Milano 1916); E. Gianturco (Sistema di diritto civile italiano, 3ª ed., Napoli 1914); G. P. Chironi e L. Abello (Trattato di diritto civile italiano, Torino 1904) e F. Ferrara (Trattato di diritto civile, Roma 1921); Il diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza, Torino 1900 segg., opera redatta con la collaborazione per i diversi argomenti trattati in separati volumi, d'insigni collaboratori quali il Brugi, il Coviello, il Ferrara, il Fiore, il Simoncelli, il Venezian.
Fra le riviste ricordiamo la Rivista di diritto civile (Milano 1909 segg.) e per la parte delle obbligazioni l'ottima Rivista di diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni (Milano 1903 segg.); decisioni e note anche in materia civile pubblicano Il Foro italiano (Roma 1876 segg.) e la Giurisprudenza italiana (1865 segg.) oltre a molte riviste di giurisprudenza regionali.
Diritto commerciale.
La denominazione "diritto commerciale" suole essere adoperata per indicare il diritto commerciale privato, cioè quel complesso di norme che regolano i rapporti fra privati, derivanti dal commercio. Per ragioni storiche si comprende pure generalmente nel concetto di diritto commerciale il diritto commerciale processuale, cioè il complesso delle norme speciali che regolano la funzione giurisdizionale dello stato in materia commerciale, sebbene il diritto processuale, per sé, sia da considerare parte del diritto pubblico. Restano adunque fuori del diritto commerciale vero e proprio molte norme giuridiche che pure regolano i rapporti derivanti dal commercio, e più precisamente il diritto amministrativo commerciale, il diritto commerciale penale e il diritto commerciale internazionale, che disciplina il commercio internazionale, sia dal lato dei rapporti diretti fra stato e stato (diritto internazionale pubblico), sia da quello dei rapporti fra privati e privati (diritto internazionale privato). Per determinare il contenuto preciso del diritto commerciale non basta riferirsi al concetto economico del commercio, perché la nozione giuridica non ha mai coinciso precisamente con la nozione economica del commercio e perché in seguito a una lunga tradizione che ha sempre più allargata la sfera d'applicazione del diritto commerciale, questo nelle legislazioni moderne non regola soltanto i rapporti derivanti dall'industria commerciale vera e propria, ma altresì numerosi altri rapporti che la legge assimila ai primi, agli effetti della disciplina giuridica. I limiti di applicazione del diritto commerciale sono pertanto determinati dallo sviluppo storico di esso quale è consacrato dalla legge positiva.
Il diritto commerciale, come diritto autonomo, è di origine medievale. Durante tutto il Medioevo, l'Italia tenne incontrastato il primato nei traffici. Pisa, Amalfi, Venezia, Genova erano le prime piazze marittime del mondo; Siena, Lucca, Milano, Bologna, Firenze, le più importanti città commerciali e industriali; Firenze ancora la più grande piazza bancaria e cambiaria. L'intensa attività commerciale sviluppatasi nelle città italiane creò il bisogno di una propria regolamentazione e spinse gradatamente alla formazione di un nuovo diritto, in origine eminentemente consuetudinario. Le prime norme disciplinanti il commercio erano costituite dalle consuetudini sorte fra mercanti, l'elaborazione delle quali trovò un organo operoso nell'organizzazione del ceto commerciale.
In mancanza d'un forte potere politico che assicurasse la pace pubblica e la realizzazione del diritto, nella società medievale sorsero e fiorirono le associazioni o corporazioni (v.) che riunivano coloro i quali avevano interessi-comuni da far valere e specialmente gli esercenti di una stessa professione, arte o mestiere. Questi potevano, riuniti, esercitare più efficacemente l'autodifesa. Tra queste associazioni acquistarono specialmente importanza e autorità, in relazione alla potenza sempre crescente del ceto mercantile, le corporazioni dei mercanti (mercadantiae, curiae mercatorum, più tardi, universitates mercatorum). La costituzione delle corporazioni si modellava su quella dei comuni. Alla loro testa erano uno o più consoli, assistiti di solito da due consigli, uno più ristretto e l'altro più ampio (consilium minus e consilium maius o generale). Gli ordinamenti delle corporazioni erano consacrati in statuti (statutum, breve, capitulare). Le funzioni delle corporazioni erano varie; importantissima fra tutte fu la funzione giudiziaria. I consoli che, come capi delle corporazioni, avevano, in principio, solo funzioni amministrative e disciplinari, assunsero ben presto anche il compito di risolvere le controversie sorte fra i soci. La giustizia era amministrata senza formalità (sine strepitu et figura iudicii) e secondo equità (ex bono et aequo). L'appello era di solito escluso; quando era ammesso, veniva portato davanti altri commercianti, estratti a sorte, detti sopraconsoli. Questa libera e rigogliosa vita delle corporazioni fu l'organo principalissimo dello sviluppo del diritto commerciale come diritto speciale. Nella chiusa cerchia della corporazione le antiche usanze si mantenevano tenacemente e le nuove si formavano rapidamente. Le decisioni dei consoli davano forma concreta alle consuetudini, e mediante un lavoro d'interpretazione e di adattamento le integravano e le sviluppavano, concorrendo così efficacemente alla formazione e all'evoluzione degl'istituti di diritto commerciale. Gli statuti delle corporazioni raccoglievano spesso e fissavano tali consuetudini. Buona parte dei più vecchi statuti non è infatti che annotazione o constatazione di usi tradizionali, che i magistrati delle corporazioni giuravano di osservare al momento della loro entrata in carica.
A questa epoca risalgono le origini dei più importanti istituti del diritto commerciale odierno; il registro dei commercianti (matricula o liber mercatorum) le varie specie di società, particolarmente la collettiva e l'accomandita, la cambiale, gli affari di banca, l'assicurazione, il cambio marittimo, l'avaria, il fallimento. Sono tutti istituti d'origine italiana: giacché il diritto commerciale fu creazione spontanea della pratica, la quale non poteva essere che italiana in un'epoca in cui i nostri mercanti avevano, si può dire, il monopolio del traffico mondiale. Solo più tardi il commercio assunse un grado di notevole sviluppo in alcune città straniere.
Il contributo portato dagli altri popoli di Europa alla formazione del diritto commerciale fu secondario. Quasi sempre essi si limitarono ad accogliere le usanze che i mercanti italiani diffondevano. Sicché giustamente osserva il Frémery (Études de droit commerc., cap. 11) che studiando la legislazione commerciale di qualunque paese quando si risale la catena dei secoli, da qualunque punto si parta si giunge sempre all'Italia. I più antichi monumenti del diritto commerciale sono tutti italiani. Sono costituiti da antiche raccolte di consuetudini, dai numerosi statuti o brevi delle corporazioni ai quali si aggiunsero più tardi gli statuti dei comuni.
Sono da menzionare tra le raccolte più notevoli le Consuetudines di Genova (anteriori al 1056), il Constitutum usus di Pisa (1161), il Liber consuetudinum di Milano (1216), e per il diritto marittimo il Capitulare nauticum di Venezia (1255), la Tabula amalfitana (del sec. XIII o XLV), gli Ordinamenta et consuetudo maris di Trani (sec. XIV). Particolare celebrità ebbe il Consolato del mare, raccolta fatta a Barcellona, che peraltro riproduceva le consuetudini diffuse dai navigatori italiani in tutto il bacino del Mediterraneo e che si diffuse in Europa, specialmente nella redazione vulgata italiana. Sono poi da menzionare: il Breve consulum mercatorum di Pisa (1305) e il Breve curiae maris della stessa città, gli Statuti dell'arte di Calimala di Firenze (1301) e gli statuti dei mercanti nonché gli statuti comunali di molte città. Tra le più notevoli raccolte straniere sono da menzionare la Coutume di Oleron e la Charte d'Oléron o Rôlles des jugements d'Oléron, che acquistarono grande autorità nei mari del Nord e costituirono il nucleo principale della raccolta inglese, nota sotto il nome di Consuetudini di Visby (secolo XIV o XV).
Anche la scienza del diritto commerciale sorse in Italia nel secolo XVI, sebbene in questo periodo non si potesse più parlare di primato commerciale italiano. La servitù politica, in cui cadde la penisola, la scoperta dell'America, che spostò dal Mediterraneo all'Atlantico le correnti dei traffici, trasferirono la potenza politica e commerciale nei grandi stati che si erano intanto formati, quali la Spagna e più particolarmente la Francia. Ma l'influenza del pensiero italiano in tutti i rami di cultura durò a lungo, come alto si mantenne il prestigio delle istituzioni commerciali italiane e l'autorità della produzione italiana di diritto commerciale, fra il sec. XVI e il sec. XVII.
Sorto ed elaborato nell'ambito del ceto mercantile, il diritto commerciale fu un diritto eminentemente professionale, anzi un diritto interno delle corporazioni. Le consuetudini formate e diffuse dai mercanti vincolavano questi soltanto. G] i statuti delle corporazioni non regolavano che i rapporti fra gl'iscritti alle medesime; e l'autorità dei consoli si esercitava soltanto nei confronti dei componenti della corporazione, per la decisione delle controversie insorte fra gl'iscritti alla corporazione, e riferentisi all'esercizio della professione (causa quae ad artem pertinet), cioè al commercio vero e proprio, che s'identificava nella compera di merci per rivenderle e nella successiva vendita. Man mano però andò estendendosi la materia sottoposta alla giurisdizione dei consoli e si allargò la cerchia delle persone su cui si esercitava tale giurisdizione. Al commercio delle merci fu equiparato quello del danaro, e così gli affari di banca furono pure soggetti alla giurisdizione mercantile. Vennero poi considerati come commerciali, per la loro comunione con gli affari commerciali propriamente detti, le operazioni di cambio e le lettere di cambio. Infine, la giurisdizione mercantile si esercitò su tutti gli affari compiuti occasione mercantiae, cioè connessi con una delle operazioni commerciali.
Per ciò che riguarda le persone, la competenza dei consoli rimase sempre circoscritta, in via di principio, alle controversie insorte fra commercianti. Ma se nel sistema delle corporazioni tale qualità è strettamente collegata con la formalità dell'immatricolazione, giacché è mercante solo chi è iscritto nel registro (matricula) delle corporazioni, la tendenza usurpatrice di queste, ostacolata ma non vinta dall'opposizione dei comuni gelosi della propria autorità, portò ben presto a estendere la giurisdizione mercantile anche fuori dei membri della corporazione. La fiducia che il pubblico riponeva nei giudici consolari agevolò molto tale estensione. Si cominciò con ammettere la competenza dei giudici consolari anche di fronte a coloro che avessero contrattato con un mercante iscritto nella matricola; quindi e specialmente quando, abolito il monopolio delle corporazioni, l'esercizio delle arti divenne libero, si considerarono come iscritti alle corporazioni coloro che, pure senza farne parte, esercitavano il commercio. Attraverso tale finzione furono sottoposti alla giurisdizione dei consoli i nobili, i chierici, i militari, quando esercitavano la mercatura contro il divieto. Tale giurisdizione si estese infine generalmente a chiunque agisse o fosse convenuto ex causa negotiationis vel cambi. L'estensione non aveva però ancora portato a concepire atti di commercio compiuti da un non commerciante e quindi non aveva fatto venire meno il carattere professionale del diritto commerciale. Ciò avvenne in tempi più recenti in seguito allo sviluppo del commercio a causa della profonda trasformazione dell'economia moderna.
L'attività intermediaria tra produttori e consumatori, nella quale consiste la funzione sociale ed economica del commercio, si esercitava una volta su alcuni prodotti agricoli e su pochi prodotti manifatturati. Oggi invece, res¡ facili i mezzi di comunicazione, i mercati sono divenuti mondiali, gli scambî si sono moltiplicati e la produzione è cresciuta enormemente per effetto dei progressi delle invenzioni e della tecnica industriale. Alle merci si sono aggiunte le carte valori o titoli di credito, che in masse colossali formano oggetto quotidiano di continue transazioni. Gl'immobili, che per lunghissima tradizione furono sempre considerati come estranei al commercio, oggi sono anche diventati oggetto di speculazioni commerciali e il codice di commercio italiano del 1882 riconobbe questa evoluzione. Gl'istituti di credito moderni successi ai vecchi banchi si rendono intermediarî del credito, procurandosi i capitali da coloro che ne dispongono per darli in prestito a chi ne ha bisogno. L'artigianato è stato sostituito dalla grande industria, nella quale l'imprenditore è essenzialmente un commerciante che organizza il lavoro per offrire al pubblico i risultati del lavoro, e specula sulla merce lavoro. L'assicurazione costituisce oggi un'attività intermediaria che specula sul rischio perché l'intermediario concentra in sé i rischi concentrando altresì i premî, che amministra e distribuisce a coloro degli assicurati rispetto ai quali si verificò l'evento. Non sono più dunque soltanto le merci, ma altresì i titoli, gl'immobili, il lavoro, il rischio che oggi costituiscono oggetto del commercio.
