diritto romano in Dante
Tra le tesi opposte, entrambe esagerate, di chi vede in D. un giurista e di chi lo fa ignaro affatto delle fonti giuridiche - naturalmente per cognizione diretta, ché, come si sa, citazioni derivazioni e tracce del d.r. sono un po' in tutte le sue opere -, si è profilata una soluzione, alla quale più o meno aderisce pure il Barbi (L'ideale politico-religioso di D., in Problemi fondamentali per un nuovo commento della D.C., Firenze 1956, 53), secondo la quale D. ebbe di certo una conoscenza delle parti fondamentali del Corpus iuris civilis, e fors'anche della letteratura giuridica del tempo, senza peraltro essere un giurista, anzi senza averne neppure la ‛ forma mentis '.
Prescindendo anche dai dati biografici, perché non pacifici e vivamente controversi, che fanno del padre un notaio e che fanno D. a Bologna, il centro più fiorente di studi legali, negli anni giovanili e in quelli dell'esilio, sarebbe assurdo pensare che egli sia rimasto del tutto estraneo a quel grandioso fenomeno culturale spirituale e politico costituito dalla fioritura di studi romanistici che prende l'avvio dall'insegnamento di Irnerio nella scuola di Bologna. Per di più il d. r. era il sostegno stesso, ideale politico e giuridico, dell'Impero universale.
La cultura dei primi secoli della nostra letteratura, com'è noto, è generalmente giuridica: poeti e scrittori dei maggiori provengono da studi e professioni giuridiche; basti ricordare solo alcuni nomi, tra i quali s'incontrano amici e il ‛ maestro ' di D.: Bonagiunta degli Orbicciani, Guido Guinizzelli, Lapo Gianni, Iacopone da Todi, Cino da Pistoia, Brunetto Latini.
In un simile ambiente culturale, dove l'insegnamento giuridico domina e influenza la teologia (cfr. J.-M. Aubert, Le droit romain dans l'oeuvre de S. Thomas, Parigi 1955) e il pensiero politico, è naturale che D. si desse, anche per la sua passione politica, una certa preparazione giuridica, risalendo ai testi del d. r., che del resto erano venerandi e autorevoli al pari della Bibbia. Il d. r. è considerato diritto naturale da Dio stesso ispirato, ed è detto, come pare già nel cuore del decimoterzo secolo, ratio scripta, ossia la ‛ ragione ' come espressione di umana perfezione di convivenza, dichiarata e formulata nei testi giustinianei. E l'imperatore Giustiniano, cui si doveva la codificazione delle leggi e del d. r., era riguardato come persona sacra: e di esso sarebbero i naturali legittimi prosecutori gl'imperatori germanici del Sacro Romano Impero.
D. peraltro tratta con predilezione temi specificamente di pensiero giuridico, che potrebbero essere anche frutto di deduzione razionale e meramente speculativa; ma senza cognizione della materia positiva giuridica è impensabile che egli pervenisse a risultati di sorprendente concretezza: i temi del diritto delle leggi della giustizia dell'equità; dello stato e degli ordinamenti giuridici; della proprietà della nobiltà sono affrontati come da chi ha perfetta coscienza delle questioni più vive e in vario senso agitate da pensatori e da giuristi. Per non dire del trattato politico nel suo complesso dov'è pur sostenibile ed evidente che il metodo sia teologico, ma la materia è giuridico-politica: il pensiero politico del resto, com'è noto, non è ancora autonomo e anzi s'identifica per molti aspetti con quello giuridico.
Parrebbe anzi che D., in limine al trattato, voglia entrare in sfida polemica proprio con quei giuristi presuntuosi e intenti al lucro, quando pure non verbosi e vuoti (critica tutt'altro che ingiusta per i legisti dei suoi tempi), affermando utilissima la notitia della ‛ temporalis Monarchia ', ma non rivolta inmediate ad lucrum (Mn I I 5). Tutto il proemio in cui pone come dovere quello d'insegnare, sì da mostrare che quanto ha appreso abbia a fruttare per gli altri, è in antitesi con quanto è detto altrove (Cv III XI 10) dei giuristi, che dovrebbero usare l'intelletto, che è loro dato da Dio, a pro degli uomini e non per loro guadagno.
Lo stesso ordinamento morale dell'Inferno, se non può dirsi derivi o s'ispiri al d. r., come troppo spesso affermato, rivela d'altro canto nel suo complesso - senza quindi poter fare questo o quel riscontro - una informazione pur generica del diritto e del d. r. in particolare. Ma il tutto, giova insistere, genericamente e molto vagamente: ché anche la più accomodante opinione, di vedere la corrispondenza della somma ripartizione dei peccati e delle pene con i tria praecepta iuris: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere, altro non ha dalla sua che la smania di trovare a tutti i costi fonti al poema.
Si afferma però da più parti e ripetutamente, anche dai più autorevoli dantisti, che il concetto d'ingiuria corrisponderebbe esattamente a quello delle fonti del d.r., mentre sarebbe più congruo dire che è quello generico espresso dal termine latino corrispondente.
Pur quando si riconosce che l'enunciazione dei celebri versi è ‛ traduzione ' da Cicerone, come segnalato la prima volta dal Moore (If XI 22 D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista, / ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale / o con forza o con frode altrui contrista. / Ma perché frode è de l'uom proprio male, / più spiace a Dio: Cic. Off. I XIII 41 " Cum autem duobus modis, id est aut vi aut fraude, fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur; utrumque homine alienissimum, sed fraus odio digna maiore "), non si esita ad affermare (dal Nardi, Il canto XI dell'Inferno, Roma 1955, 9) che la nozione di ‛ iniuria ' sarebbe derivata da Inst. 4, 4, 2 e ivi stesso, in nota marginale, avrebbe attinto D. la citazione del luogo ciceroniano.
Ora ognun sa che le note filologiche e di richiamo alle fonti letterarie nelle più tarde edizioni a stampa del Corpus iuris civilis glossato sono opera di umanisti. Iniuria d'altro canto ha nelle fonti giuridiche il significato generico e letterale " quod non iure fit ", ma poi si articola in tre significati collegati e in uno più specifico; e cioè: ingiustizia, colpa, danno, e contumelia - e il giurista si sofferma a dare queste note lessicali: Dig. 47, 10, 1 pr.: Inst. 4, 2 pr. - 1 -. È chiaro che nel contesto dantesco vale piuttosto " danno ", s'intende, arrecato ingiustamente, dell'ingiustizia mantenendo il termine pregnanza di significato. In conseguenza ‛ malizia ' non può aver altro significato che mala disposizione - quasi difetto, come la malizia del corpo: cfr. Cv IV XV 17 -, prava inclinazione dell'animo a mal fare, a nuocere altrui, cioè ad arrecare ingiuria: mala disposizione che non è identificabile con il dolo dei penalisti moderni, integrandosi per questi il dolo nella sola volontà dell'evento o anche della condotta.
