Diritto e filosofia del diritto in Croce e Gentile
All’aprirsi del 20° sec. lo scenario giusfilosofico europeo annovera tra i suoi protagonisti la corrente tradizionale del giusnaturalismo e quel giuspositivismo avalutativo che aveva rappresentato lo sguardo dominante sul diritto per tutto l’Ottocento. Come pure visioni del diritto riconducibili a istanze antiformalistiche che evidenziano la maturata insoddisfazione verso visioni del diritto rigide, incapaci di raffigurare la natura del fenomeno giuridico.
Nel contesto italiano però qualcosa arriva ben presto a sparigliare l’ordine delle cose, sebbene senza la forza per sovvertirlo. È una voce dissonante che riuscirà a influenzare, nonostante tutto, la scienza giuridica italiana della prima metà del Novecento. È una voce che muove dalla rielaborazione della lezione hegeliana e approda a una reinterpretazione della dialettica della ragione, a un rinnovato idealismo. Lo storicismo incarnato da Benedetto Croce, per il quale la vita e la realtà non sono null’altro che storia (La Storia come pensiero e come azione, 1938, 2002, p. 59), diverrà uno snodo cruciale.
Come sempre, però, la storia è un po’ più complicata. Più complicata perché nell’alveo del nostrano neoidealismo, accanto alla figura di Croce, enorme rilievo avrà quella di Giovanni Gentile; più complicata anche perché, per la propria affermazione, lo storicismo idealistico dovrà fronteggiare su diversi scacchieri lo scientismo: una prospettiva culturale contraria a ogni valorizzazione del diritto che non si risolva in un riduzionismo tecnicistico.
Propugnare un ideale scientista per il diritto vuole dire squalificare la filosofia, nella sua vocazione alla problematizzazione e pure nel suo ruolo accademico. Emblematico l’intreccio di questi profili nella prolusione di Pietro Bonfante all’Università di Roma nel 1917, nella quale la filosofia del diritto viene ritenuta il «simbolo di una fase prescientifica nello studio del diritto» (Il metodo naturalistico nella storia del diritto, «Rivista italiana di sociologia», 1917, 21, p. 67). Si tratta di un dissidio concettuale ed epistemico, ma non da ultimo di una battaglia per l’egemonia culturale, tanto che non solo Gentile, ma persino Croce reagirà con veemenza rivendicando la credibilità della filosofia, intesa come storia e metodologia della storia, non certo come astrazione metafisica e interrogazione sulla presunta dimensione noumenica del mondo (cfr. Filosofia e metodologia, «La Critica», 1916, 14, p. 309).
L’asprezza dell’attacco non deve tuttavia fuorviare nella comprensione del punto di vista di Croce, assai lontano da ogni apologetica della disciplina – criticamente definita «un groviglio di difficoltà» (Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, 1907, 1926, p. 37; d’ora in poi RD), «un filosofico ircocervo» (recensione a G. del Vecchio, Diritto ed economia, 1935, «La Critica», 1936, 34, p. 378) – e da ogni riconoscimento della sua presunta indipendenza nello spettro dei saperi. E neppure far intendere che vi sia in lui una qualsivoglia edulcorazione della condizione in cui versa la filosofia del diritto italiana. Ma certo Croce deve intuire la portata di simili pubbliche prese di posizione, forse presagendo i rischi di scelte che possono revocare in dubbio elementi caratterizzanti il concetto positivistico del diritto, come la certezza del diritto e il principio di validità, i quali – nonostante per altri versi tradiscano un formalismo da legulei, prono ad accettare e cresimare gli istituti giuridici positivi, prodotto della storia (cfr. recensione a I. Petrone, Lo Stato mercantile chiuso di G. Am. Fichte e la premessa teorica del comunismo giuridico, 1904, «La Critica», 1905, 3, p. 149) – possono fungere da argine contro derive irrazionalistiche e autoritarie.