Vi sono inoltre istituti commerciali che, sorti per il commercio, sono stati generalizzati anche per altri fini, così per es. la cambiale, nata come mezzo per facilitare i pagamenti commerciali da piazza a piazza, divenne poi strumento generale di credito.
Il commercio si è inoltre infiltrato in ogni classe sociale. Oggi non è più esercitato solo da professionisti, cioè dai commercianti. Agricoltori, proprietarî, donne, minorenni posseggono azioni di società, partecipano a speculazioni commerciali. Associazioni di produttori, riuniti in cooperative, cercano di mettersi in diretta relazione coi consumatori, per eliminare gl'intermediarî, dei quali esercitano la funzione; e così le istituzioni commerciali sono rese accessibili agli operai, ai piccoli borghesi, ai piccoli proprietarî che costituiscono la grande famiglia dei cooperatori.
Allargata smisuratamente la materia del commercio e resa agevole a chiunque la partecipazione a speculazioni commerciali, il diritto commerciale doveva cessare di essere il diritto dei commercianti; la legislazione commerciale non poteva non riconoscere questa trasformazione. Il passo più notevole in questo senso fu compiuto dal codice di commercio napoleonico del 1808 (v. codice di commercio) che cessò di considerare il diritto commerciale come un diritto professionale, sottoponendovi l'atto di commercio isolato compiuto dal non commerciante. Un altro passo notevole verso un ulteriore ampliamento della sfera di azione del diritto commerciale fu fatto dal codice generale di commercio germanico del 1861 che, seguito dal codice italiano del 1882, sottopose alla legislazione commerciale anche gli affari unilateralmente commerciali, i quali sono la grandissima massa di quelli che i commercianti compiono col pubblico. Tutti i rapporti che da questi affari derivano sono oggi regolati dal diritto commerciale. Basta quindi contrattare con un commerciante per essere soggetti al diritto commerciale: e ciò avviene continuamente per tutte le esigenze della vita quotidiana. Argutamente fu quindi notato che ormai, dalla nascita alla tomba, è il codice di commercio che ci governa.
L'estensione odierna della materia regolata dal codice di commercio è talmente vasta, che da taluni si è persino dubitato dell'utilità di mantenere ancora in vita una legislazione autonoma di diritto commerciale. Ma in verità i rapporti connessi con l'industria commerciale hanno natura ed esigenze sostanzialmente diverse dagli altri rapporti economici privati. Di qui l'opportunità d'una particolare disciplina. Le norme del diritto commerciale che contengono questa particolare disciplina per una categoria per quanto vasta di rapporti privati, sono, di fronte al complesso delle norme regolanti in generale tutti i rapporti di diritto privato, norme eccezionali o speciali. Lo stesso si deve dire delle norme processuali del diritto commerciale di fronte a quelle generali del diritto processuale civile. Il diritto commerciale, sostanziale e processuale, è pertanto un diritto speciale o eccezionale, di fronte al diritto civile e al diritto processuale civile.
Questa particolare natura del diritto commerciale spiega il suo carattere frammentario. Il diritto commerciale è un diritto pieno di lacune. Nella disciplina dei rapporti che vi sono soggetti, dove manca la norma eccezionale del diritto commerciale, subentra per necessità la norma ordinaria del diritto civile e, nello svolgimento del processo per la realizzazione del diritto nei rapporti commerciali, subentra la norma ordinaria del diritto processuale civile. Questo carattere frammentario è ancora più spiccato in materia processuale, perché in questo campo le norme processuali speciali sono andate sempre diminuendo, specialmente in seguito alla scomparsa della giurisdizione commerciale, abolita in Italia nel 1888.
I rapporti sottratti all'impero del diritto comune e assoggettati a quello speciale sono, come si è detto, i rapporti derivanti dall'esercizio del commercio e altri a questi affini o assimilati. Il complesso di questi rapporti si denomina materia commerciale. Si è già accennato alla vastità odierna di questi rapporti, quale risulta dallo sviluppo storico del diritto commerciale. Ma la precisa determinazione di essi è compito della legge positiva. Ogni legislazione speciale per una determinata materia presuppone di necessità norme che questa materia determinino. Tali norme sono perciò denominate determinative e delimitative. Il codice italiano di commercio contiene alcune norme che determinano la materia di commercio.
La legge non dà una definizione sintetica della materia di commercio, ma enumera una serie di atti che essa ritiene manifestazione dell'attività commerciale, o di attività da assimilarsi a quella commerciale, o infine di attività connesse all'una e all'altra. Negli articoli 3,4,5,6 del cod. comm. sono enumerate 27 categorie di atti considerati dalla legge come atti di commercio, ossia come attività che dànno origine a rapporti regolati dal diritto commerciale.
Sebbene in generale si affermi che nessun criterio o principio direttivo stia a base dell'enumerazione legislativa degli atti di commercio e che per conseguenza non sia possibile stabilire il concetto unitario dell'atto di commercio, uno studio più approfondito dell'argomento induce a ritenere che il legislatore italiano ha considerato come atto di commercio ogni atto che realizza o facilita un'interposizione nello scambio. Sono pertanto atti di commercio costitutivi gli atti d'interposizione nello scambio, si tratti di scambio delle merci, dei titoli e dei fondi urbani o rustici (compera per rivendere e successiva rivendita) o di scambio di denaro contro danaro a credito (operazioni di banca) o di scambio del lavoro (imprese) o, infine, di concentrazione e distribuzione, quindi di scambio dei rischi (assicurazioni). Sono questi atti commerciali per la loro intrinseca natura.
La legge enumera poi altre categorie di atti per i quali la ragione della commercialità sta in un rapporto di connessione con un'attività commerciale. Si potrebbero perciò denominare atti di commercio per connessione. Alcuni di questi sono dichiarati senz'altro commerciali dalla legge a causa della loro normale connessione con un affare commerciale, quali i riporti, le operazioni cambiarie, gli atti inerenti alla navigazione, i depositi nei magazzini generali e le operazioni a essi inerenti. Per altri la legge presume la connessione con un'attività commerciale, salva la prova contraria; tale presunzione sussiste per tutti gli atti compiuti da un commerciante. Altri infine sono commerciali quando sia concretamente dimostrata la loro connessione con un affare commerciale: di questi atti la legge enumera la compera e la vendita di quote e azioni, le assicurazioni di cose, per l'assicurato, le operazioni di mediazione, i depositi, il conto corrente e l'assegno bancario, il mandato, la commissione.
La determinazione delle diverse categorie di atti di commercio indicati dalla legge non esaurisce la materia commerciale, ossia il campo di applicazione del diritto commerciale. L'enumerazione legislativa ha infatti carattere esemplificativo e non tassativo; sicché anche altre specie di attività non contemplate dalla legge, purché abbiano caratteri comuni con quelle contemplate, sono da riconoscere come commerciali. In secondo luogo, è da notare che il diritto commerciale non regola soltanto gli atti di commercio, ma altresì alcuni stati o condizioni di fatti, quali, per esempio, la condizione o stato personale del commerciante, sia questo una persona fisica sia un ente. Infine è da rammentare che gli atti di commercio molto frequentemente dànno luogo a rapporti che sono commerciali per una parte e non commerciali per l'altra. Secondo alcune legislazioni questi rapporti sfuggivano spesso alla disciplina del diritto commerciale, ma il codice di commercio italiano vigente li ha sottoposti integralmente al diritto commerciale, anche rispetto a coloro riguardo ai quali il rapporto non ha carattere commerciale.
Bibl.: Opere più antiche: B. Stracca, De mercatura seu mercatore tractatus, Venezia 1553; S. Scaccia, Tractatus de commerciis et cambio, Roma 1618; F. Rocco, Responsorum legalium... centuriae duae, ecc., voll. 2, Napoli 1655; A. De Ansaldis, Discursus legales de commercio et mercatura, Roma 1689; G. M. Casaregis, Discursus legales de commercio, voll. 3, Firenze 1719; D. A. Azuni, Dizionario universale ragionato della giurisprudenza mercantile, 1ª ed., Nizza 1780-88, 2ª edizione, voll. 4, Livorno 1822-24; A. Baldasseroni, Dizionario della giurisprudenza mercantile, voll. 4, Firenze 1810-12; M. De Jorio, Giurisprudenza del commercio, Napoli 1793; G. Fierli, Della società chiamata in accomandita e di altre materie mercantili, Firenze 1803. Sono da menzionare tra gli antichi scrittori stranieri: J. Savary, Le parfait négociant, Parigi 1675; id., Dict. univ. du commerce, Parigi 1741, ristampato ivi 1748; nuova ed., Copenaghen 1759-66; D. Jousse, Commentaire sur l'ordonnance de Louis XIV, Parigi 1678; Valin, Commentaire sur l'ordonnance de la marine, La Rochelle 1760; B. H. Emérigon, Traité des assurances et des contracts à la grosse, Marsiglia 1784; W. Lauterbach, Θέσεις de iure in curia mercatorum usitato, Tubinga 1655; J. Marquardt, Tractatus politico-iuridicus de iure mercatorum et commerciorum singulari, Francoforte 1622; G. F. Martens, Grundriss des Handelsrechts, Gottinga 1797.
Opere moderne: Oltre a quelle italiane, particolarmente notevoli negli ultimi decennî, hanno importanza speciale le opere francesi della prima metà e quelle tedesche della seconda metà del sec. XIX. Fra gli scrittori italiani sono da menzionare: E. Vidari, Corso di diritto commerciale, voll. 9, Milano, 1ª edizione, 1877-1887; 5ª ed., 1900-1908; C. Vivante, Trattato di diritto commerciale, voll. 4, 1ª ed., Torino 1893-1902; 5ª ed., Milano 1929; id., Istituzioni di diritto commerciale, 38ª ed., Milano 1929; A. Marghieri, Il diritto commerciale italiano esposto sistematicamente, 1ª ed., Napoli 1884; della 3ª ed. (in collaborazione con A. Scialoja), Torino 1910, videro la luce il vol. I e le parti riguardanti le società e la cambiale); A. Marghieri, Manuale del diritto commerciale italiano, 1ª ed., Napoli 1894; 2ª ed., Roma 1922-1923; L. Franchi, Manuale del diritto commerciale, Torino 1890-95; D. Supino, Istituzioni di diritto commerciale, 16ª ed., Firenze 1931; U. Navarrini, Trattato elementare di diritto commerciale, voll. 2, Torino 1911; id., Trattato teorico pratico di diritto commerciale, voll. 6, Torino 1913-1926; 2ª ed., vol. I, Torino 1931; A. Rocco, Principi di diritto commerciale, Torino 1928; C. Vivante, L. Bolaffio, e altri, Il codice di commercio commentato, 5ª ed., Torino 1922 segg.; E. Bensa, A. Bruschettini, G. Bonelli e altri, Commentario al codice di commercio, Milano 1900 segg. Riviste: Il diritto commerciale (dal 1900 ha assunto il titolo: Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni), Milano.
Francia: J. Pardessus, Cours de droit commercial, voll. 4, 6ª edizione, Parigi 1856-57; G. Massé, Le droit commercial dans ses rapports avec le droit des gens et le droit civil, 3ª ed., voll. 4, Parigi 1873; C. Demangeat e P. Bravard-Veyrières, Traité de droit commercial, 2ª ed., voll. 6, Parigi 1886-1892; A. Boistel, Cours de droit commercial, 4ª ed., Parigi 1890; C. Lyon-Caen e L. Renault, Traité de droit comm., 5ª ed., voll. 8, Parigi 1921-1925; E. Thaller, Traité élémentaire de droit comm., 5ª ed., voll. 8, Parigi 1921-1925; E. Thaller, Traité élémentaire de droit comm., 7ª ed., Parigi 1925; E. Thaller, P. Pic, J. Percerou, L. Josserand e altri, Traité général théor. et prat. de droit comm., Parigi 1909 segg.; L. Lacour, Précis de droit comm., 2ª ed., con la collab. di J. Bouteron, voll. 2, Parigi 1921; A. Wahl, Précis de droit comm., Parigi 1922.