Nel v. 82 invece malizia è sempre, si capisce, prava inclinazione, ma nella sua significazione assoluta e antonomastica, e contiene e compendia in sé anche l'iniuria, ossia il danno: è perciò malizia nel senso d'inganno e di frode, tale cioè che include tanto la condotta quanto il risultato, ché non si può ingannare senza l'effetto stesso dell'azione.
Ma non solo spunti generici e derivazioni d'indole generale s'incontrano nelle opere di D..; vi sono anche citazioni precise, o derivazioni particolari ben riconoscibili e identificabili. Ci limitiamo in questa scorsa a quelle più evidenti e più sicure.
Una citazione è già nell'opera giovanile: Vn XIII 4 lo nome d'amore è si dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: " Nomina sunt consequentia rerum ". La massima, già croce e tormento dei commentatori alla ricerca della fonte, fu dal Nardi additata provenire dalle Institutiones giustinianee e da altri numerosi luoghi della Glossa che l'estese e l'applicò a vari casi.
Appunto il legislatore bizantino, volendo che i nomi congruissero con le cose, cioè con gl'istituti giuridici (Inst. 2, 7, 3 " consequentia nomina rebus studentes "), impose che le " donationes ante nuptias ", dal momento che potevano essere accresciute .durante il matrimonio, si chiamassero " donationes propter nuptias ": con che il termine non contraddiceva più alla sostanza dell'istituzione.
Il Nardi non si dissimulava la diversità verbale - " consequentia rebus ": consequentia rerum - e non escludeva che la riformulazione della massima fosse intervenuta prima di D. senza escludere che questi stesso ne avesse fatto un adattamento. D'altronde, notava lo studioso, il modo con cui è introdotta la citazione, sì come è scritto, non può che rimandare a un testo solenne come la Bibbia o come il Corpus iuris civilis (B. Nardi, Nomina sunt consequentia rerum, in " Giorn. stor. " XCIII [1929] 101-105; poi in D. e la cultura medievale, Bari 19492, 218-225).
Successivamente il Fiorelli (Nomina sunt consequentia rerum, in Atti del congresso internazionale di d.r. e di storia del diritto, I, Milano 1948, 308-321) faceva rilevare come nella fonte delle Istituzioni e nelle altre citazioni addotte dal Nardi manchi la generalità dell'enunciazione che è propria del testo della Vita Nuova, e con minuta indagine adunava numerosi luoghi giuridici, specie di Marino da Caramanico, in cui la massima ha già una portata meno limitata seppur non di valore universale come nel luogo dantesco.
Con acume e dottrina di gran linguista il Pagliaro (Nomina sunt consequentia rerum, appendice a La dottrina linguistica di D., in Nuovi saggi di critica semantica, Messina-Firenze [1956] 239-246) fa rilevare che un divario rimane sempre tra le fonti giuridiche addotte e la citazione dantesca, in quanto i giuristi si affisano al nome come significato: " Dante invece guarda al significante e afferma che esso, come tale, cioè come struttura fonica, subisce l'influenza della cosa, cui il nome (cioè il segno come nesso di significante e di significato) si applica ". Insomma, si può aggiungere, nel poeta la parola si sublima in un valore emotivo-sentimentale che trascende, a mo' di alone, il semplice termine: tal che, in qualche modo, è come il rovescio dell'altra massima, non meno fortunata, nomina sunt omina, e che ha una ‛ applicazione ' già in Sofocle (Aiax 430-431 " αἰαῖ τίς ἄν ποτ᾽ᾧεθ᾽ὧδ᾽ἐπώνυμον / τοὐμὸν ξυνοίσειεν ὄνομα τοῖς ἐμοῖς χαχοῖς;).
Ovviamente, le citazioni sono più frequenti - come più condicevoli - nelle due opere dottrinarie: il Convivio e la Monarchia. In limine al Convivio si ha un richiamo alle " res communes omnium ": Cv I VIII 4 onde vedemo li ponitori de le leggi massimamente pur a li più comuni beni tener confissi li occhi, quelle componendo: cfr. Inst. 2, 1, 1 " Et quidem naturali iure communia sunt omnia haec: aer et aqua profluens ". (Naturalmente si tratta non di attenzione dei legislatori, ma di distinzione delle res fatta dalla dottrina; dato però che le opere giurisprudenziali confluirono nella legislazione giustinianea, ben può parlare di ‛ ponitori delle leggi ').
Precisa è la citazione in Cv I X 3 Però si mosse la Ragione a comandare che l'uomo avesse diligente riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che " ne lo statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che partire ne faccia da quello che lungamente è usato ": Dig. 1, 4, 2 " In rebus novis constituendis evidens esse utilitas debet ut recedatur ab eo iure quod diu aequm visum est ".
Il luogo del Digesto e delle Istituzioni in cui è contenuto l'enunciato sulla legge regia (v. E. Cortese, La norma giuridica, spunti teorici nel diritto comune classico, II, Milano 1964, 169-239), che per tutto il Medioevo costituisce la base delle varie discussioni e dottrine sull'origine e il fondamento del potere dell'imperatore, e in genere di chi è chiamato a governare, è citato con aderenza letterale, salvo a togliervisi come non corrispondente al pensiero dell'autore proprio quella parte in cui era affermata la delega del potere dal popolo romano al principe: Cv IV IV 7 E così chi a questo officio è posto è chiamato Imperadore, però che di tutti li comandamenti elli è comandatore, e quello che esso dice a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito e ogni altro comandamento da quello di costui prendere vigore e autoritade: Inst. 1, 2, 6 " Sed et quod principi placuit, legis habet vigorem, cum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem concessit quodcumque igitur imperator per epistulam constituit vel cognoscens decrevit vel edicto praecepit, legem esse constat " (= Dig. 1, 4, 1 pr.).