Rimane tuttavia chiaro ai suoi occhi come lo sforzo per ben intendere il valore della filosofia non possa essere disgiunto da quello volto alla comprensione della concretezza storica, e dunque come un’analisi storica legata a quella chiarificazione concettuale, che soltanto la filosofia può offrire, divenga un’impresa necessaria (Teoria e storia della storiografia [pubblicato nel 1915 in tedesco, nel 1917 in italiano], 2007, p. 136). Non solo. Pensando allo status della filosofia del diritto, Croce è convinto che la riunione armonica di filosofia, scienza del diritto e politica richieda «vigore e coraggio» e che, ora una sfumatura desolata in una severa immagine di singolare realismo,
i più dei professori e cultori del diritto guardano dall’alto tavolato delle loro astrazioni la sottostante acqua del mare, ma non vogliono gettarvisi dentro per aver da fare con le onde (recensione a P. Biondi, Metodo e scienza del diritto, 1935, «La Critica», 1936, 34, p. 145).
Per comprendere quale sia il concetto di diritto e di filosofia del diritto di Croce è preliminare l’indicazione che egli stesso ci offre allorquando rintraccia nella figura di Christianus Thomasius (1655-1728) il primo vero filosofo del diritto: colui che, alla fine del Seicento, ha il grande merito di aver posto al centro della riflessione filosofica il rapporto tra diritto e morale. Una distinzione che non esclude sovrapposizioni tra le diverse sfere della condotta umana, ma si affranca dai riduzionismi sino ad allora prevalenti: del diritto alla morale (da Platone a Ugo Grozio), come voleva il moralismo, o della morale al diritto (da Trasimaco a Thomas Hobbes), come prescriveva il positivismo. Per una prospettiva innovatrice sulla natura dell’universo giuridico, l’illuminista tedesco assurge così a imprescindibile punto di partenza; pur con i suoi limiti. Sì, perché la distinzione tra diritto e morale è il «capo dei Naufragi» (RD, p. 10), il luogo nevralgico della filosofia del diritto, ma non è risolvibile nell’attribuzione – compiuta da Thomasius – alla sola sfera giuridica dei caratteri dell’esteriorità e della coattività. Riconoscere in questi aspetti il senso principale della relazione tra diritto e morale è per Croce una via parziale e imprecisa.
Nella memoria sul diritto che di soli due anni precede la più compiuta e sistematica Filosofia della pratica (1909), la Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, Croce precisa che il diritto non coincide con l’etica, eppure non è semplicemente diverso da essa. Il diritto appare identico e diverso allo stesso tempo, e questo non perché solo a esso spettino i tratti dell’esteriorità e della coattività. Diritto e morale sono «distinti e uniti: il diritto può apparire, ed appare talvolta, disgiunto dalla morale: la morale non può non tradursi in azione pratica, e quindi sociale, ossia in diritto» (RD, p. 54). Anche all’etica dunque pertiene il carattere dell’esteriorità. Per quanto concerne poi la coattività, quale supposto elemento di distinzione, va evidenziata la dimensione di interiore coazione dei dettami morali, ma soprattutto l’idea che persino uomini perfetti (altri autori come H.L.A. Hart preferiranno ipotizzare un popolo di angeli, per citare capovolta l’iperbole metaforica di Immanuel Kant) avrebbero bisogno del diritto,
giacché quegli uomini, per perfetti che si pensino, sarebbero pur uomini, e non già concetti ed astrazioni: onde dovrebbero nutrirsi, generare, lavorare, e via dicendo, ossia compiere azioni singole (p. 54).
Per delimitare lo spazio del diritto nella distesa dell’agire e delle sue forme, non è sufficiente afferrare la natura del suo rapporto con la morale, non tutti i problemi sono così risolti. Rimane ancora per Croce un dilemma da sciogliere: quello relativo all’inclinazione strumentale che le azioni umane possono avere. Occorre cioè chiarire quale sia la relazione, questa volta, tra l’utile e la morale, la cui traduzione utilitaristica non può ritenersi soddisfacente. Essa conduce a un nuovo riduzionismo inaccettabile: alla sovrapposizione della sfera morale a quella dell’utilità. L’utilitarismo offre la risposta sbagliata, responsabile di «triviali sofismi» (Filosofia della pratica. Economica ed etica, 1909, 1996, p. 289; d’ora in poi FP), a una evidenza però ben intuita: la rilevanza nella prassi della razionalità strumentale.
Naturalmente per Croce l’utile non rimanda alle astrazioni matematiche delle scienze economiche. Avversario tenace di ogni astrattismo e coerente osservatore di ciò che storicamente si dà, egli non può certo cadere in una così palese contraddizione. «L’attività economica – puntualizza – non è altro che l’attività pratica, presa semplicemente come tale, prescindendo cioè dalla determinazione di essa come morale o immorale» (RD, p. 37; cfr. anche FP, p. 217).