Germania: H. Thöl, Das Handelsrecht, 6ª ed., voll. 3, Lipsia 1879-1880; L. Goldschmidt, Handbuch des Handelsrechts, I, i e ii, Erlangen 1864-1868; 2ª ed., Stoccarda 1875-83, 3ª ed., sotto il titolo Universalgeschichte des Handelsrechts, Stoccarda 1891; W. Endemann, Das deutsche Handelsrecht, 4ª ed., Lipsia 1887; L. Goldschmidt, System des Handelsrechts... im Grundriss, 4ª ed., Stoccarda 1892; W. Endemann, Handbuch des deutschen Handels-, See- und Wechselrechts, voll. 4, Lipsia 1881-85, opera scritta in collaborazione con Brunner, Cohn, Gareis, Regelsberger, Schott e altri. Se ne è pubblicata anche una traduzione italiana, Napoli 1897-1903; J. F. Behrend, Lehrbuch des Handelsrechts, I, Berlino 1880-1896; K. Gareis, Deutsches Handelsrecht, 8ª ed., Berlino 1909; K. Lehmann, Lehrbuch des Handelsrechts, 2ª ed., Lipsia 1912, 3ª ed. in collabor. con H. Hoeniger, Berlino 1921; K. Cosack, Lehrbuch des Handelsrechts, 10ª e 11ª ed., Stoccarda 1923; H. Makower, Das allgemeine deutsche Handelsgesetzbuch mit Kommentar, 12ª ed., Berlino 1898-1901, 13ª ed. con la collaborazione di F. Makower, Berlino 1906-07; F. Hahn, Kommentar zum allgemeinen deutschen Handelsgesetzbuch, 1ª ed., Brunswick 1862-63, 4ª ed., ivi 1894 (del solo vol. I); A. Anschütz e F. von Völderndorff, Kommentar zum handelsgesetzbuch, voll. 3, Erlangen 1868-76; C. Gareis e Fuchsberger, Das allgemeine deutsche Handelsgesetzbuch, Berlino 1891; H. Staub, Kommentar zum Handelsesetzbuch, 6ª e 7ª ed., Berlino 1899, l'ultima edizione, la 12ª e 13ª, voll. 4, riveduta da F. Bondi, H. Könige e A. Pinner, Berlino 1926-27; A. Düringer e M. Hachenburg, Das Handelsgesetzbuch vom 10. Mai 1897, auf der Grundlage des bürg Gesetzbuchs, 1ª ed., Mannheim 1899-1905; 2ª ed., con la collab. di K. Geiller, B. Königer e altri (1908), C. Ritter (1910), A. Brand (1911); K. Lehmann e V. Ring, Das deutsche Handelsgesetzbuch, 2ª ed., 1913-14; E. Heilfron, Lehrbuch des Handelsrechts, 2ª ed., voll. 2, 1912-1913; V. Ehrenberg, Handbuch des gesamten Handelsrechts, voll. 5 in 9 parti, Lipsia 1913-1929; R. Müller-Erzbach, Deutsches Handelsrecht, I, I, Tubinga 1919, II, 1927; K. Wieland, Handelsrecht, voll. 2, Lipsia 1921-31; J. v. Gierke, Handelsrecht und Schiffahrstrecht, Berlino 1922; O. Pisko, Lehrbuch des österr. Handelserchts, Vienna 1923.
Diritto canonico.
Nel suo senso più ampio diritto canonico è il complesso delle leggi poste o approvate dalla Chiesa cattolica per il governo della società ecclesiastica e per la disciplina delle relazioni dei fedeli. La denominazione di canonico deriva dalla parola greca κανών ("regola, norma"), con la quale originariamente s'indicava qualsiasi prescrizione relativa sia alla fede sia all'azione cristiana. A partire dal sec. IV con questo mome si designarono le norme disciplinari dei sinodi, in contrapposto alle leggi (νόμοι) degl'imperatori, come poi nel Medioevo si chiamarono canones tutte le norme emanate dalla Chiesa, di contro alle leges secolari, e dal sec. XII si usò correntemente l'espressione ius canonicum in contrapposto al ius civile e i loro cultori furono detti rispettivamente canonistae e iuristae.
Il diritto della Chiesa si distingue, in relazione alle fonti da cui deriva, in diritto naturale (ius naturale) e in diritto positivo (ius positivum), che può essere divino-positivo e umano-positivo. Talora le due prime categorie si raggruppano sotto l'unica denominazione generica di diritto divino, distinto poi in diritto divino-naturale e diritto divino-positivo.
Il diritto naturale è quasi un istinctus naturae, comune a tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni religione, che dà loro la coscienza del lecito e dell'illecito, del bene e del male; è un ordine universale posto da Dio, cui nessuna legge umana può derogare. Il diritto divino positivo è l'insieme delle norme date da Dio attraverso la rivelazione: cioè dei precetti che risultano dall'Antico e dal Nuovo Testamento, e di quelli che, non raccolti dalla Sacra Scrittura, siano tuttavia frutto della rivelazione divina, secondo la tradizione ricevuta dalla Chiesa. Il diritto umano positivo è quello che emana dalla Chiesa per i rapporti che questa ritiene spetti a lei di regolare, e allora si dice anche positivo-ecclesiastico o ecclesiastico, in contrapposto al diritto naturale e al diritto divino. Si comprende nel diritto umano-positivo anche quello emanato dalla sovranità statale; i confini tra questo e quello della chiesa non sono tracciati in modo completo e generale, e sono piuttosto subordinati alle esigenze dei varî tempi e paesi. In ogni modo il diritto umano positivo non può mai trovarsi in antitesi con il diritto naturale o col diritto divino positivo, sotto pena di nullità delle sue norme.
Il diritto della chiesa è poi diviso sotto altri punti di vista. Le principali distinzioni sono: a) rispetto alla materia considerata, in pubblico (che si suddivide in interno ed esterno) e in privato; b) rispetto all'ambito in cui si esplica, in universale e particolare (il primo concerne tutto l'orbe cattolico o almeno tutta la Chiesa latina, il secondo ha efficacia limitata a un dato territorio), in generale e speciale (a seconda che regge tutti i sudditi o solo una classe di fedeli; ad es., i religiosi), in comune e singolare (a seconda che pone norme comuni o eccezionali: sono esempî di queste i privilegi).
Fonti: Fonti di produzione. - Esclusiva fonte del diritto naturale e divino-positivo è Dio. La Chiesa può solo interpretarne le norme e proporle in modo obbligatorio. Del diritto umano-positivo o positivo-ecclesiastico, principale fonte è il papa, legislatore per la Chiesa universale, che può tanto emanare leggi nuove, quanto abrogare o modificare quelle esistenti. Il concilio ecumenico è, come il papa, fonte suprema di diritto universale, ma le sue deliberazioni non acquistano forza se non in base alla conferma e promulgazione pontificia (v. concilio). Anche le congregazioni romane emanano norme di diritto per l'intera Chiesa. Fonti sussidiarie sono i principî generali del diritto, cum aequitate canonica servata, lo stylus et praxiscuriae Romanae, l'opinione comune e costante dei dotti; infine può essere fonte di diritto generale, sebbene si esplichi più frequentemente nel campo del diritto particolare, la consuetudine, consuetudo legalis.
Fonti di diritto particolare sono, oltre il papa e il concilio ecumenico, i concili plenarî e provinciali, i sinodi diocesani, i vescovi, vicarî e prefetti apostolici, abati e prelati nullius, per le giurisdizioni rispettive, nonché gli organi competenti degli ordini religiosi nell'ambito loro interno.
Fonti di cognizione. - Esse sogliono dividersi in corrispondenza a tre grandi periodi: del ius antiquum, comprendente il diritto anteriore a Graziano (tra il 1140 e il 1150); del ius novum, comprendente quello che va da Graziano al concilio di Trento (1545-1563); del ms novissimum, o successivo al concilio di Trento.
Nel primo periodo troviamo principalmente: la Sacra Scrittura, nei libri riconosciuti canonici dal concilio di Trento (v. bibbia, p. 882 segg.); le cosiddette raccolte pseudo-apostoliche, scritti apocrifi attribuiti agli apostoli, senza vero valore legislativo, ma importanti per la conoscenza della vita religiosa e della disciplina dal sec. II al IV (v. apostolo, p. 712 segg.); le varie raccolte cronologiche e sistematiche dei concilî orientali: principale il Codex canonum (o Synodicon), già richiamato negli atti del concilio di Calcedonia (451) e che il Gasparri (Prefazione al Codex) chiama antiquarum collectionum fere omnium quasi principium et fons; la versio Isidoriana o Hispana, della fine del sec. V, e la pressoché contemporanea collectio Prisca o Itala, contenenti la traduzione latina di canoni dei concilî greci, e decretali dei papi; le due collezioni composte intorno al 500 da Dionigi il Piccolo (v.), contenenti versioni dei canoni orientali (costituenti la cosiddetta graeca auctoritas) e decretali di papi, inviate da papa Adriano I a Carlomagno nel 774 (Collectio Dionysio-Hadriana) e imposte dalla dieta di Aquisgrana (802) come codice generale per la Chiesa franca (quest'opera, sotto il nome di Codex canonum, ebbe grandissima autorità per tutto il Medioevo); infine, dopo la comparsa intorno all'850 delle False Decretali (collezione comprendente, oltre a canoni conciliarî e a decretali autentiche dei primi otto secoli, sessanta lettere pontificie apocrife), tutta una ricca letteratura canonica: Florilegi patristici; Libri penitenziali; Formularî di cancelleria; nonché numerose collezioni sistematiche dei documenti precedenti (fra cui la Collectio Anselmo dicata, la Collectio canonum Anselmi Lucensis, i Libri duo de synodalibus di Reginone da Prüm, il Decretum di Burcardo da Worms, ecc.), e collezioni particolari ai varî paesi.
I tentativi di sistemazione compiuti sino allora vennero coronati felicemente verso la metà del sec. XII da Graziano, la cui opera, Concordia discordantium canonum (chiamata poi Decretum), fu fondamentale per lo sviluppo del diritto canonico, e pur non venendo mai riconosciuta esplicitamente dalla Chiesa come suo codice, ne ebbe tuttavia l'autorità (v. graziano). Dopo il Decreto di Graziano sorse la necessità di raccogliere anche le nuove leggi successivamente emanate dai concilî e dai pontefici. Ne furono dapprima fatte alcune collezioni, di cui le più importanti sono le cosiddette Quinque compilationes antiquae. Ma poi, su incarico di Gregorio IX (1227-1241), il suo cappellano Raimondo di Pennafort ne compilò una raccolta completa, denominata Decretali di Gregorio IX, o semplicemente Decretali (1234; v.), che ebbe carattere ufficiale. Essa fu completata in seguito col Liber Sextus di Bonifacio VIII (1298), e con le Clementinae (1317) pubblicate da Giovanni XXII. Queste diverse collezioni, riunite, formarono il Corpus iurius canonici, comprendente, oltre i suddetti, due altri gruppi di documenti, le Extravagantes Johannis XXII e le Extravagantes communes (così chiamate perché le decretali ivi comprese non si trovavano nelle collezioni precedenti, vaabantur extra colletiones). Il Corpus iuris can. non ebbe mai sanzione ufficiale collettiva; dei suoi elementi ebbero carattere di codificazione ufficiale la seconda, terza e quarta parte. Invece il Decreto e le Extravagantes mantennero quello di semplici raccolte private. Del Corpus furono fatte varie edizioni critiche, fra cui le più recenti e importanti quelle di E. F. Richter (1839) e di E. Friedberg (1879-81).