Le azioni umane, che dipendono dal discernimento dell'uomo e son quindi suscettibili di valutazione morale (di contro alle azioni naturali e ai principi di valore oggettivo come per es. il sillogismo), devono essere indirizzate all'equità e si deve rifuggire in esse dall'iniquità; dall'equità però si è sviati o per non conoscerla o per non volerla seguire. Perciò (Cv IV IX 8) trovata fu la Ragione scritta, e per mostrarla e per comandarla ... e però è scritto nel principio del Vecchio Digesto: " La ragione scritta è arte di bene e d'equitade ". A questa scrivere, mostrare e comandare, è questo officiale posto di cui si parla, cioè lo Imperadore: Dig. 1, 1, 1 pr. " Iuri operam daturum prius nosse oportet unde nomen iuris descendat. Est autem a iustitia appellatum: nam ut eleganter Celsus definit: Ius est ars boni et aequi ". Questa nozione meramente formale, che attiene appunto all'opera intellettuale del giurista (l'imperatore la fa propria recependola nella compilazione dei Digesta, ma. è definizione teorica dovuta a uno dei più grandi giuristi dell'epoca adrianea; però lo stesso imperatore, per opera dei suoi collaboratori, definisce la " iurisprudentia iusti atque iniusti scientia ": Inst. 1, 1, 1), con più maturo pensiero viene poi da D. criticata e corretta, come quella che lascia fuori l'essenza obiettiva del diritto, in Mn II V 1 illa Digestorum descriptio non dicit quod quid est iuris, sed describit illud per notitiam utendi illo: dà cioè solo la nozione di usarne, sia pure da parte dei sacerdotes (come anche si autoappellano i giuristi), con riguardo all'intento morale da far valere nel separare l'equità dall'iniquità, ma lascia in asso proprio in ciò che costituisce il valore e il modo di operare tra gli uomini. Perciò, premesso che quicunque praeterea bonum rei publicae intendit, finem iuris intendit, continua: Quodque ita sequatur sic ostenditur: ius est realis et personalis hominis ad hominem proportio, quae servata hominum servat sotietatem, et corrupta corrumpit.
La celeberrima definizione, ritenuta dal Fassò (Storia della filosofia del diritto, I, Bologna 1966, 276) la più felice e profonda che sia stata data, adottata tout court dal Miraglia, e dal Del Vecchio (La giustizia, Roma 19596, 2) elogiata come quella che pone in evidenza l'intersubiettività propria anche della giustizia, trova riscontro in vaghi spunti nella Summa theologica e meno vaghi, ma pur sempre frammentari, nel grande capolavoro della letteratura giuridica medievale, Quaestiones de iuris subtilitatibus, attribuito a Irnerio dal Fitting e che ebbe tanta diffusione anche in Toscana, per cui si argomenta possa essere stato conosciuto da Dante.
Questi i testi delle Quaestiones che possono addursi e che sono stati già indicati (Chiappelli, D. in rapporto alle fonti del diritto, ecc., in " Arch. storico italiano " s. 5, t. XLI [1908] 25 ss.): Quaest. VI 3 " aequitas qua continetur aequabilitas et pro dignitate cuiusque congrua rerum quas ad usum hominum natura prodidit inter omnes distributio ".
Quaest. exordium 4 " ut salvo singulis suo merito servetur incorrupta societas hominum cunctorumque perseveret illibata communitas ".
Quaest. II 4 " hoc dicitur ius respectu aequitatis, non quia insit, set quia pro officio statuentis inesse debuit, nec dici potest aliam esse nominis eiusdem significantiam, set magis eandem set inproprie acceptam ".
In Cv IV XI D. svolge in sintesi una compiuta teoria dell'acquisto della ricchezza che ricalca da vicino quella dei giuristi sui modi di acquisto della proprietà, riveduta epperò ripensata in base a valutazioni morali. Il fondo è desunto dal Corpus iuris civilis, e si potrebbe senz'altro affermare dalle Institutiones, se non fosse che vi sono nominati i caduci, cioè i caduca - beni ereditari non potuti acquistare dai formali destinatari e che perciò si devolvono ad altri soggetti - che non sono mai nominati nell'operetta didattica elementare. Perciò, oltre che delle Institutiones, deve essersi avvalso del Digesto e del Codice: § 7 Che se si considerano li modi per li quali esse [ricchezze] vegnono, tutti si possono in tre maniere ricogliere: ché o vegnono da pura fortuna, si come quando santa intenzione o speranza vegnono per invenzione alcuna non pensata: Inst. 2, 1, 39 " Thesauros, quos quis in suo loco invenerit, divus Adrianus, naturalem aequitatem ei concessit... et si quis in alieno loco non dat ad hoc opera, sed fortuitu invenerit "; o vegnono da fortuna che è da ragione aiutata, sì come per testamenti o per mutua successione: cioè per successione ereditaria testamentaria o legittima che in quanto tale è reciproca tra i successibili (è difficile pensare che si alluda ai patti successorii reciproci); o vegnono da fortuna aiutatrice di ragione, sì come quando per licito o per illicito procaccio: licito dico, quando è per arte o per mercatantia o per servigio meritante (si allude ai modi di acquisto: o per compravendita - mercatantia - o per locazione della propria opera, onde ne viene la merces al prestatore d'opera): Inst. 2, 1, 40; illicito dico, quando è per furto o per rapina; Inst. 4, 1, 1 " furtum "; Inst. 5, 2 " vi bonorum raptorum ".
È molto elegante aver incentrato tutta la formulazione sulla fortuna: pura (ma anche in questo caso occorre sia secondata da ragione), che è aiutata dal diritto, che aiuta il diritto; però per furto o per rapina, lungi dall'acquistarsi alcunché, si contrae l'obbligazione di restituire e di riparare al derubato. S'intende che D. non aveva nessuna necessità di scrivere per i giuristi e da giurista, e osservava come purtroppo arricchimenti per ruberia esistano; quello che però stona è l'aver dato al discorso un'andatura di chi enuncia cose pacifiche e nozioni positive, proprio a imitazione delle teorie e distinzioni dei giuristi.
In Cv IV XI 8 dà dell'inventio, titolo d'acquisto originario della proprietà - e per D. per pura fortuna -, di contro al modo d'acquisto derivativo per compravendita, un esempio, frutto di personale esperienza: io vidi lo luogo, ne le coste d'un monte che si chiama Falterona, in Toscana, dove lo più vile villano di tutta la contrada, zappando, più d'uno staio di santalene d'argento finissimo vi trovò.