Come la categoria dell’utile o dell’economico dissipi ogni ombra dell’usuale corrispondenza con la determinazione egoistica era del resto chiaro già in Materialismo storico ed economia marxistica (1900), nella Riduzione (p. 42), e ancora nella postilla del 1916 poi raccolta in Riduzione con il titolo Sul concetto filosofico dell’utile («La Critica», 1916, 14). L’utile non è immorale, non essendoci contrasto tra morale e utilità. Non è il lato negativo della morale: con essa converge e il contrasto tra loro è «inesistente» (FP, p. 238). Ma qui non si deve cadere in errore, l’assenza di dissidio non discende dalla possibilità che l’utile corrisponda a un minimo morale; piuttosto dal suo configurarsi come concettualmente premorale (p. 239).
A queste conclusioni giunge dopo aver tentato – come egli racconta – «l’esperimento» su se stesso, già dalla fase della loro incubazione, dall’adolescenza, e poi quando nel suo secondo anno romano prese a seguire le lezioni di Antonio Labriola sull’etica herbartiana e solo, a casa, provava a fermarle su carta per poter «rimuginarci» sopra al mattino (Contributo alla critica di me stesso [scritto nel 1915 ma edito nel 1918], 1967, p. 323; ma cfr. anche la recensione a G. Maggiore, Il diritto e il suo processo ideale, 1916, «La Critica», 1917, 15, p. 62). E andrà così che nella Filosofia della pratica – sotto questo rispetto, quindi, quasi un testo autobiografico – presenterà il suo approdo compiuto, premettendo però che il sottrarre l’utile all’accusa di immoralità non significa per lui sconfessare il sentimento sempre vivo per cui «gli uomini, nei quali la coscienza morale manca o è confusa e intermittente, ci fanno paura» (FP, p. 223). La questione rimane dunque ancora intricata.
Per Croce la relazione tra l’attività teoretica e quella pratica va intesa nel senso di una circolarità che porta a riconoscere nell’attività teoretica un presupposto della pratica, e l’impossibilità anche solo di concepire un essere umano che sia solo teoretico e non anche immediatamente pratico, cioè capace di far scattare quella «scintilla», che corrisponde alla volizione.
La volizione non è il mondo circostante, che lo spirito percepisce: è un’iniziativa, un fatto nuovo; ma questo fatto ha le radici nel mondo circostante, questa iniziativa è iridata dei colori delle cose che l’uomo ha percepito come spirito teoretico prima di operare come spirito pratico (p. 45).
Il mondo è in un continuo cambiamento, che viene avvertito dal soggetto che ne coglie gli elementi di novità, i quali a loro volta diventano sorgente per nuove volizioni. «Percezione e volizione si susseguono a ogni attimo; per volere bisogna, a ogni attimo, toccare la terra e ripigliare forza e direzione» (p. 46). Di fatti, «volere l’astratto […] tanto vale quanto astrattamente volere. E volere astrattamente tanto vale quanto non volere» (p. 53).
Così, l’atto volitivo è necessario, ma al contempo esprime libertà, perché la volizione scaturisce non dal vuoto, ma dalla realtà delle situazioni che si determinano via via, secondo coordinate storiche inevitabili e, nella misura in cui accadono, necessarie. Al variare della situazione, si genera il variare della volizione; alla situazione corrisponde in questo senso la volizione (p. 131). Ma, a sua volta, la volizione produce qualcosa di diverso, di inedito: «è iniziativa, creazione, atto di libertà» (p. 132).
Definire in tal modo l’attività pratica vuol dire considerarla come attività economica che, poi, eventualmente, può accedere alla sfera della moralità. Vuol dire che giudizi di valore o principi normativi non hanno nessuna consistenza se si pretende di farli valere come criteri per l’agire, come guida per la condotta umana, come concetti e giudizi «precedenti l’azione»; per questo non vi possono essere «scienze chiamate pratiche o normative», non vi può essere una filosofia pratica, ma solo una comprensione teoretica della prassi umana, una filosofia della pratica (p. 52).