I decreti dei varî concilî, specialmente quelli del concilio di Trento, i numerosi atti pontifici, le decisioni del tribunale della Rota e delle congregazioni romane, emessi nei secoli posteriori alla formazione del Corpus iuris, resero questa raccolta sempre più insufficiente. D'altra parte tutto questo nuovo materiale, non più raccolto sistematicamente, ma sparso in Bollarî e in collezioni parziali, veniva a costituire un complesso di fonti sempre più difficili da rintracciare, un ammasso enorme di documenti dispersi senza ordine, di cui molti non erano vere leggi ma risposte a casi particolari, e di cui talora era estremamente arduo conoscere se non fossero abrogati o modificati da leggi posteriori o dalla consuetudine: così da giustificare che del diritto canonico potesse dirsi, come già Livio di quello romano, immensum aliarum super alias coacervatarurn legum cumulum (Gasparri, Prefaz. cit.). Si poneva così sempre più impellente il problema della rifusione, del riordinamento del diritto canonico. I vescovi l'avevano chiesto al concilio Vaticano, e successivamente e da ogni parte andava facendosi sempre più deciso il movimento per la codificazione, di cui si ebbero anzi diversi saggi privati negli ultimi decennî del secolo scorso (Colomiatti, Pezzani, Pillet, Deshayes, De Luise, ecc.).
Non mancarono obiezioni contro l'opportunità e la stessa possibilità di attuare un lavoro di codificazione; ma i varî scetticismi furono superati dalla ferma volontà di Pio X, che con il motu proprio Ardue sane munus del 19 marzo 1904 diede incarico a una commissione di sedici cardinali e quarantadue consultori di approntare il codice generale del diritto della Chiesa. Il lavoro, in cui ebbe parte eminente il canonista Pietro Gasparri (v.), fu compiuto in circa tredici anni: alla fine del 1916 esso era ultimato. Il codice venne promulgato con la costituzione di Benedetto XV Providentissima Mater Ecclesia del 20 maggio 1917, ed entrò in vigore la Pentecoste (18 maggio) del 1918. Con motu proprio del 15 settembre 1917 Benedetto XV istituì una commissione speciale incaricata dell'interpretazione autentica del Codice e della redazione dei canoni supplementari che per l'avvenire si riconoscessero necessarî.
Il codice consta di 2414 canoni, distribuiti in cinque libri: I, Normae generales; II, De personis; III, De rebus; IV, De processibus; V, De delictis et poenis. Lo completano alcune costituzioni pontificie, pubblicate in appendice. Il Codice non tocca: le materie relative alla liturgia; i concordati; e, salvo revoca espressa, i privilegi e indulti. Esso non si applica, per massima, che alla Chiesa latina, e non tocca la disciplina della Chiesa orientale. (Per quest'ultima v. qui sotto).
Bibl.: I limiti di questo articolo non consentono neppure uno sguardo sommario alla storia dell'elaborazione scientifica del diritto canonico, né un elenco anche approssimativo dell'immensa produzione canonistica fiorita nei diversi secoli e paesi. Ci limiteremo perciò a indicare alcune delle principali opere moderne, da cui potranno trarsi notizie più complete. Storia e fonti: Fondamentale l'opera di J.F. v. Schulte, Geschichte der Quellen und Literatur des canonischen Rechts, Stoccarda 1875-1880; si veda inoltre: G. Phillips, Du droit ecclésiastique dans ses sources (trad. Crouzet), Parigi 1852; F. Maassen, Geschichte der Quellen und Literatur des canonischen Rechts im Abendland, I, Graz 1870; A. Tardif, histoire des sources du droit canonique, Parigi 1887; Ph. Schneider, Die Lehre v. den Kirchenrechtsquellen, Ratisbona 1892; F. X. Wernz, Introductio in ius decretalium, 3ª ed., Roma 1913; P. Gasparri, Praefatio Codicis iuris canonici, Roma 1918.
Trattazioni: P. Hinschius, System des katholischen Kirchenrechts, Berlino 1869 segg.; R. Scherer, Handbuch des Kirchenrechts, Graz 1886-98; E. Friedberg, Lehrbuch des katholischen und evang. Kirchenrechts, 6ª ed., Lipsia 1909; F.X. Wernz, Ius decretalium, 3ª ed., 1913 segg.; M. Leitner, Handbuch des kath. Kirchenrechts, Ratisbona-Roma 1918 segg.; F. Maroto, Institutiones iuris canonici, Madrid 1919; A. Pöschl, Kurzgefasstes Lehrbuch des kath. Kirchenrechts, 2ª ed., Graz 1921; A. Blat, Commentarium texteus Codicis iuris canonici, 2ª ed., Roma 1921-24; K. Goss, Lehrbuch des kath. Kirchenrechts, 8ª ed., a cura di H. Schneller, Vienna 1922; E. Eichmann, Lehrbuch des Kirchenrechts auf Grund des Codex iuris canonici, 2ª edizione, Paderbvorn 1926; A. Vermeersch e Creusen, Epitome iuris canonici, 3ª ed., Malines-Roma 1927; G. B. Sägmüller, Lehrbuch des katholischen Kirchenrechts, 4ª edizione, Friburgo in B. 1925 seg. - Monografie più o meno ampie sopra singoli argomenti si contengono poi nei diversi dizionarî di scienze ecclesiastiche e giuridiche; menzioniamo in modo speciale il Dictionnaire de droit canonique in corso di pubblicazione sotto la direzione di A. Villien e E. Magnin, Parigi 1924 segg.
Sul codice in particolare; U. Stutz, Der Geist des Codex iuris canonici, Stoccarda 1918; M. Falco, Introduzione allo studio del Codex iuris canonici, Torino 1925. - Le fonti del Codice, escluse quelle contenute nel Corpus iuris can., negli atti del concilio di Trento e nei libri liturgici, sono pubblicate dal Gasparri nella collezione Codicis iuris canonici Fontes, Roma 1923 segg. - Le nuove leggi che la S. Sede viene man mano pubblicando sono inserite negli Acta Apostolicae Sedis.
Diritto Canonico orientale. - Contrariamente all'uso invalso da circa tre secoli, occorre distinguere tra disciplina e rito. A ciascuno dei cinque riti orientali (alessandrino, antiocheno, bizantino, caldeo, armeno) che riguardano solo la liturgia, corrisponde un'omonima disciplina canonica: discipline e riti si sono formati attorno alle grandi metropoli dell'oriente cristiano, Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Seleucia-Ctesifonte, e le varie capitali religiose del regno armeno. La disciplina alessandrina è seguita dai Copti e dagli Etiopi; quella antiochena dai Siri occidentali giacobiti e, con forti interpolazioni latine, dai Maroniti; quella bizantina da tutti i popoli che hanno ricevuto da Bisanzio la fede cristiana o sono passati sotto il suo dominio religioso, cioè Greci, Melchiti di Siria, Palestina ed Egitto, Georgiani, Bulgari, Serbi, Rumeni, Russi, Ucraini, Albanesi; quella caldea dai Nestoriani, e quella armena dal solo popolo armeno. Quei rami di tali popoli che sono tornati all'unità cattolica, dopo le grandi eresie e scismi, hanno conservato sostanzialmente la medesima disciplina dei dissidenti, tuttavia con due differenze essenziali: accettano tutti i concilî ecumenici, mentre i dissidenti ne riconoscono soltanto due, tre o sette, secondo le chiese; e hanno frammischiato nella loro propria disciplina, presso di loro poco studiata, molte prescrizioni di origine occidentale, infiltratesi ivi per varie ragioni.
Tutte le discipline orientali sono basate su un ius vetus, il quale comprende per i cattolici i canoni dei concilî ecumenici fino all'VIII alcuni concilî locali universalmente ricevuti (e questi variano da disciplina a disciplina) e un certo numero di risposte canoniche dei padri della Chiesa. A questo diritto antico i dissidenti aggiungono i canoni dei loro concilî celebrati dopo la separazione, le decisioni sinodali dei loro patriarchi o capi di Chiesa, e una quantità di regolamenti emanati dal potere civile. Questo ius novum dei dissidenti non può essere per i cattolici che un subsidium iuris, cioè un insieme di prescrizioni senza vero valore canonico, ma prezioso per la conoscenza dei costumi e usi disciplinari. Lo stesso si dica, per i cattolici, di quei loro sinodi che non sono stati approvati dalla S. Sede, dacché questa approvazione è stata resa obbligatoria da Sisto V. Il vero ius novum dei cattolici comprende le decisioni dei concilî ecumenici posteriori all'VIII e applicabili allo Oriente, quelle delle costituzioni dei romani pontefici che riguardano anche gli Orientali, i rescritti di certe congregazioni romane emanati sia espressamente per loro, sia su materie comuni che comprendono anche l'Oriente, i concilî locali orientali approvati a Roma o almeno riveduti e stampati con permesso della S. Sede - il più celebre è il Libanese del 1736 per i Maroniti - e le prescrizioni dei loro patriarchi o arcivescovi con giurisdizione quasi patriarcale.
Per ovviare al disordine e all'incertezza risultanti da un materiale così disparato, Pio IX aveva già iniziato lavori preparatorî, che sono stati ripresi su più larga scala da Pio XI con la costituzione di due commissioni parallele: una per la ricerca delle fonti del diritto orientale in generale e in particolare, l'altra per l'elaborazione di un codice canonico orientale analogo a quello oggi esistente per la Chiesa occidentale, o di più codici, uno per disciplina. Le due commissioni hanno iniziato i loro lavori, necessariamente lunghi, nel 1929. I dissidenti di disciplina bizantina, nelle conferenze preparatorie al progettato concilio panortodosso, hanno ventilato l'idea (1930) di procedere a un lavoro simile.
Bibl.: N. Milaš, Das Kirchenrecht der morgenländischen Kirche, Mostar 1905, che è la traduzione tedesca, ad opera di A. von Pessić, della prima edizione Pravoslavno crkveno pravo, Mostar 1902; l'autore, vescovo serbo-ortodosso di Zara, è di tendenze anticattoliche: J. Papp-Szilágyi, Enchiridion iuris Ecclesiae orientalis catholicae, 2ª ed., Magno-Varadini 1880, lavoro di limitata importanza e riguardante specie i Romeni di Transilvania. Altre monografie, per lo più in greco, serbo, russo e romeno, riguardano punti particolari.
Diritto ecclesiastico.
Etimologicamente diritto ecclesiastico vale diritto della ἐκκλησία, comunità dei convocati dal messaggio di redenzione (v. chiesa).
Di iura (ecclesiae) già parla Tertulliano (De praescript. haeret., c. 27; c. z7; De pudic., c. 21). Il termine ius ecclesiasticum si era già formato sulla fine del sec. IV; ma non significava l'insieme del diritto oggettivo della Chiesa, bensì il diritto subbiettivo, la potestas ecclesiastica, cioè la potestà della Chiesa di legare e sciogliere. Il termine appare quattro volte nelle Quaestiones veteris et novi Testamenti dell'Ambrosiaste (verso il 375): tre volte (c. 93,2 e 3; c. 102,24) certamente in senso soggettivo, e forse anche la quarta volta (c. 102,31) che tuttavia può lasciar qualche dubbio. Il termine si trova anche nello scritto pseudociprianeo De singularitate clericorum, c. 36 (fra il 363 e il 373). L'uso del vocabolo non è però generale. Il Codice teodosiano mostra ignorare, nonché il termine, l'esistenza stessa del concetto; il concilio di Nicea (325) dovendo parlare di legge ecclesiastica adopera l'espressione κανονικὸς νόμος (c. 13); papa Siricio (384-393) dovendo eccitare all'obbedienza delle leggi, esorta ad servandos canones et tenenda decretalia constituta; S. Leone Magno, dovendo accennare alla potestà della Chiesa di legare e sciogliere, parla (Sermo IV, c. 3) di un ius potestatis. Tra il sec. VI e il IX l'insieme delle norme giuridiche della Chiesa suole essere designato con la denominazione iura ecclesiastica, mos canonicus, ordo canonicus. I più antichi decretisti volendo contrapporre il diritto ecclesiastico al diritto civile, pongono l'antitesi ius ecclesiasticum-ius forense. A partire dalla fine del secolo XII diviene generale per indicare il diritto della Chiesa il termine ius canonicum, e quello ius ecclesiasticum viene sempre meno usato.