Ben si nota in tutta la ‛ teoria ' l'intento polemico di mostrare come le ricchezze non possano recare nobiltà, che anzi accendono vieppiù l'umana cupidigia che non permette regnino giustizia ed equità, e quindi la pace e la felicità terrena: § 9 E dico che più volte a li malvagi che a li buoni pervegnono li retaggi, legati e caduci. Qui la precisione del linguaggio giuridico è tale che vi compare un termine in sé peregrino ed equivoco, caduca; ciò che conferma un certo addottrinamento e ambizione giuridica dell'autore. Proprio perché le ricchezze non danno nobiltà e per di più spesso sono acquistate dai malvagi e indegni, e perché con esse più si accendono le voglie umane, fu necessario il diritto, anzi la ragione scritta, evidentemente non essendo sufficiente quella_ naturale propria dell'umano discernimento: XII 9 E che altro intende di meditare [forse da mutare in moderare, come può indursi da IV XVII 4 e 6; è chiaro comunque che il termine traduce mederi o piuttosto moderari: cfr. Plin. Pan. XXIV, 4, " illae [leges] cupiditates nostras libidinesque moderantur "] l'una e l'altra Ragione, Canonica dico e Civile, tanto quanto a riparare a la cupiditade che, raunando ricchezze, cresce? Certo assai lo manifesta e l'una e l'altra Ragione, se li loro cominciamenti, dico de la loro scrittura, si leggono.
Ragione è il diritto, e per antonomasia è il d. r. che è detto ratio scripta, e ragione è anche per riflesso il diritto canonico, sorto in parallelo e in osmosi col d. r.: e qui ragione s'identifica senz'altro con i due corpora: Corpus iuris civilis e Corpus iuris canonici, i due monumenti del diritto per eccellenza. La riduzione e identificazione di ragione con i due complessi sistematici di norme è evidente dalla precisazione: cominciamenti de la scrittura, dove scrittura può avere anche una pregnanza di significato di cosa solenne al pari della Sacra Scrittura.
Circa la sostanza si vuol dire che ad apertura dei due sacri testi legislativi, proprio in limine, si scorgono i valori e gl'intendimenti del diritto; cioè sol che si voglia considerare la definizione in essi contenuta di ius, di legge, di giustizia, chiaro s'intende che essi vogliono contenere e moderare la smodata cupidigia umana nell'accumulare ricchezze: ciò che non potrebbe avvenire senza altrui danno e senza quindi turbamento della " proportio hominis ad hominem ".
Volendo precisare, è probabile si alluda specificamente alle parole: Dig. 1, 1, 10 pr. " Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi " (= Inst. 1, 1 pr.) e § 1 " Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere "; Decretum Gratiani (prima parte del Corpus iuris canonici), pars I, distinctio I " Humanum genus duobus regitur, naturali videlicet iure, et moribus. Ius naturale est, quod in lege et Evangelio continetur, quo quisque iubetur alii facere quod sibi vult fieri, prohibetur alii inferre quod sibi nolit fieri ".
Ma il riferimento è generico e potrà risultare arbitraria ogni identificazione a frasi e precetti specifici.
In Cv IV XII 11 si dà uno strano caso di citazione, là dove D. attribuisce a Seneca un detto che non è stato possibile identificare: Seneca dice: " Se uno de li piedi avesse nel sepulcro, apprendere vorrei ", mentre qualcosa di molto simile alla massima si legge nel Digesto: 40, 5, 20 " nam ego discendi cupiditate, quam solam vivendi rationem optimam in octavum et septuagesimum annum aetatis duxi, memor sum eius sententiae, qui dixisse fertur: χἂν τὸν ἕτερον πόδα ἐν τῆ σορῷ, ἔχω προσμαθεῖν τι βουλοίμην " (dove quell'eius... qui dixisse è a sua volta ignoto, ma secondo un suggerimento dello Haupt può avere un riscontro in Luciano Hermotimus 78 "χἂι τὸν ἕτερον πόδα, φασίν, ἐν τῆ σορῷ ἔχων ", che sembra alludere a un detto corrente e magari popolare). Non è difficile immaginare come la massima, comunque trasmessa e conosciuta al tempo di D., potesse essere attribuita al filosofo più sentenzioso, senza con ciò escludere un errore di memoria della fonte quando il poeta la riportava. Ma il veicolo di diffusione dovrà essere stato proprio il luogo del Digesto, ancorché sia difficile provare che D. l'abbia attinta direttamente da esso.
Precisa e anzi letterale è la citazione di una legge (ossia frammento) dell'Infortiatum in IV XV 17 E secondo malizia, o vero difetto di corpo, può essere la mente non sana: quando per difetto d'alcuno principio da la nativitade, sì come [ne'] mentecatti; quando per l'alterazione del cerebro, sì come sono frenetici. E di questa infertade de la mente intende la legge, quando lo Inforzato dice: " In colui che fa testamento, di quel tempo nel quale lo testamento fa, sanitade di mente, non di corpo, è a domandare ": Dig. 28, 1, 2 " In eo qui testatur eius temporis, quo testamentum facit; integritas mentis, non corporis sanitas exigenda est ". Dalla Glossa è tolta una citazione in Cv IV XIX 4 E quivi si vuole sapere che, sì come scritto è in Ragione [qui evidentemente il Corpus iuris civilis] e per regola di Ragione [diritto, genericamente] si tiene, in quelle cose che per sé sono manifeste, non è mestiere di pruova, che ritorna più liberamente parafrasata e sfigurata in Mn III XIV 7. Si veda infatti gl. Evidentissime ad Dig. 2, 8, 5, 1 " Quae manifesta sunt, idest notoria, probatione non indigent "; gl. Demostratae ad Dig. 33, 4, 1, 8 " Manifesta non indigent demonstratione vel probatione ".
È pure una massima giuridica, liberamente parafrasata, quella di Cv IV XXIV 1 ché nullo puote dare se non quello ch'elli ha = .Mn III XIII 6 Nichil est quod dare possit quod non habet: Dig. 50, 16, 54 " Nemo plus iuris ad alium transferre potest, quam ipse haberet " (naturalmente non si esclude che sia motto di semplice buonsenso, ma l'essere stato detto con tono sentenzioso-precettivo induce a ritenere sia stato desunto dalle fonti giuridiche).
Più precise e a volte testuali sono una serie di citazioni: Cv IV XXIV 2 Per che la ragione vuole che dinanzi a quella etade l'uomo non possa certe cose fare sanza curatore di perfetta etade: Inst. 1, 23 pr. " Masculi puberes et feminae viripotentes usque ad vicesimum quintum annum completum curatores accipiunt; qui licet puberes sint, adhuc tamen huius aetatis sunt, ut negotia sua tueri non possunt "; § 15 E però dice e comanda la Legge [non genericamente come quando dice la ragione, ma lo specifico precetto contenuto nel frammento del Digesto] che a ciò provede, che la persona del padre sempre santa e onesta dee apparere a li suoi figli: Dig. 37, 15, 9 " Liberto et filio semper honesta et sancta persona patris et patroni videri debet ".