E il diritto? Quale ruolo riserva Croce al diritto in questo scenario che non lo contempla in quanto momento autonomo dell’agire? Come già aveva chiaro alla mente negli anni che precedono il completamento della Filosofia della pratica (nella memoria dedicata alla filosofia del diritto, ma persino, prima, nelle Tesi di estetica del 1900), il diritto non può che dispiegarsi sul terreno economico, solo eventualmente intrecciando relazioni con quello etico,
perché la vita economica e la vita morale non stanno tra loro come due sfere coordinate e indipendenti, ma come il perpetuo passaggio dall’una all’altra; e le virtù economiche o giuridiche sono il primo passo e il presupposto della virtù morale (Frammenti di etica, in Etica e politica, 1967, pp. 55-56).
Il diritto corrisponde alla declinazione economica dell’operare: l’attività giuridica è sinonimo di attività economica (FP, p. 358), senza che nulla vieti un suo possibile candidarsi alla promozione di un agire teso all’universalità, a emanciparsi dagli interessi particolari degli individui. Ma certo non dovrà mai necessariamente farlo per conservare o conseguire lo status della giuridicità. Netta è la distanza dall’etica, tanto che parlare di un diritto giusto e di un diritto ingiusto ha poco senso – ironizza Croce – quanto il classificare i cavalli in due specie, «cavalli vivi e cavalli morti!» (p. 362). La dimensione normativa del diritto non trova alcun riconoscimento, delegittimate sono quelle norme morali che si presentino come indispensabili per definire il diritto come tale. Lontanissimo è Croce da ogni formulazione giusnaturalistica, e prossimo alla sensibilità teorica dello storicismo giuridico che valorizza la lingua di un popolo e conferisce alla storia il primato nella determinazione del diritto. Le regole, le norme, le massime «non hanno valore assoluto» (p. 88). Esse sono un portato concreto delle situazioni realmente prodottesi nella storia e, se rettamente comprese, si rivelano addirittura ineludibili per orientarsi nell’azione; sebbene mai vadano intese come precedenti in grado di determinare l’azione. Anche per questo in ambito giuridico si impiegano solo pseudoconcetti, non concetti veri e propri, poiché sempre essi discendono da dati positivi, cioè presenti di fatto nella realtà.
L’azione dipende dal colpo d’occhio, dal percepire esattamente la situazione storicamente data […] mai avuta identica […]. Ma per aguzzare l’attenzione e orientarsi nel campo in cui si opera […] giova possedere codesti tipi delle azioni da promuovere o da evitare. Perciò, se le regole singole sono più o meno passeggere, la formazione delle regole è perpetua (FP, p. 89).
E da qui a cascata deriva un certo concetto di legalità, la relativizzazione dei principi di giustizia e, prendendo le distanze da visioni del giudice di ascendenza montesquieuiana e beccariana, la rilevanza creativa della dimensione interpretativa del diritto.
Oltre alla Riduzione, per cogliere il concetto crociano di diritto è preziosa la terza parte (“Le leggi”) della Filosofia della pratica, che si apre con la definizione di legge in generale, con riferimento alla società e pure all’individuo isolato. «La legge – spiega Croce – è un atto volitivo che ha per contenuto una serie o classe di azioni» (p. 317); in assenza di volizione e del riferimento a un’intera classe di azioni, ossia della qualità dell’astrattezza, le leggi si nominano tali solo in via metaforica. Generalizzazione possibile questa perché solo in modo relativo un individuo può essere inteso isolato, poiché gli esseri umani sono individui in relazione, dunque la dimensione intersoggettiva inerisce all’uomo e non il carattere di socialità alla legge giuridica. Neppure le leggi dello Stato si specificano in quanto coattive. Esse non lo sono mai, in effetti, poiché ogni azione è libera e persino
la pena trova sempre di fronte a sé la libertà dell’individuo. Per evitare la pena o il rinnovarsi della pena questi potrà, liberamente, osservare la legge; ma ciò non toglie che potrà anche liberamente ribellarlesi (p. 321).
Se poi la costrizione viene immaginata come coincidente con l’essere minacciati da una pena, allora questo vale anche per le leggi non giuridiche. In questo senso non si distinguono le leggi della Magna charta da quelle delle associazioni a delinquere, da quelle della camorra o della mafia (p. 325). Entrambi i tipi possiedono i tratti essenziali della nozione di legge: sono atti volitivi e sono riferibili a classi di azioni; elementi ai quali si confà la caratteristica della mutevolezza, poiché si trovano legati a doppio filo con il costante cambiamento delle circostanze fattuali. Da qui una nozione di legalità storicistica, relativistica sotto il profilo del contenuto, imperativistica (sebbene sui generis poiché riconducibile alla forma del comando ma non alla fonte dell’autorità sovrana). Non si può asserire lo stesso invece per le leggi di natura, prive di dimensione volitiva. E neppure per le leggi della morale, universali e non mutevoli.