Gli studiosi cercarono di disciplinare l'uso dei due vocaboli "diritto ecclesiastico" e "diritto canonico" proponendo: che il primo includesse tutte le norme emanate prima e dopo la formazione del Corpus iuris canonici, raccolte o no in questo, purché riferentisi a materia ecclesiastica, con esclusione di quelle norme relative a materie estranee alla costituzione e all'attività della Chiesa, che eccezionalmente questa ha talora regolato e che formano oggetto di dati capitoli del Corpus iuris canonici (ad es., censi, legittimazione, nomina dell'imperatore); che il vocabolo "diritto canonico" f0sse invece usato a designare l'insieme delle norme accolte nel Corpus iuris canonici. Ma l'uso non ha accettato questa distinzione, che d'altronde avrebbe perduto la sua ragion d'essere oggi che al Corpus iuris canonici si è sovrapposto il Codex iuris canonici, il quale non regola alcuna materia profana. L'uso, che non ha per sé alcun elemento etimologico né tradizionale, va invece fissandosi nel senso di denominare "diritto canonico" il diritto della Chiesa e la disciplina che lo studia, e "diritto ecclesiastico" quello emanato dallo Stato e la disciplina avente ad oggetto le leggi di questo volte a regolare la vita giuridica delle confessioni religiose.
Accettando questo uso invalso, ci occupiamo qui della disciplina volta a studiare il diritto ecclesiastico dello stato. Sennonché è rarissimo trovare, fino ad epoca vicinissima a noi, scrittori che si siano occupati di questo e del diritto della Chiesa. Anche quelli che sogliono dirsi scrittori anticurialisti, che cioè lottarono contro gli asseriti diritti della Chiesa sostenendo gli antitetici punti di vista dello Stato, più che a sistemare la legislazione statale pensavano a controbattere gli argomenti degli scrittori ortodossi attingendo a padri della Chiesa, a concilî, ad antichi canoni di disciplina ecclesiastica. Così molto scarsi di dati intorno alla legislazione statale sono gli scritti dei più popolari anticurialisti come Paolo Sarpi (1552-1623) e Zeger Bernardo van Espen (1646-1728).
In Germania tra i riformati appaiono i primi scrittori che si occupano di diritto statale, o per rivendicare la preminenza del sovrano e i suoi diritti (Simone Schard: 1535-73; Melchiorre Goldast: 1576-1635; Teodoro von Reinking: 1590-1664), o per trattare la questione generale di ciò che lo Stato deve consentire o proibire in materia religiosa (Daniel Clasen: 1623-78), o per considerare i concordati tedeschi (Giovanni Schilter: 1632-1705; Adamo Cortrejus: 1637-1706) o altri singoli argomenti. Un posto a sé ha la ricca bibliografia sul cosiddetto sistema episcopale o sull'opposto sistema territoriale, di cui sono rispettivamente rappresentanti Benedetto Carpzov (1595-1666) e Cristiano Thomasius (1635-1728). Dei riformati francesi scrissero su argomenti di diritto statale Carlo du Moulin (1500-66), Pietro du Moulin (1568-1658), Mattia de Larroque (1619-94).
Tra i cattolici, sono da ricordare numerosi scrittori francesi vissuti all'inizio del sec. XVI, come il consigliere del Parlamento di Parigi Cosmas Guymier (m. 1503), Pierre Rebuf, Gille Lemaistre; più tardi Francesco Grimaudet (1520-80); e in Germania il gesuita Paolo Laymann (1575-1635), il canonico di Augsburg Giorgio Branden, il gesuita Carlo Schretter (1644-1718), che si occupò di diritto ungherese, il prete Giovanni Gaspare Barthel (1697-1771).
Un posto a sé merita la letteratura francese in difesa delle libertà gallicane (v. gallicanismo). E, anche finito il periodo delle contestazioni intorno ai principî della Chiesa gallicana e alle cosiddette libertà gallicane, non venne mai meno in Francia una tradizione di studî intorno al diritto statale - di solito d'intonazione gallicana - tradizione ravvivatasi nel periodo napoleonico e della Restaurazione (così a es. nelle due opere di A. Maria Dupin: 1783-1865).
Durante tutto il sec. XVIII non mancarono nei paesi di lingua tedesca cultori del diritto statale (così a es. Aquilino Giulio Cäsar: 1720-92; Giovanni Giorgio Schlör: 1722-83; Francesco Stefano Rautenstrauch: 1734-85), tra cui notevoli i giuristi del tempo di Giuseppe II, difensori della legislazione ecclesiastica dell'imperatore (Giuseppe Valentino Eybel: 1741-1805; Giuseppe Antonio von Riegger: 1742-95).
In Italia una tradizione di studî di diritto ecclesiastico statale si ha solo nel Mezzogiorno: ma qui pure non dà vita se non a opere di scarsa importanza particolarmente numerose nel periodo illuministico napoletano (Giuseppe Pasquali, Filippo Cammarata). Stefano di Chiara (1752-1837) pubblica interessanti lavori sul diritto siciliano; Luigi Giampallari nel 1828 stampa i quattro volumi del suo Diritto ecclesiastico siculo; P. Liberatore nel 1842, Della Polizia Ecclesiastica nel Regno delle due Sicilie; tra il 1840 e il 1845 Giacomo Giordano e Giuseppe Laudicina scrivono in tema di giurisdizione ecclesiastica della monarchia sicula e Vito Giliberti pubblica La Polizia Ecclesiastica nel Regno delle due Sicilie. Dopo l'unificazione in un primo periodo non si hanno che o studî pratici volti ad annotare e interpretare le leggi eversive, o - più abbondante - una produzione politica, che mira a dettare direttive allo stato. Fra queste opere le due di maggior valore sono Stato e Chiesa di Marco Minghetti (Milano 1877) e La libertà della Chiesa (Milano 1874) di Giuseppe Piola, che rispecchiano rispettivamente il pensiero della vecchia destra cavourriana e della nuova scuola giurisdizionalista che non si limita a volere uno Stato armato di mezzi di polizia di fronte alla Chiesa, bensì uno Stato che consideri la Chiesa e la sua attività come una forza da inquadrare e dirigere, nell'espletamento della propria azione etica.
Pochi anni più tardi gli studiosi si rivolgono di preferenza allo studio dei rapporti fra Stato e Chiesa in determinati paesi o in dati momenti: ricordiamo l'opera di Bartolomeo Cecchetti, La Repubblica di Venezia e la corte di Roma (Venezia 1874), e i libri di Francesco Scaduto, Stato e Chiesa negli scritti politici dalla fine della lotta per le investiture sino alla morte di Lodovico il Bavaro (Firenze 1882), Stato e Chiesa sotto Leopoldo I granduca di Toscana (Firenze 1885), Stato e Chiesa secondo fra Paolo Sarpi (Firenze 1885), Stato e Chiesa nelle due Sicilie (Palermo 1887), cui segue ancora qualche buon lavoro storico volto a studiare dati istituti del diritto ecclesiastico statale (Andrea Galante, Il diritto di placitazione e l'economato dei benefici vacanti in Lombardia, Milano 1894). A un'esposizione organica del diritto ecclesiastico dello stato per lungo tempo nessuno si accinge, anche per il preconcetto che la legislazione sia in questa materia qualcosa d'inorganico da cui non si possa ricavare un sistema, sicché meglio valga limitarsi ad annotare le leggi (così G. D. Tiepolo, Leggi ecclesiastiche annotate, Torino 1881). Il primo che si accinge a quest'opera, armato oltre che di un'ottima cultura storica anche di una perfetta conoscenza della letteratura politico-ecclesiastica del Risorgimento, e che perciò viene meritamente salutato restauratore del diritto ecclesiastico italiano, è Francesco Scaduto col suo Diritto ecclesiastico vigente in Italia (Napoli 1889-91), opera che è stata più volte edita e che è rimasta fondamentale, anche se alcune sue concezioni non siano prevalse nella posteriore dottrina. Francesco Ruffini segue un indirizzo storico, volto a considerare la storia dei singoli istituti, il terreno storico-politico su cui la legislazione è sorta e anche ad anatomizzare la costituzione di enti della Chiesa (La rappresentanza giuridica delle parrocchie, pubblicata in Giur. it., 1896, IV). Ma egli è pure autore di monografie su argomenti di diritto statale, che hanno avuto un'importanza assai notevole per lo stabilirsi della giurisprudenza sopra complesse questioni (La quota di concorso, Milano 1904; Le spese di culto delle opere pie, Torino 1908).
L'attenzione degli studiosi si volse pure alla legislazione ecclesiastica di altri paesi: Domenico Schiappoli e Gaspare Ambrosini studiarono il diritto francese, Andrea Galante quello austriaco, Mario Falco quello bavarese, Arnaldo Bertola quello dell'impero ottomano. Dopo la trattazione sistematica dello Scaduto, si hanno (a tacere di altre minori) quelle di Cesare Olmo (Il diritto ecclesiastico vigente in Italia, Milano 1891), di Carlo Calisse (Diritto ecclesiastico, Firenze 1892), dello Schiappoli (Manuale del diritto ecclesiastico, Torino 1902), del Galante (Elementi di diritto ecclesiastico, Milano 1909), di Nicola Coviello (Manuale di diritto eccles., Roma 1915-16), di Celso Caterbini; Il diritto ecclesiastico italiano (Vicenza 1920), di A. C. Jemolo (Elem. di diritto eccles., Firenze 1927).
Di tali trattazioni solo l'opera, piccola di mole ma notevole per contenuto e per sistematica dell'Olmo, è dedicata soltanto al diritto dello stato: le altre promiscuamente al diritto della Chiesa e dello Stato.
Gli studiosi più recenti sono stati dominati dal desiderio di considerare i concetti generali e i singoli istituti del diritto ecclesiastico non più isolatamente ma inquadrati nella teoria generale del diritto; specie Mario Falco, Il concetto giuridico di separazione della Chiesa dallo Stato (Torino 1913) e Vincenzo del Giudice, La separazione come concetto giuridico (Roma 1913), Rivendicazione e svincolo, riversione e devoluzione dei beni ecclesiastici (Roma 1912). Un completo inquadramento del diritto ecclesiastico nel sistema del diritto pubblico italiano, è tentato da A. C. Jemolo in L'Ammmistrazione ecclesiastica (Milano 1916).
Bibl.: A. Harnack, Ius ecclesiasticum. Eine Untersuchung über den Ursprung des Begriffs, in Sitzungsberichte der k. preussischen Akad. d. Wissenschaften, 1903, Berlino 1903, pp. 212-226; F. Scaduto, Il concetto moderno del diritto ecclesiastico, Palermo 1885; F. Ruffini, Lo studio e il concetto odierno del diritto ecclesiastico, Roma 1892 (estr. da Riv. ital. per le scienze giur., XIII, fasc. 1°); E. Friedberg, Das canonische Recht und das Kirchenrecht, Lipsia 1896 (in Deutsche Zeitschr. für Kirchenrecht, 1896 e trad. ital. del Galante, in Filangieri, 1897); C. Calisse, Il rinnovamento del diritto ecclesiastico in Italia, in Studi senesi, 1893, p. 373 segg.; C. Manenti, Concetto e importanza dello studio del diritto ecclesiastico, Macerata 1892; id., Brevi considerazioni sopra alcuni concetti fondamentali del diritto ecclesiastico, Siena 1900.
Diritto internazionale.
Secondo la definizione che sembra più accettabile, il diritto internazionale è l'ordinamento giuridico della comunità internazionale, intesa come l'insieme degli stati civili e di alcuni altri enti autonomi, che sono in relazioni permanenti fra loro, e si considerano vincolati da certi principî di diritto. La comunanza di civiltà e l'affinità d'interessi spingono gli stati a collaborare in qualche misura fra loro, uniformandosi ad alcune regole di condotta nei loro rapporti. La forma speciale di società, che in tal modo si stabilisce fra enti originariamente indipendenti, è basata sul principio della uguaglianza, in quanto i suoi membri concorrono ugualmente alla formazione e all'attuazione delle norme che disciplinano la vita sociale. Il diritto internazionale risulta appunto dal complesso dei principî e delle norme che hanno vigore nella società degli stati; il suo valore obbligatorio deriva dal concorde riconoscimento degli stati che fanno parte di tale società.
Come sistema di norme positive, esso si distingue dalle regole di ordine morale e religioso, sebbene alcune di queste regole abbiano certamente contribuito alla formazione delle norme giuridiche internazionali. Inoltre, esso si distingue da altri ordinamenti giuridici, e in particolare dal diritto statale o interno, che deriva dalla volontà del singolo stato, e ha valore nell'ambito della comunità statale.