Quindi in Cv IV XXIV 17 E se non è in vita lo padre riducere si dee a quelli che per lo padre è ne l'ultima volontade in padre lasciato; e se lo padre muore intestato, riducere si dee a colui cui la Ragione commette lo suo governo, D. designa sommariamente, ma con preciso linguaggio tecnico, il testamento: che è appunto definito nelle fonti giuridiche atto di ultima volontà, e la mancanza di esso è, come nelle fonti giuridiche, indicata con intestato; nonché l'istituto della tutela testamentaria (Dig. 26, 2) e della tutela legittima, quale discende dal diritto in mancanza di testamento: Dig. 26, 4; Inst. 1, 15. 17; Cod. 5, 30.
Un cenno è fatto anche alla longa consuetudo: Cv IV XXVI 14 sì come era di loro lunga usanza, ch'era loro legge: Dig. 1, 3, 2, 1 " Inveterata consuetudo pro lege non immerito custoditur "; Dig. 1, 3, 33 " Diuturna consuetudo pro iure et lege in his quae non ex scripto descendunt observari solet "; Dig. 1, 3, 35 " Sed et ea, quae longa consuetudine comprobata sunt etc. ".
Per la materia trattatavi, la Monarchia è l'opera più contesta di elementi e di massime giuridiche attinte e desunte dalle fonti e dalla letteratura giuridica del tempo. Si è però sostenuto che essa è opera di speculazione e deduzione razionale teologica; il che nessuno vorrà negare: ma è bene non confondere il metodo, indubbiamente scolastico-teologico, con il contenuto: che è, anche nell'intento, giuridico-politico. Anzi D. è tanto atteso agli aspetti giuridici che non rifugge dalle sottigliezze più tipiche dei giuristi, specie quando si studia di dare fondamento giuridico, l'esse de iure, all'Impero romano (cfr. ad es. Mn II III 16-18). Le massime giuridiche non sono più - altro che di rado - citazioni come nel Convivio, ma fan tutt'uno col tessuto del discorso e dell'argomentare, come fosse ormai lui a dettarle, e ciò pure quando calca da vicino precise enunciazioni giuridiche delle fonti. Il riscontro perciò delle fonti diviene aleatorio: è sempre possibile stabilire - come con grande industria ed erudizione s'è fatto dal Chiappelli - la derivazione, a patto però che la si prenda quale remoto spunto.
Per mostrare come pure le più evidenti derivazioni abbiano subito una libera rielaborazione, facciamo seguire qualche esempio:
Mn I X 1 ubicumque potest esse litigium, ibi debet esse iudicium: Dig. 50, 17, 105 " ubicumque causae cognitio est ibi praetor desideratur ". Per la distanza evidente dei due dettati, si potrebbe ben sostenere che la massima di D. è di buon senso: ma il tono aforistico sentenzioso tradisce proprio, se non altro, l'affettazione di scrivere giuridicamente e in aderenza a principi giuridici.
I XI 7 cum iustitia sit virtus ad alterum, sine potentia tribuendi cuique quod suum est: Dig. 1, 1, 10 pr. " Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi " = Inst. 1, 1 pr. Brunetto Latini risolveva il testo romano nei termini (Retorica, ediz. Maggini, 15): " intendo ragione cioè giustizia, della quale dicono i libri della legge [libri legales o Corpus iuris civilis] che giustizia è perpetua e ferma volontade d'animo che dae a ciascuno sua ragione "; e può essere che D. ne abbia risentita qualche suggestione (E. Garin, La giustizia, Napoli 1968, 9 ss.). Ma, chi bene osservi, la nozione del ‛ maestro ' segue pedestremente il dettato originale, quella di D. - assai più lontana dalla lettera - è nello spirito molto più vicina alla massima latina, e nello stesso tempo personalissima.
Una particolare reminiscenza giuridica è stata scorta dal Nardi (Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 408-414) e riguarda la revoca della donazione per indegnità del donatario: secondo il sagace indagatore della cultura di D., le parole Redeunt unde venerunt (Mn II X 3) hanno pienamente senso se poste in relazione all'istituto giuridico anzidetto, di cui si tratta nel passo immediatamente precedente a quello che contiene la massima: nomina consequentia rebus: Inst. 2, 7, 2 (cfr. anche Cod. 8, 55 [56], 10).
Si è anche fatto notare che curator orbis come designazione dell'imperatore è squisitamente appropriato giuridicamente; e si è mostrato un accostamento col dominio eminente delle fonti, quello spettante all'imperatore sui beni della Chiesa, di cui destinatari sarebbero i poveri. Si è persino creduto di ravvisare in Mn III X 17 Poterat et vicarius Dei recipere non tamquam possessor, sed tamquam fructuum pro Ecclesia pro Cristi pauperibus dispensator la designazione tecnica dell'esecutore testamentario, detto talora appunto dispensator (F. Ercole, Il pensiero politico di D., II, p. 34). È bene rilevare però che dispensator è termine largamente usato nel Corpus iuris canonici esattamente nel senso desiderato da D. (l'usa del resto nello stesso significato Giovanni da Parigi), e che già comunque nel Cod. 1, 3, 32 (33), 4 compare dispensator pauperum, equivalente a oeconomus ecclesiae: sì che è più logico concludere che è proprio questo significato che si è sovrapposto a designare anche l'esecutore testamentario.
Ove proprio si desiderasse un qualche riscontro anche dalla Glossa, si può addurre Auth. coll. II, tit. I, cap. 7 gl. Pauperum: " Pauperum idest ex rebus ipsis ecclesiae et non res ecclesiarum pauperum esse ".
Per quanto attiene alle concezioni generali, è noto come l'Impero sia una realtà di fatto per i giuristi, realtà che viene postulata e ribadita occasionalmente a vario proposito. È sufficiente ricordare delle Quaestiones de iuris subtilitatibus II 16, la celebre frase: " Horum igitur alterum concedi necesse est: aut unum esse ius cum unum sit imperium ". L'origine divina dell'imperium è più volte affermata nella Glossa, Auth. coll. VI tit. III (Nov. 77 proem.) alle parole " Quia igitur imperium propterea Deus de coelo constituit " del testo giustinianeo, la gl. De coelo: " Immo populus Romanus de terra... sed Deus constituit permittendo, et populus Dei dispositione. Vel dic: Deus constituit authoritate, populus ministerio ".