Ne discende che non hanno alcuna consistenza i presunti valori universali: essi sono sempre idee particolari elevate a universali (La storia come pensiero, cit., p. 59). Inaccettabile è l’idea di «una legislazione limite o modello, di un diritto universale, razionale o naturale» che diviene un’arbitraria razionalizzazione di contingenze storiche oppure mera «tautologia» (FP, p. 334) e per di più «urta contro il principio della mutevolezza delle leggi, che è conseguenza necessaria del carattere contingente e storico del loro contenuto» (p. 332). Si comprende così che, appena terminata la Seconda guerra mondiale, Croce ribadisca la propria distanza dal presupposto teorico dal quale scaturisce la Dichiarazione dei diritti dell’uomo: un riabilitato giusnaturalismo universalistico, che «filosoficamente e storicamente è affatto insostenibile» (I diritti dell’uomo e il momento presente, in Dei diritti dell’uomo, 1952, p. 133). I diritti umani non sono per Croce «esigenze eterne», bensì «fatti storici, manifestazioni di bisogni di determinate epoche e preparazione a cercar di soddisfarli» (p. 133). Inconsistenza questa che già gli divenne evidente quando, ancora studente, dovendo preparare una conferenza sul tema affidatagli dall’insegnante di enciclopedia giuridica, approdò alla magra conclusione che
nel corso dello studio era stato tratto a ridurre quei diritti a numero via via sempre minore, e che [gliene] era poi rimasto tra le mani un solo, e quel solo anch’esso, in ultimo, non [sapeva] come, era sfumato (Intorno alla mia teoria del diritto, «La Critica», 1914, 12, p. 449).
Con questo Croce non espunge ogni criterio di valutazione delle istituzioni politiche, ma rintraccia tale criterio non nella conformità a modelli giusnaturalistici, bensì hegelianamente nel loro carattere razionale o irrazionale.
La legge ha bisogno di avvicinarsi alle sue manifestazioni storiche per poter riscattare la sua condizione di mancata volizione, in quanto volizione di un astratto (di una classe di azioni). A ricevere valore è proprio il profilo giuridico della legge. Come tale la legge è irrealizzabile, poiché reali sono solo gli atti singoli, ciò che effettivamente si vuole ottenere quando si giunge a stabilire una legge generale. È precisamente questo il punto focale del discorso crociano sul diritto, la ragion d’essere e l’utilità di quest’ultimo. Se di per sé non ha né autonomia né concretezza, contro ogni relativismo legalistico, il suo valore, in quanto sostegno e stimolo al volere reale, risiede nel suo essere via pratica perché da parte degli individui si compiano determinati atti singoli e non quelli contrari. L’utilità della legge risiede non nel saper rendere attuale quanto prescritto, poiché attuale può essere sempre soltanto un atto concreto. Essa consiste piuttosto nel rappresentare quel richiamo alla generalità che può spronare al compimento del singolo atto sussumibile.
Diversa e maggiore è poi l’importanza del diritto se lo si osserva sotto il profilo giudiziario, se si analizza l’attività interpretativa della giurisprudenza. Qui lo storicismo crociano si declina in un modo che apparirà nel lungo periodo di singolare attualità nella riflessione giusfilosofica contemporanea, con riferimento in particolare alla corrente ermeneutica e alla intuita pregnanza del linguaggio in relazione al diritto.