La denominazione "diritto internazionale" introdotta dal Bentham, è prevalente nei paesi latini e di lingua inglese; ma è tuttora in uso anche l'antica denominazione "diritto delle genti" (U droit des gens", "law of nations") e la corrispondente espressione "Volkerrecht" è generalmente usata nei paesi tedeschi. Si suole tradizionalmente distinguere il diritto internazionale pubblico e il diritto internazionale privato; nel primo si comprendono le norme che regolano i rapporti fra gli stati; nel secondo, norme di varia natura che valgono in un dato stato e interessano le relazioni internazionali. Si distingue inoltre il diritto internazionale generale o comune, che comprende le norme che valgono per tutti i membri della comunità internazionale, dal diritto internazionale particolare, che è l'insieme delle norme che valgono soltanto per alcuni (due o più) stati. Sotto questo aspetto, si è parlato da alcuni, non senza esagerazione, di un diritto internazionale europeo, americano, e così via. Infine, specialmente nei più antichi scrittori, si distingue il diritto di pace dal diritto di guerra; distinzione che conserva tuttora notevole importanza di ordine sistematico.
Cenni storici. - Le origini storiche del diritto internazionale risalgono all'inizio dell'epoca moderna. Nell'assetto medievale, le varie comunità politiche erano legate fra loro da un complesso sistema di vincoli gerarchici, che faceva capo alle supreme autorità dell'imperatore e del pontefice. La formazione in Europa di stati indipendenti dall'impero e non più vincolati dalla soggezione a una comune autorità religiosa determinò gradualmente il sorgere di un nuovo assetto politico, basato sul criterio di una coordinazione fra comunità indipendenti e uguali. La prima solenne affermazione del mutato ordinamento si ebbe nei trattati di Westfalia del 1648, che posero fine alla guerra dei Trent'anni: in quei trattati; infatti; si riconobbe l'uguaglianza giuridica degli stati cristiani di Europa, e si delineò quel principio dell'equilibrio politico europeo, che esprimeva il nuovo sentimento della solidarietà internazionale.
In tempi più vicini, la comunità internazionale si estese fuori d'Europa, sia per il sorgere di nuovi stati - come gli stati Uniti dell'America del Nord (1783) e successivamente gli stati dell'America meridionale e centrale -, sia per l'ammissione in essa di stati che, a causa della diversità di religione e di cultura, ne erano rimasti dapprima esclusi, come la Turchia (1856), il Giappone (circa 1854-68), e con certi limiti la Cina, la Persia, il Siam. Un nuovo elemento di sviluppo fu recato dal movimento in favore del principio di nazionalità che attraverso le guerre del periodo 1859-70, condusse alla costituzione in unità politiche dell'Italia e della Germania; e che, nella penisola balcanica, si era dapprima affermato con l'indipendenza della Grecia (1832), e poi col riconoscimento come stati indipendenti della Serbia, della Romania e del Montenegro (1878). Infine i trattati di pace conclusi dopo la guerra mondiale, con la creazione di nuovi stati e con il pieno riconoscimento di alcuni già esistenti e di certe colonie autonome (i Dominions britannici) hanno esteso notevolmente la cerchia della comunità internazionale.
Non meno importanti progressi si sono verificati, nel periodo più recente, riguardo alla determinazione delle norme internazionali. L'Atto finale del congresso di Vienna del 1815 formulò i principî della libera navigazione sui fiumi internazionali e della repressione della tratta degli schiavi. Nel congresso di Parigi del 1856 furono dichiarati alcuni principî relativi alla guerra marittima, con cui si aboliva la corsa, e si regolava il diritto di blocco e la condizione delle navi e delle merci neutrali. Con le convenzioni di Ginevra del 1864 e del 1906 furono create norme per la protezione dei feriti e dei malati in guerra. Nelle due conferenze dell'Aia del 1899 e del 1907, e nella conferenza marittima di Londra del 1908-1909, furono adottate importanti convenzioni per il regolamento pacifico delle controversie internazionali e sul diritto di guerra terrestre e marittima. Da ultimo, il patto della Società delle nazioni, compreso nei trattati di pace del 1919-20, ha creato più intimi legami fra gli stati che vi hanno aderito - e sono la maggior parte - e ha recato nuove garanzie per l'osservanza delle norme internazionali.
Il movimento dottrinale. - A prescindere dalle anteriori indagini, spesso frammentarie, di romanisti e di filosofi e teologi, le prime trattazioni autonome sono dovute all'italiano Alberico Gentili, specialmente nell'opera De iure belli (1598), e all'olandese Ugo Grozio nell'opera De iure belli ac pacis (1625), che ha esercitato una grandissima influenza nella dottrina e nella pratica. L'indirizzo che in seguito prevalse, fino a tutto il sec. XVIII, considerò il diritto internazionale come una parte del diritto di natura, desumendone i principî da criterî razionali: così Pufendorf, Tomasio, Burlamaqui e con qualche temperamento Wolff, e il suo scolaro De Vattel, la cui opera, Droits des gens (1758), ebbe larga diffusione. Altri, come l'inglese Zouch, che introdusse l'espressione ius inter gentes, il Leibniz, il Bynkershoek, il Moser, il Martens, seguirono un indirizzo positivo, a cui possono collegarsi il Lampredi, il Galiani, l'Azuni, che si occuparono specie di questioni relative alla guerra marittima.
Nel sec. XIX, mentre si accentuava il decadimento delle teorie del diritto naturale, sorsero speciali indirizzi in alcuni paesi: note- vole fra questi la scuola italiana, che pose a fondamento del diritto internazionale il principio di nazionalità, auspice Pasquale Stanislao Mancini (con la famosa prolusione a Torino del 1851), seguito da Terenzio Mamiani, da Pasquale Fiore e da molti altri. In seguito la dottrina italiana, orientandosi verso il prevalente indirizzo positivo, per opera specialmente di Dionisio Anzilotti, ha recato notevoli contributi allo sviluppo di questa disciplina. Al progresso scientifico del diritto internazionale si sono dedicati l'Institut de droit international fondato a Gand nel 1873, i cui lavori sono pubblicati in un annuario; l'Association pour la reforme et la codification du droit des gens, che dal 1897 si è denominata International Law Association; l'American Institute of International I, Law, fondato a Washington nel 1912, che raccoglie membri appartenenti a tutti gli stati delle due Americhe; l'Union juridique internationale, fondata a Parigi nel 1919. Per lo stesso scopo si sono costituite associazioni nazionali in vari paesi. Con il concorso della fondazione Carnegie, è stata creata all'Aia nel 1914 una Académie de droit international, i cui corsi, inaugurati nel 1923, sono pubblicati in un'apposita raccolta.
Fonti: Le norme internazionali derivano in generale dalla consuetudine e dai trattati. La prima consiste nella costante osservanza, nei rapporti internazionali, di una data pratica con la convinzione che essa sia obbligatoria. Per molto tempo il diritto internazionale ha avuto esclusivamente carattere consuetudinario; e ancora oggi le norme più generali riposano sulla consuetudine. I trattati, o convenzioni, consistono nell'accordo delle volontà di due o più stati come soggetti dell'ordinamento internazionale. Si distinguono in particolari e collettivi, secondo che emanano da due soli o da varî stati. Anche le deliberazioni degli organi di certe unioni internazionali possono talvolta creare norme giuridiche per i membri delle unioni stesse. Non sono da considerarsi, invece, fonti di questo diritto, in senso proprio, né la giurisprudenza né la dottrina.
Data l'importanza che hanno i trattati nel regolamento dei rapporti internazionali, interessa conoscerne le raccolte. Di queste, alcune sono di iniziativa privata, come quella generale del Martens, che comincia dal 1761 ed è stata continuata fino al presente. Altre sono raccolte ufficiali, ma limitate ai trattati di un singolo stato: così dei trattati conclusi dall'Italia esiste una raccolta pubblicata a cura del Ministero degli affari esteri, iniziata nel 1865. Una raccolta ufficiale generale è quella che viene pubblicata dal segretariato della Società delle nazioni, e che comprende tutti i trattati dei membri della società, che sono registrati presso il segretariato stesso. L'idea di raccogliere e ordinare le norme del diritto internazionale in un apposito codice, sostenuta in passato da alcuni scrittori e da associazioni scientifiche, è stata ripresa recentemente in seno alla Società delle nazioni, e una conferenza a tale scopo si è riunita all'Aia (13 marzo-12 aprile 1930), con la partecipazione dei delegati di circa 48 stati, compresi anche alcuni - come gli Stati Uniti d'America - non membri della Società delle nazioni.
Bibl.: Ricordiamo soltanto alcune delle più importanti trattazioni di carattere generale, con preferenza per le più recenti.
Italiane: L. Casanova, Lezioni di dir. int., 3ª ed., con note di E. Brusa, Firenze 1876; P.S. Mancini, Diritto intern. Prelezioni, Napoli 1873; P. Fiore, Trattato di dir. int. pubbl., 4ª ed., Torino 1904-05; L. Olivi, Manuale di diritto int. pubbl. e priv., 2ª ed., Milano 1911; G. Diena, Principî di dir. int., 2ª ed., Napoli, I, 1914; II, 1917; D. Anzilotti, Corso di dir. inter., Roma, I, 3ª ed., 1928; III, 1ª ed., 1915; S. Gemma, Appunti di dir. int., Bologna 1923; A. Cavaglieri, Lezioni di dir. int., Napoli 1925; S. Romano, Corso di dir. int., 2ª edizione, Padova 1928.
In lingua francese: P. Pradier-Fodéré, Trait de droit int. public européen et américain, Parigi 1885-1906, voll. 9; L. Mérignhac, Traité de droit public int., Parigi 1905-1912, voll. 3; P. Fauchille, Traité de droit int. public, Parigi 1921-26; F. Despagnet, Cours de droit int. publ., 4ª ed., Parigi 1910; E. Nys, e droit int. Les principes, les théories, les faits, 2ª ed., Bruxelles 1912, voll. 3.
In lingua inglese: R. Phillimore, Commentaries upon International Law, 3ª ed., Londra 1879-89, voll. 4; W. E. Hall, A treatise on int. law, 8ª ed. a cura di A. Pearce Higgins, Londra 1924; T. J. Lawerence, The principles of international law, 6ª ed., Londra 1917; L. Oppenheim, International law, 4ª ed. a cura di A. Mac Nair, Londra 1926; R. R. Foulke, A treatise on int. law, Philadelphia 1920; Ch. Cheney Hyde, International law, chiefly as interpreted and applied by the United States, Boston 1922.
In lingua tedesca: Handbuch des Völkerrechts, edito da F. Stier-Somlo con la collaborazione di varî altri scrittori, Berlino 1912 segg.; E. von Ullmann, Völkerrecht, 2ª ed., Tubinga 1908 (trad. ital. con note nella Biblioteca di scienze politiche, s. 3ª, IX 1914); F. von Liszt, Das Völkerr. systematisch dargestellt, 12ª edizione, Berlino 1925 (trad. francese della 9ª ed., Parigi 1928); J. Hatschek, V. als System rechtlich bedeutsamer Staatsakte, 1923; A. Verdross, Die Verfassung der Völkerrechtsgeminschaft, Vienna 1926. Un dizionario molto utile è il Wörterbuch des Völkrrechts u. der Diplomatie, iniziato da J. Hatschek e continuato da K. Strupp, Berlino.
Dei periodici ricordiamo: la Rivista di diritto internazionale, fondata nel 1906 da D. Anzilotti, A. Ricci-Busatti, e L. Senigallia, e ora diretta dal primo insieme ad A. Cavaglieri e T. Perassi (Roma), la Revue de droit international et de législation comparée, fondata nel 1869 (Bruxelles); il Journal du droit international, fondato da E. Clunet nel 1874 (Parigi); la Revue générale de droit international public (Parigi); The American Journal of International law (Washington); La Zeitschrift für Völkerrecht (Breslavia); The British Year-Book of International law (Londra).
Diritto internazionale privato. - S'intende per diritto internazionale privato il complesso di quelle norme che delimitano l'estensione di applicazione nello spazio delle leggi interne attinenti alla materia di diritto privato. Nella pratica si usa però fare rientrare nella trattazione del diritto internazionale privato anche la conoscenza delle norme di delimitazione di leggi interne non propriamente appartenenti alla sfera del diritto privato.