Nel succedersi di glosse apposte a Auth. coll. I, tit. VI Quomodo oporteat, ecc., si stabiliscono i rapporti tra le due somme potestà, l'imperium e il sacerdotium, che si risolvono nella loro interindipendenza - soror e non mater imperii l'ecclesia - con la reverenza dell'imperatore al papa, " ratione dignitatis ":
gl. Maxima: " Vere est maxima qua ex his duobus totus regitur mundus unde illud: Ecce gladii duo hic... Alii dicunt quod duo testamenta significant ".
gl. Imperium: " Immo populi Romanorum videtur esse imperium... et illud Dei dispositione factum fuit, sine quo factum est nihil ".
gl. Utraque: " Utraque scilicet dona et sacerdotium et imperium. Cur ergo mater imperii dicitur ecclesia... cum magis soror sit, ut hic? Respondeo illud dicitur ratione dignitatis, scilicet quod res divinae digniores sunt ".
gl. Conferens generi: " Ergo apparet quod nec papa in temporalibus nec imperator in spiritualibus se debet immiscere. Numquid ergo Papa temporalem iurisdictionem in iis quae sunt Imperii ".
Azone, Lect. in Codicem, 1, 1, 8, ribadisce queste stesse idee; più tardi Odofredo (cfr. Tamassia, Odofredo, Bologna 1894, 131 ss.) riafferma la distinzione dei due sommi poteri, le due giurisdizioni distinte, presiedendo alla sfera spirituale il papa e a quella temporale l'imperatore: solo che il papa " ratione peccati intromittit se de omnibus " (ad Cod. 1, 1, 8); come riafferma l'uguale potere del papa e dell'imperatore (ad Dig. 1, 12, 1); e giunge a proclamare nel temporale l'imperatore Dio in terra come nello spirituale lo è il papa (ad Cod. 5, 4, 23).
Com'è facile rendersi conto, la teoria (o ideologia che si voglia) della Monarchia è di scorcio più o meno già contenuta nei giuristi - non in quelli contemporanei di D. -, sì che viene spontaneo chiedersi non tanto se D. conoscesse queste tesi dei giuristi, ma come mai abbia potuto solennemente annunziare nel proemio all'opera la novità e l'originalità di verità che nuove non erano.
Ma sarebbe quanto meno ingenuo supporre che tesi già tante volte professate fossero del tutto ignote a D.; e se quanto dichiara nel proemio non può attribuirsi a ignoranza dei precedenti, ché una simile baldanza di annunziare cose tanto nuove difficilmente gli sarebbe mai stata perdonata, non resta da pensare che nuovo è il metodo che v'introduce: prima di tutto dando corpo unitario alle frammentarie proposizioni dei giuristi, e poi dando soluzioni rigorose e filosofiche dimostrazioni.
Non dunque affermazioni controvertibili, ma verità dimostrate con rigore dialettico, con il corredo di tutti gli argomenti, sì da giungere a risultati di ‛ verità ' irrefragabili. Ai procedimenti dimostrativi giuridici, di quei giuristi incapaci di elevarsi a considerazioni filosofiche (Mn II X 9: non s'imponeva a essi quasi il divieto di leggere di teologia?: gl. Notitia, ad 1. iustitia, ff, de iustitia et iure: Dig. 1, 1, 1 pr. " Iurisconsultus vel iuris prudens quicumque vult esse non debet theologiam legere, cum etiam divina in corpore iuris inveniatur "), si vogliono contrapporre verità rigorosamente dedotte dalla natura umana e dai fini dell'uomo e dai precetti della teologia, e tanto più sicure perché non rivolte a conseguire prebende (come i giuristi).
Inoltre, secondo il Chiappelli - e con certo buon fondamento - il secondo libro, apparentemente un po' fuori posto se inteso come un'apologetica storica del popolo romano, avrebbe la sua piena ragion d'essere proprio come riaffermazione del ‛ diritto ' dell'Impero romano, contro le detrazioni, non più solo letterarie ma con precise e intenzionali conseguenze pratiche, dei regalisti di Francia e dei giuristi gravitanti attorno al re angioino.
È noto, e fu illustrato accuratamente dal Graf, come Roma campeggi in tutto il Medioevo come un eterno simbolo ricco di fascino, cui s'appuntano le reverenze di tutti i popoli; ma di tanto in tanto si levarono voci ferocemente denigratorie del popolo romano e del suo Impero, come quello che aveva avuto cominciamento da un fratricidio e che aveva accresciuto la sua potenza mediante la forza bruta delle armi (cfr. Liutprando da Cremona, Tutte le opere, a c. di A. Cutolo, Milano 1945, 235, che non fu che il primo della serie dei denigratori).
Ma sin quando il fatto era solo ‛ letterario ', poco o nulla preoccupava; ma all'epoca del poeta erano vive più che mai le polemiche in sede giuridica per escludere che l'Impero potesse estendersi de iure (de facto la cosa era già risolta) su regni come la Francia, la Spagna e, per di più, nella stessa Italia, in fondo tutt'una con Roma, sul regno di Napoli.
Nel difendere i Romani dall'accusa di latrocinio, si richiama al duello - istituto come ognun sa di origine germanica - su cui si pronuncia il giudizio di Dio; ma i contendenti sono detti anche atleti (Mn II VII e VIII): ciò che si capirebbe poco se non fosse che i testi del diritto gli porgevano opportuni sostegni. Qui sono considerati gli atleti che disputano un certamen sacrum (Cod. 10, 54 (53), c. un.), la cui posta non è la merces ma il trionfo della virtù, secondo quanto si esplicava alla gl. Athletae ad Dig. 27, 1, 8 [6, 6]: " Et erant athletae qui sine mercede virtutis gratia certabant, et certaminibus sacris deserviebant ". L'aver quindi il popolo romano disputato un certamen sacrum - quindi divino - e averlo vinto, volta a volta, contro i vari popoli non può non indurre il duplice fondamento, giuridico e divino, del suo possesso e dominio del mondo.
Il terzo libro, sempre secondo la dimostrazione del Chiappelli, sarebbe una refutazione di tutta la letteratura canonistica; e che D. la conoscesse bene sarebbe dimostrato, secondo lui, dal fatto che, tra l'altro, sa ben distinguere dei canonisti i decretisti e i decretalisti.