Controversa è stata ed è la determinazione della natura del diritto internazionale privato: è necessario perciò precisare meglio la definizione sopra riferita. Estensione spaziale di una legge significa null'altro che determinazione dei rapporti sociali cui la legge stessa deve applicarsi, sulla base del collegamento che questi rapporti presentano con un dato ordinamento. Varî elementi possono essere assunti dal diritto come rilevanti a fissare detto collegamento: lo status del soggetto: cittadino, straniero, domiciliato, ecc.; la situazione dei beni; il luogo di perfezione o di esecuzione di un negoziato giuridico. Secondo la natura di questi elementi potrà avvenire che debba applicarsi una legge facente parte dell'ordinamento interno, ovvero una legge di ordinamento straniero. Fissato in tale guisa il concetto di applicazione della legge nello spazio resta a determinarsi chi possa assolvere il compito di fissare i limiti di estensione di ogni legge. Ciò vale quanto risolvere la famosa questione a quale ordinamento - se interno o internazionale - appartenga il diritto internazionale privato. Orbene, data la coesistenza di più ordinamenti interni, è chiaro che la delimitazione di ognuno di essi rispetto all'altro non può essere che ufficio del diritto internazionale. È vero che il legislatore interno ha un'ampia libertà nel fissare i limiti spaziali delle proprie leggi rispetto alle straniere, ma questa libertà trova anzitutto il suo fondamento nel diritto internazionale, e in secondo luogo non è sconfinata, perché lo stesso diritto internazionale generale fissa alcuni limiti di massima che il legislatore interno non può sorpassare: un disconoscimento assoluto dell'applicazione del diritto straniero per qualsiasi rapporto sarebbe internazionalmente illecito. Oltre a queste norme di diritto internazionale generale, esistono poi altre norme di diritto internazionale che delimitano ancor più la libertà lasciata agli stati dalle prime stabilendo nei loro confronti i criterî di competenza legislativa cui dovranno attenersi per singole materie. Frequenti sono le convenzioni bilaterali: il risultato poi più importante di convenzioni generali è quello risultante dalle conferenze dell'Aia di diritto internazionale privato (1893, 1894, 1900, 1904, 1926 e 1928). Tutte queste norme fanno certamente parte dell'ordinamento giuridico internazionale e in questo senso il diritto internazionale privato è vero e proprio diritto internazionale e come tale non è né pubblico né privato, l'appellativo di "privato" servendo a indicare il contenuto della norma internazionale (dovere del legislatore interno di delimitare la sfera di applicazione delle proprie leggi in materia di diritto privato e di ammettere l'applicazione all'interno di leggi straniere).
Come si è detto poc'anzi il diritto internazionale ha lasciato però finora un ampio potere discrezionale agli stati di provvedere come essi credono alla delimitazione delle leggi nello spazio; ogni legislatore provvede quindi in modo autonomo a stabilire quale estensione debba darsi alle proprie leggi interne e quali delle leggi straniere si debbano applicare. Queste norme interne fanno parte del diritto interno e in questo secondo aspetto il diritto internazionale privato non è altro che diritto interno e si hanno tanti diritti internazionali privati quanti sono gli ordinamenti giuridici esistenti. Si distinguono perciò negli ordinamenti interni le norme che regolano sostanzialmente i rapporti sociali - norme materiali o sostanziali - dalle norme che stabiliscono l'ambito di estensione delle prime - norme formali (o spaziali, di applicazione, di conflitto) -. Le norme spaziali sono a loro volta di duplice natura; norme di applicazione (delimitazione) delle leggi interne ovvero norme di richiamo (di rinvio) delle leggi straniere. Il legislatore può adottare il criterio d'indicare, per una data materia, tanto la norma di applicazione quanto quella di richiamo, ma nel caso che il legislatore si limiti a indicare solo la norma di applicazione, s'intende adottata la corrispettiva norma di richiamo alla legge straniera rispetto cui si verifichi quello stesso presupposto spaziale ritenuto dal legislatore sufficiente a giustificare l'applicazione della legge nazionale. Si è molto discusso sulla natura delle norme spaziali o formali, se appartengano al diritto pubblico o al privato, ovvero all'uno o all'altro secondo la natura della norma sostanziale cui si riferiscono, o se si rivolgano solo al giudice: fu anche detto che le norme spaziali sono norme non autonome, la norma giuridica completa risultando dall'insieme della norma spaziale e della sostanziale. Certo si è che anche dalla norma formale nasce il diritto soggettivo nell'individuo a ottenere l'applicazione di quella legge dichiarata dal legislatore competente a regolare sostanzialmente il rapporto.
Dalla coesistenza di tanti diritti internazionali privati quanti sono gli ordinamenti giuridici può avvenire che a regolare quel medesimo rapporto si dichiarino contemporaneamente competenti ovvero incompetenti due stati a ragione di una divergente estensione assegnata al presupposto che legittima l'applicazione della norma sostanziale (maggiore o minore estensione del principio cosiddetto della territorialità o di quello della personalità); ovvero a ragione di una divergente valutazione del rapporto concreto (conflitto di qualificazione). Si è in presenza di un conflitto positivo quando due stati si dichiarino entrambi competenti a regolare un dato rapporto; nel caso inverso, si ha un conflitto negativo. Rappresenta questo punto la difficoltà più seria nella scienza del diritto internazionale privato. Il Savigny enunciò il principio secondo cui dalla natura del rapporto deve determinarsi la legge competente a regolarlo; secondo il Wächter invece ogni giudice deve unicamente prendere a base il proprio ordinamento per desumere da esso i criterî di applicazione delle leggi nello spazio. Dal quale principio (detto della lex fori) deriva che nel caso del conflitto positivo il giudice applicherà la propria legge sostanziale senza preoccuparsi della circostanza che un legislatore straniero avochi a sé la competenza a regolare lo stesso rapporto; nel caso di conflitto negativo il giudice dovrà applicare la legge straniera che il proprio legislatore vuole sia applicata. In questo caso la questione si complica però con il problema affine detto del "rinvio". I più notevoli contrasti nei vigenti sistemi di diritto internazionale privato si riscontrano particolarmente per lo stato delle persone e diritto di famiglia tra il criterio della cittadinanza e quello del domicilio, e per i rapporti patrimoniali (specialmente in materia di successione) tra il criterio della legge personale e l'altro della situazione dei beni (soprattutto per gl'immobili). Il sistema italiano di diritto internazionale privato s'impernia sui seguenti elementi fondamentali: legge di cittadinanza, per lo stato delle persone e diritto di famiglia e per le successioni; lex rei sitae, per i diritti reali; principio dell'autonomia della volontà completato da presunzioni, per i rapporti contrattuali; lex loci delicti commissi, per i delitti civili; locm regit actum, per la forma degli atti. Infine si ha riserva dell'"ordine pubblico" (internazionale), che impedisce l'applicazione all'interno di una legge che, in base alle norme di conflitto, sarebbe stata competente a regolare quel dato rapporto.
Per la storia del diritto italiano internazionale privato è necessario risalire almeno alla notissima teoria degli statuti per l'influenza che essa ha esercitato sullo svolgimento ulteriore. L'autonomia legislativa dei comuni italiani faceva sentire il bisogno di determinare quale fra i varî statuti dovesse per un dato rapporto ricevere applicazione: tutto un movimento giurisprudenziale e dottrinale sorse ben presto in Italia che, pur cercando di fondarsi su qualche passo dei testi romani, cercava la soluzione per i nuovi problemi. Fu detto che questo movimento peccava di eccessiva casistica e di soverchia analisi con cui si scomponevano fin gli elementi di uno stesso rapporto, ma forse questo difetto costituisce in un certo senso la vitalità di quel periodo ed è d'altra parte connaturato allo stesso diritto internazionale privato. Appartiene alla dottrina degli statutarî quella distinzione delle leggi, secondo l'oggetto cui si riferiscono, in statuti personali (leggi che riguardano le persone), statuti reali (leggi che contemplano i beni), statuti misti (leggi che partecipano dell'una e dell'altra natura). Dall'Italia - basta per essa ricordare i due maggiori: Baldo degli Ubaldi e Bartolo da Sassoferrato - la dottrina degli statuti passò e fiorì in Francia e in Olanda, modificandosi però in relazione alle diverse condizioni politico-giuridiche rispetto alle quali trovava applicazione. Si ricordi in Francia particolarmente il D'Argentré e il Molineo, e in Olanda Paolo Voet e Giovanni Voet (concezione. della comitas gentium) e Ulrico Huber. Nel sec. XIX assurgono in prima linea le nuove concezioni svolte nella dottrina germanica e in quella italiana; per la prima già si sono ricordati i nomi del Wächter e del Savigny e per la seconda va messa in luce l'influenza che il principio di nazionalità (scuola italiana che fa capo a P.S. Mancini) esercitò anche nei problemi di diritto internazionale privato.
Bibl.: Sulla storia del diritto internazionale privato si veda: A. Lainé, Introduction au droit international privé, Parigi 1888; E. Catellani, Il diritto internazionale privato e i suoi recenti progressi, Torino, I, 1895; II, 1902.
Sui caratteri dogmatici del diritto internazionale privato vedi: E. Zitelmann, Internationales Privatrecht, I, Lipsia 1897 (su di esso Betti, in Riv. di diritto internazionale, 1925); F. Kahn, Gesetzeskollisionen, in Jherings Jahrbücher, 1891; D. Anzilotti, Studi critici di diritto internazionale privato, Rocca S. Casciano 1898; id., Corso di diritto internazionale privato, Roma 1925; G. Diena, Diritto internaz. privato, II, Napoli 1917; id., La conception du droit international privé d'après la doctrine et la pratique en Italie, in Cours de l'Académie de droit international, 1928; P. Fiore, Diritto internaz. privato, Torino 1888; L. Olivi, Manuale di dir. internaz., Milano 1911; M. Marinoni, La natura giuridica del diritto internazionale privato, Roma 1914; G. Ottolenghi, Sulla funzione e l'efficacia delle norme interne di dir. internaz. privato, Torino 1913; P. Fedozzi, Cenni sull'interpr. delle leggi di dir. internaz. privato, negli Studi di diritto, ecc., in onore di V. Scialoia, Milano 1905, II; S. Romano, L'ordinamento giuridico, Pisa 1918; A. Cavaglieri, Lezioni di dir. int. priv., Napoli 1929; M. Udina, Droit intern. privé d'Italie, in Répertoire de droit intern., Parigi 1930; A. Pillet, in Journal du droit intern. privé, 1897; F. Despagnet, ibid., 1898; A. Pillet, Traité d. droit int. privé, Parigi 1923-24; Valery, Manuel de dr. int. privé, Parigi 1914.
Diritto penale internazionale. - Il diritto penale internazionale nel suo ampio significato è costituito dalle norme di diritto penale che interessano in qualunque modo un altro stato o altri stati: rientra, quindi, nel diritto interno internazionalmente rilevante, come il cosiddetto diritto internazionale privato, il diritto amministrativo internazionale, il diritto processuale civile e penale internazionale. Comunemente, però, si riserva tale qualifica alle disposizioni con le quali lo stato ha fissato in maniera autonoma i limiti della sua potestà punitiva di fronte agli altri stati: per es., gli articoli 3 segg. del cod. pen. italiano 1930. Qui alla dottrina è rimasto un largo campo di studio, non avendo gli altri stati mai proceduto - cosa, del resto, assai difficile e forse impossibile - alla delimitazione della rispettiva potestà punitiva mediante accordi internazionali. In proposito varie teorie sono state da lungo tempo proposte, e poiché quelle tradizionali sono state ritenute insufficienti, non è mancato chi ne ha costruito delle altre, ma con non troppa fortuna. Si tratta invero di risolvere un problema di grande importanza pratica, senza eccessiva preoccupazione che i principî derivanti dall'astratta speculazione siano salvi, e precisamente, d'indicare al legislatore norme penali che tutelino lo stato e i suoi beni, e nello stesso tempo non facciano sorgere con la loro applicazione in un altro stato alcuna pretesa fondata sul diritto internazionale.