Non è però facile credere che D. potesse conoscere la così vasta letteratura canonistica che dal Chiappelli è citata a riscontro (tanto che lo studioso per giustificare tale e tanta dottrina in D. sostiene che la Monarchia sia degli ultimi anni di vita); ma è certo che tutti gli argomenti, tranne qualcuno, esaminati e confutati in questo libro, sono negli autori canonisti, naturalmente con interpretazione opposta a quella cui D. perviene. Non va dimenticato, comunque, che Bartolo, ed era quel sommo giurista, può citare la tesi della Monarchia accanto a Cino da Pistoia (cfr. Negroni, D.A. e Bartolo da Sassoferrato, in " Riv. di cose dantesche " 1890: v. a questa voce); e altri pur grandi giuristi lo tengono per uno di loro: così Alberico da Rosciate, che lo cita sovente nel Commento che tradusse in latino del Della Lana, e nel Dictionarium iuris lo cita almeno una trentina di volte (cfr. Chiappelli, op. cit., p. 41). Cita poi la Monarchia nel Repertorium iuris Giovanni Calderini; Giovanni da Legnano ne avversa alcuni argomenti; e nel sec. XV ancora alla Monarchia si riferisce il canonista Petrus de Monte (Chiappelli, op. cit., p. 42): ciò prova che una preparazione giuridica d'indiscutibile profondità e valore doveva essere ravvisata nell'opera politica.
Chi non ha posto mente al contenuto e al fine giuridico dell'opera (è il caso anche di un grande medievalista e dantista, il Vinay, specialmente in Interpretazione della " Monarchia " di D., in Lect. Scaligera, Firenze 1962) ha potuto vedere un'insanabile contraddizione tra la tesi sostenuta nel corso del III libro e la chiusa dell'opera: ma sul piano giuridico la riverenza dovuta dall'imperatore al papa nulla toglie alla loro interindipendenza, come non la toglieva per i giuristi della Glossa.
Come nella Monarchia, nelle Epistole sono notevoli e numerosi i passi ‛ giuridici ' dei quali non è possibile con tutta precisione indicare la fonte; e anche qui proposizioni locuzioni e termini rivelano una pratica non superficiale di testi giuridici.
Ep V 20 Qui bibitis fluenta eius eiusque maria navigatis; qui calcatis arenas littorum et Alpium summitates, quae suae sunt; qui publicis quibuscunque gaudetis, et res privatas vinculo suae legis, non aliter, possidetis. Si è vista in questo testo la riaffermazione del principio - dai giuristi, sin dal tempo di Irnerio, enucleato dai testi del d. r.: si tratta di un'interpretazione ‛ letterale ' di imperator dominus mundi di " un assoluto dominio, nel senso giuridico della parola, dell'Imperatore, su tutto il mondo " da potersi indurre a chiedersi gli stessi giuristi " se questo dominio fosse sì ampio da colpire anche i beni particolari di ciascun dei sudditi " (F. Ercole, Dal Comune al Principato, Firenze 1929, 153, e S. Vento, D. e il diritto pubblico italiano, Palermo 1923).
Ma D. si attiene evidentemente a un'opinione moderata, giacché distingue i beni regalia da quelli privati; e questi posseduti però dai singoli non altrimenti che in forza delle leggi romane imperiali. L'elenco dei beni imperiali coincide del resto, a un dispresso, con quelli elencati dall'imperatore Federico I, Liber feudorum II 66 " Quae sint regalia: Regalia sunt [arimanniae] viae publicae, flumina navigabilia ex quibus fiunt navigabilia, portus, ripatica, vectigalia ecc. ".
In Ep VI, tra l'altro, si ammoniscono in termini di pretto diritto i Fiorentini che i beni pubblici sono imprescrittibili, cioè il loro carattere pubblico non si estingue per decorso di tempo, e che l'utilità pubblica prevale sugl'interessi privati, che a quella all'evenienza debbono cedere: § 6-7 An ignoratis, amentes et discoli, publica iura cum sola temporis terminatione finiri, et nullius praescriptionis calculo fore obnoxia? Nempe legum sanctiones almae declarant, et humana ratio percontando decernit, publica rerum dominia, quantalibet diuturnitate neglecta, nunquam posse vanescere vel abstenuata conquiri; nam quod ad omnium cedit utilitatem, sine omnium detrimento interire non potest, vel etiam infirmari.
Più che richiamare i tanti luoghi, che potrebbero addursi, delle fonti ove si enunciano i due principi, giova invece vedere come le legum sanctiones almae non sono altro che il d. r., e che esso, come da qualche tempo andava affermandosi dai giuristi, coincideva con la ratio.
In D. l'identificazione non è solo presupposta, ma è vista esplicitamente proprio come risultato di percuntatio della humana ratio; e le stesse leggi (§ 22) sono quelle che iustitiae naturatis imitantur ymaginem. Quivi stesso usa gli epiteti soliti, esornativi e attribuitivi di poteri, di cui si fregiavano gl'imperatori romani: § 25 divus et triumphator Henricus; dov'è bene dire che né l'uno né l'altro si conviene all'Enrico, specie divus che era dovuto solo all'imperatore morto (ma si vede che per D. divus viene reinterpretato come mandato da Dio; senza dimenticare che Federico II si era attribuito l'appellativo di divus; ma Enrico compare negli atti ufficiali con l'intitolazione: " Henricus Septimus divina favente. gratia Romanorum Imperator semper Augustus "). Le usuali appellazioni dell'imperatore romano sono ancora in Ep VII 1 Sanctissimo gloriosissimo atque felicissimo triumphatori, ecc.; in questa stessa lettera (§ 2) pare abbia tolto di peso le espressioni iniziali della costituzione con la quale Giustiniano emanò le Istituzioni e che da esse iniziali si denomina Imperatoriam maiestatem (si direbbe che D. per rivolgersi degnamente all'imperatore dei Romani si sia accuratamente preparato sugli appellativi da usarsi traendoli dai testi sacri, fondamento ancora dell'Impero; cfr. già Cv IV III 4).
Verso la chiusa della perorazione si ha un uso maldestro della restitutio in integrum, istituto caratteristico processuale romano: § 30 Tunc hereditas nostra, quam sine intermissione deflemus ablatam, nobis erit in integrum restituta.
In Ep VIII ricorre un'altra reminiscenza di istituti processuali: la reformatio (in peius e in melius): § 5 delirantis aevi familiam sub triumphis et gloria sui Henrici reformet in melius.