Partendosi dal presupposto che i limiti della potestà punitiva dello stato coincidano con quelli entro i quali esso può in base al diritto internazionale esplicare la sua potestà in genere, la sua sovranità, si è affermato che lo stato debba nella sua legislazione attenersi al principio della territorialità della legge penale, minacciare cioè con pene i fatti commessi da cittadini o da stranieri entro il suo territorio, e solo questi fatti, ma in nessun modo possa vietare con minaccia di pena, e tanto meno punire, fatti avvenuti all'estero. Se tale dottrina fosse accolta nella legislazione di uno stato, tutti i delitti commessi dai suoi cittadini all'estero - si prescinde da quelli commessi dagli stranieri nello stato straniero - rimarrebbero impuniti qualora riuscisse loro di rifugiarsi in patria. E poi essa ha un fondamento erroneo, perché lo stato non è tenuto secondo il diritto internazionale a limitare la sua potestà punitiva ai fatti avvenuti nel suo territorio, tanto è vero che gli stati hanno sempre agito diversamente senza incontrare proteste da parte di altri stati. Sfugge a queste obiezioni il principio della personalità attiva della legge penale, per il quale lo stato può minacciare con pene anche i fatti commessi da cittadini che si trovino all'estero, e quindi ha sempre il diritto di punirli se i suoi comandi penali siano violati. Certamente, lo stato al quale l'individuo appartiene come cittadino non perde, in base al diritto intemazionale, il diritto di rivolgergli i suoi comandi penali per il fatto che anche lo stato di residenza è autorizzato dal diritto intemazionale a rivolgergli i suoi comandi penali; però, lo stato rimane senza tutela penale di fronte ai fatti che lo straniero commetta all'estero contro di lui o i suoi cittadini. Tale dottrina solo in parte colma le lacune della precedente.
Si è tratto in campo allora un altro principio, il principio della tutela giuridica, per il quale l'appartenenza del bene violato o minacciato allo stato o ai suoi sudditi fa sorgere di per sé il diritto di punire dello stato: quindi di nessuna importanza, per la determinazione dello stato autorizzato a esercitare il diritto di punire, sono il luogo del commesso delitto e la cittadinanza del suo autore. In altri termini, lo stato deve tutelare penalmente la totalità dei beni giuridici a esso appartenenti o appartenenti ai suoi cittadini, sia che questi beni si trovino nello stato, sia che si trovino in uno stato straniero, di fronte a chiunque, cittadino o straniero, abbia agito contro di essi, nello stato o nello stato straniero: ogni stato - si dice - è chiamato, a preferenza di ogni altro stato, ad accordare la più completa tutela giuridica penale al mondo dei suoi beni giuridici. Per altro, questa estensione della sfera d'impero delle leggi penali agli stranieri che si trovano nello stato straniero implica, nella sua applicazione, una violazione della sovranità dello stato straniero, e importa altresì la negazione di un fondamentale principio del diritto penale in quanto lo straniero verrebbe punito in base a una legge a lui sconosciuta, alla quale non era sottoposto. Si aggiunga che norme penali del genere suonano la più aperta sfiducia verso lo stato straniero, mentre corrisponde a una esigenza dei rapporti internazionali che ogni stato tuteli mediante comandi penali i beni giuridici di uno stato straniero, e dei sudditi dello stato straniero che si trovano nel suo territorio; ché se lo stato straniero non si conformasse ai doveri che il diritto internazionale gl'impone al riguardo, lo stato potrebbe tutelare i beni giuridici suoi e dei suoi cittadini ben più efficacemente che con i comandi penali, ricorrendo ai mezzi ammessi dal diritto internazionale. Ancora oltre va il principio del cosmopolitismo della legge penale, per il quale a ogni stato spetta un diritto di punire universale relativamente a tutti i delitti, dovunque e da chiunque commessi. Si affemma che i gravi delitti sono puniti in tutti gli stati civili, e in questi casi il diritto di punire non sorge per volontà dello stato, ma è trasferito a esso: gli stati sarebbero soltanto gli strumenti della giustizia assoluta, e i limiti di competenza statuale nel punirli avrebbero unicamente un carattere utilitario. Si deve però osservare che la generale applicazione delle leggi penali agli stranieri all'estero va contro il diritto internazionale, perché la legge penale è volontà dello stato, la quale non può illimitatamente obbligare i sudditi di altri stati che si trovino in patria: la dottrina è di pura marca naturalistica e come tale va respinta.
Il problema del diritto penale internazionale trovò nel codice 1889 una abbastanza soddisfacente soluzione la quale ha avuto un notevole perfezionamento nel codice penale 1930 (articoli 3 a 11). Dare il sistema di diritto penale internazionale quale risulta dal nuovo codice significa indicare alla dottrina la via che essa ormai deve battere.
La potestà normatrice degli stati in materia penale non è illimitata: l'ordine giuridico statale è territoriale, limitato cioè all'ambito del territorio dello stato, e quindi, lo stato che accolga il principio dell'assoluta territorialità della legge penale, ed esso solo, è dotato d'una legislazione conforme al diritto internazionale. Tutti gli stati affermano tale principio come limite normale della efficacia delle loro leggi penali, le quali, quando siano formulate senza riferimento a un determinato locus - commissi delicti, sono e debbono ritenersi territoriali. Dalla territorialità delle leggi penali deriva che in esse non si fa distinzione, in generale, fra cittadini e stranieri; anche i sudditi temporanei sono a esse soggetti, perché altrimenti l'ordine giuridico statale potrebbe essere messo continuamente in pericolo. Lo stato in tal guisa non fa che avvalersi della facoltà riconosciutagli dal diritto internazionale, il quale però esige che gli stranieri non siano posti di fronte alla legge penale in una condizione di sfavore rispetto ai cittadini dello stato in cui si trovano. E questo anche relativamente alla tutela penale. La particolare protezione di cui godono gli stati esteri, i loro capi e i loro rappresentanti non è, però, internazionalmente imposta; essa è data solo perché da una maggiore pena minacciata deriva per gl'individui una più forte coazione psicologica ad astenersi da fatti del genere che, per quanto non imputabili allo stato, possono far sorgere il pericolo di un turbamento dei rapporti internazionali. Nessuna difficoltà può sorgere quando l'azione che costituisce il reato abbia avuto integralmente esplicazione nel territorio dello stato, ove pure si sia verificato l'evento: lo stato straniero non può elevare in alcun modo la pretesa di avere esso il diritto di punire, pur avendo il diritto di pretendere che lo stato tenga una certa condotta se un suo cittadino sia stato l'autore o vittima del reato. Quando l'azione sia avvenuta in parte nel territorio dello stato e in parte nel territorio di un altro stato, e quando, pur essendo l'azione avvenuta in tutto nel territorio dello stato, l'evento si sia verificato nel territorio di un altro stato, o viceversa, sorge la questione se si debba aver riguardo al luogo in cui fu esplicata l'azione o al luogo in cui seguì l'evento. Mancando il coordinamento degli ordinamenti giuridici, è naturale che lo stato, a evitare che il colpevole rimanga impunito, preferisca attribuirsi il diritto di punire in ogni caso: l'opera criminosa, sia pure in parte, ha toccato il suo ordinamento giuridico. Una norma di tale portata non è in alcun modo contraria al diritto internazionale. Certo, però, lo stato potrà attuare il suo diritto di punire solo se il colpevole venga a trovarsi nel suo territorio. Se poi lo stato dal cui territorio provenne l'azione abbia già attuato il suo diritto di punire, è opportuno che sia computata la pena scontata all'estero.
Eccezionalmente la potestà punitiva dello stato va oltre il principio della territorialità, in quanto lo stato si avvalga dell'autorizzazione che gli dà il diritto internazionale di comprendere fra i destinatarî delle sue norme i cittadini che si trovano all'estero sempre che lo voglia, e gli strameri solo in determinati casi: rispetto ai cittadini, è naturale, tale diritto non sarà esercitato in tutta la sua estensione, affinché la legge penale non costituisca un legame che li accompagni dovunque si rechino ponendoli in difficoltà per eventuali contrasti con la legge territoriale. Fin dove giunga l'obbligo dei cittadini all'estero di osservare la legge penale nazionale è dallo stato fissato in maniera autonoma, perché essi continuano ad appartenergli; quindi, in caso di violazione della sua legge penale, lo stato esercita un diritto di punire riconosciuto come a lui spettante dal diritto internazionale, un diritto di punire proprio in ragione della qualifica giuridica soggettiva degl'individui che hanno commesso la violazione (cittadini). Invece, l'obbligo degli stranieri all'estero di osservare la legge dello stato è da questo fissato in base al diritto, che gli deriva in via generale dal diritto internazionale, di tutelare direttamente la sua esistenza, la sua costituzione, il suo onore; quindi, nel caso di violazione delle norme che lo stato ha emanato per la tutela di tali beni, esso esercita del pari un diritto di punire proprio, riconosciutogli dal diritto internazionale in ragione degli oggetti tutelati dalla norma penale (beni supremi dello stato). In particolare, si tratta dei delitti che dalla dottrina italiana furono non impropriamente compresi nella classe assai generica dei delitti contro la vita politica ed economica dello stato, i delitti cioè che hanno per oggetto lo stato stesso nella duplice qualità di soggetto del diritto internazionale e di soggetto del diritto interno, lo stato nel suo simbolo, lo stato nei suoi valori economici. Poiché lo stato non è internazionalmente vincolato nella scelta dei beni cui attribuisce la qualità di suoi beni supremi, mentre gli altri stati non sono internazionalmente obbligati a riconoscerli come tali avendo solo la generica obbligazione di tutelare penalmente i beni dei sudditi e i beni degli stati stranieri, esso è autorizzato dal diritto internazionale a munire della sua tutela penale tali beni, dovunque ne avvenga la violazione, e non solo in confronto ai cittadini - il che non può dar luogo a difficoltà - ma anche in confronto agli stranieri all'estero, i quali quindi sono destinatarî delle relative norme penali. Se poi lo stato si attribuisce anche il diritto di punire gli stranieri per i delitti che essi commettono all'estero nella qualità di suoi funzionarî abusando delle loro funzioni, nulla può eccepire lo stato straniero, perché esso avrebbe potuto vietare ai sudditi di assumere particolari doveri verso un altro stato.
Trattandosi di delitti di diversa specie, lo stato non ha interesse di occuparsene finché il colpevole, cittadino o straniero, rimanga all'estero ove ebbe a commetterli. Venendo nel suo territorio, subentra il suo diritto di punire, in quanto lo stato straniero con la fuga del colpevole è ormai nell'impossibilità di attuare il suo diritto. Qualora il colpevole sia cittadino, lo stato esercita il suo diritto di punire che non può essergli contestato in base al diritto internazionale, mentre in confronto allo straniero lo stato lo esercita senza che il diritto internazionale glielo vieti, se il danneggiato sia cittadino o a esso appartenga il bene giuridico violato: ma anche nel secondo caso fissa in maniera autonoma le condizioni a cui ne subordina l'esercizio. È sempre però opportuno che sia computata la pena eventualmente scontata dal colpevole all'estero. In tutti i casi in cui lo stato si è attribuito un diritto di punire proprio, relativamente a fatti commessi in territorio estero da cittadini o da stranieri, è del pari opportuno che, se il cittadino o lo straniero sia stato giudicato all'estero, il giudizio sia rinnovato nello stato solo qualora il ministro della Giustizia ne faccia richiesta: il che avverrà quando il giudizio seguito all'estero non sia stato informato a serena giustizia. Quindi, in sostanza, le disposizioni di diritto penale internazionale entrano in funzione a seconda del grado di tutela che gli altri stati offrono allo stato e ai suoi beni, intendendo fra questi i suoi cittadini.
Bibl.: K. Binding, Handbuch des Strafrechts, I, Lipsia 1885, p. 370 segg.; F. v. Martitz, Internationale Rechtshilfe in Strafsachen, I, Lipsia 1888, p. 425 segg.; L. v. Bar, Gestz und Schuld im Strafrecht, I, Berlino 1906, p. 99 segg.; F. Meili, Lehrbuch des Internationalen Strafrechts und Straftprozessrechts, Zurigo 1910; J. Kohler, Internationales Strafrecht, Stoccarda 1917; Manzini, Trattato di diritto penale italiano, 2ª ed., I, Torino 1926, p. 117 segg., 290 segg.; M. d'Amelio, in Rivista di diritto pubblico, s. 2ª, XVII (1925), I, p. 351 segg.; A. Baldassarri, in Rivista di diritto internazionale, s. 3ª, VII (1928), p. 293 sgg.