Non manca qualche traccia di d. r. nella Commedia. Gli episodi e i personaggi sono evocati e si muovono su uno sfondo di vita e di istituzioni sociali, e quindi è stato possibile stabilire quali istituzioni politico-giuridico-sociali siano presenti nella trama della poesia. Si è anzi tentato di desumere come una sorta di sistema giuridico delle pene cui soggiacciono i dannati, come se D. avesse applicato - creandolo - un codice di leggi. Si è fatto insomma del poeta una specie di filosofo del diritto (o legislatore), come se non solo avesse teorizzato, ma messo in pratica un sistema di norme. Il più delle volte il risultato è frutto di non poche forzature: ma se ne può convenire che D. avesse di certo una formazione generica del diritto. Ma questa formazione gli era derivata, oltre che da studi e letture occasionali, soprattutto da un'intensa vita vissuta, dalla osservazione attenta e acuta dei fatti del mondo e delle umane passioni: una sì ricca esperienza il poeta ha saputo riassumere in termini filosofico-giuridici, ma sempre in una trasfigurazione d'arte e di poesia che non lascia molto margine alla precisa documentazione di questo o quel principio giuridico, di questo o di quell'istituto: non meno che a desumere il sistema ‛ astratto '.
Tuttavia in alcuni versi sono anche ravvisabili tracce del Corpus iuris civilis (oltre che canonici).
Notissima è la derivazione - che però è solo molto probabile - dei versi Ahi serva Italia... non donna di provincie... (Pg VI 76) dalla glossa In provincia ad Auth. coll. V, tit. 20 = Nov. 69, 2, pr. " In provincia, in qua obligatio contracta est... sed quid si in Italia? Respondeo: idem: licet non sit provincia, sed provinciarum domina ". A proposito della quale Maestro Boncompagno da Signa, elettivamente fiorentino e insegnante di grammatica, retorica, epistolografia, a Bologna al tempo dell'Accorso nella prima metà del '200, aveva scritto essere sua convinzione che mai l'Italia si sarebbe potuta ridurre tributaria di alcuno se non fosse stato per malvagità e invidia degl'Italiani (cfr. G. Sichirollo, Studi sulla D.C., Rovigo 1897, 7 ss.).
Non c'è neppur bisogno di rilevare come il glossatore fosse male informato, perché già dall'epoca di Diocleziano l'Italia non conservava più alcun privilegio, e anche nella penisola e isole furono istituite sette provincie.
In relazione col principio romanistico " quamvis si liberum esset noluissem, tamen coactus volui " (Dig. 4, 2, 25, 5) sono stati posti i versi di Pd IV 76-79 ché volontà, se non vuol, non s'ammorza, / ma fa come natura face in foco, / se mille volte vïolenza il torza (cfr. G. Arias, Le istituzioni giuridiche medievali nella D.C., Firenze 1901, 98). Ma può ben essere una semplice coincidenza con la concezione rigida che della vita e della volontà ebbe Dante. Un filosofo appunto come Hegel sosterrà uno stesso principio senza che si possa intravvedere alcun legame con il criterio rigido che fu dei giuristi romani: Lineamenti di filosofia del diritto, trad. ital. di F. Messineo, Bari 1954, I, § 91, p. 92: " Come essere vivente, l'uomo può certo essere soggiogato, cioè il suo lato fisico, e peraltro esteriore, esser ridotto sotto la potestà altrui, ma la volontà non può in sé e per sé esser violentata, se non soltanto in quanto non ritrae sé stessa dall'esteriorità, alla quale è tenuta stretta, o dalla rappresentazione di essa. Soltanto chi si vuol lasciare violentare, può essere violentato in qualche modo ".
Anche le parole di Giustiniano (Pd VI 12 d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano) furono poste dall'Arias in rapporto con la const. Haec quae necessario, del febbraio 528, che predispose la compilazione del Novus Codex Iustinianeus, la prima redazione del Codice promulgato nell'aprile del 529, § 2: " Quibus specialiter permisimus resecatis tam supervacuis quantum ad legum soliditatem pertinet ecc. ".
Ma con pari diritto si possono rapportare con la const. detta Deo auctore dalle due parole con cui s'inizia il testo (e da queste parole può esser derivata l'espressione di D. per voler del primo amor ch'i' sento) che predispose il 15 dicembre 530 la compilazione del Digesto. Non v'è dubbio comunque che dicendo leggi D. voglia riferirsi tanto alle leges vere e proprie del Codice quanto agli iura (cioè alle opere dei giuristi escerpite per compilare il Digesto), così come quando parla di iura si riferisce promiscuamente a tutto il diritto.
Nella costituzione, appunto, Deo auctore, De conceptione Digestorum, si legge: § 1 " primum nobis fuit studium a sacratissimis retro principibus initium sumere et eorum constitutiones emendare... quatenus in unum Codicem congregatae et omni supervacua similitudine... obsolutae "; § 7 " Sed et hoc studiosum vobis esse volumus, ut, si quid in veteribus non bene positum libris inveniatis vel aliquod superfluum vel minus perfectum, supervacua longitudine semota ecc. ": anche da questi testi può esser stato indotto il trassi il troppo e 'l vano.
Ma che D. avesse una notevole preparazione giuridica si deduce dall'impiego che, nelle opere volgari, fece di termini, locuzioni ed espressioni proprie dell'area giuridica. Di questi ‛ giuridicismi ' si può dire quel che il Migliorini (Storia della lingua italiana, Firenze 1960, 192) dice dei latinismi: che è probabile fossero in parte già nell'uso, ma che alcuni li abbia introdotti proprio Dante. Non ci si vuol soltanto riferire a termini prettamente legali, come erede, giurisdizione, legato, ecc., ma a vocaboli d'impiego meno generale, taluni dei quali hanno subito da D. una reinterpretazione semantica (come arra, libello, de plano, fio, rubrica; ovvero antecessore che D. usa come " predecessore " in una carica in I f XXVII 105 o come " antenato " in Cv IV VII 9 e 10, XIV 5, 6, 10 (due volte), 13 e 14, e che è il giureconsulto (si ricordi antecessor Iulianus, autore di una compilazione riassuntiva, Epitomae, delle Novellae): Cod. 1, 17, 1, 3; Cod. 1, 17, 2, 9; X. 1, 17, 22; e soprattutto: const. Imperatoriam maiestatem, premessa alle Inst., § 3; const. Tanta, premessa ai Digesta, § 9.
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