Per Croce tutto «il lavorio della cosiddetta interpretazione» non è «un grossolano prodotto passionale in servigio dell’arbitrio» (recensione a P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, 1939, «La Critica», 1939, 37, p. 445), ma «sempre in effetto escogitazione di nuove regole» (FP, p. 94), resa possibile nella prassi giuridica; se si muove dall’evidenza che non vi compaiono concetti immutabili e universali, bensì «convenzioni e finzioni» (Intorno alla mia teoria, cit., p. 449), pseudoconcetti calati nella realtà effettuale delle cose. Questa creatività verrà posta sempre più in rilievo anche in funzione polemica rispetto a un ordine costituito che si avvierà sulla strada del fascismo. E proprio alla fine degli anni Trenta, Croce contesta il convincimento diffuso secondo il quale enfatizzare la dimensione interpretativa dell’attività del giudice aprirebbe all’arbitrio del giudizio e non incrementerebbe, al contrario, l’opportunità di pervenire a un esito giudiziario più plastico e maggiormente adeguato alla ricostruzione di fatti e situazioni spesso difficili da valutare con equità. Egli si dichiara pertanto convinto che pure il momento giudiziario possa avere un ruolo non secondario, senza tuttavia assurgere al rango di fonte del diritto.
«La cosiddetta applicazione della norma al fatto non è nel giudice un processo meramente conoscitivo, ma un atto pratico col quale non applica ma crea la legge nel caso singolo» (recensione a P. Calamandrei, cit., p. 445). Solo così può avere spazio anche quell’integrazione essenziale data dall’esercizio di una capacità di giudizio che da sempre, da Aristotele a Kant, è stata riconosciuta come indispensabile, perché il momento applicativo non arrivi a tradire le intenzioni di giustizia della norma generale.
La libertà del giudice – continua Croce – è governata nel modo più severo dalla sua coscienza morale, la quale, pur comandandogli di non “applicare” meccanicamente (cosa, del resto, impossibile) la legge, e di adoperarla nel suo pronunziato con razionale ossequio, […] gli vieta, tra le altre cose, di usurpare l’ufficio specifico che è del legislatore e di scompigliare e confondere gli ordini che la società si è data (recensione a P. Calamandrei, cit., pp. 445-46).
Entro una sfera giuridica non intesa in termini formalistici, bensì aperta alla concretezza delle situazioni, è possibile allora rintracciare la via per una critica della legge ingiusta che non ricorra a criteri extragiuridici.
L’immagine della cultura giuridica italiana tra le due guerre non sarebbe fedele però se non si ponesse la prospettiva crociana in tensione con quella di un altro interprete dell’idealismo hegeliano, Gentile.
Con Gentile, Croce intrattiene un rapporto alterno, inizialmente amicale sebbene talvolta contraddittorio, nutrito dalla comune orientazione filosofica e dalla fondamentale condivisione, per circa un decennio, del progetto della rivista «La Critica» avviatosi nel 1903. A caratterizzare il loro contrastato legame sono anche le divergenze teoriche nel leggere Georg Wilhelm Friedrich Hegel, nell’intendere Karl Marx, nell’elaborazione del proprio sistema filosofico, per non dire nella loro prospettiva politica che li vede allontanarsi sempre più l’uno dall’altro negli anni dell’avvento e del consolidamento del regime fascista. La rottura si renderà a quel punto irreversibile e profonda; dopo un lungo periodo di tribolamenti occorsi ben prima della sottoscrizione da parte di Croce del Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925; quasi un simbolo della ormai consumata cesura e della recisa presa di distanza dal fascismo, a neppure un anno dall’omicidio di Giacomo Matteotti.
Uno dei luoghi teorici in cui la differenza tra i due filosofi è sempre stata netta è costituito dai testi dedicati alla materia giuridica. Spia di questa distanza sono gli attacchi alle considerazioni crociane sul diritto che emergono in svariati passaggi dei Fondamenti di filosofia del diritto (1916, poi ampliata nelle due successive edizioni, del 1923 e del 1937). Sebbene nato in vista di un corso universitario presso la facoltà di Giurisprudenza di Pisa, non è questo certo un libro d’occasione, e il dialogo con Croce si rivela tra le righe assiduo nelle sue pagine, al punto che a tratti può apparire una sotterranea polemica. Del resto, è difficile immaginare che sia stato un evento irrilevante la pubblicazione nel 1912 della traduzione italiana delle Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821) di Hegel, capitata precisamente tra l’uscita della crociana Filosofia della pratica e i Fondamenti gentiliani.
Accanto ai Fondamenti, pure di grande interesse per la ricostruzione del concetto di diritto, è Genesi e struttura della società (1943), il cui sottotitolo, Saggio di filosofia pratica, pare a sua volta risuonare come una consapevole sfida a Croce.
Gentile si differenzia da Croce innanzitutto per la convinta riabilitazione della filosofia del diritto. Egli non entra nella polemica sull’argomento se non per reciderne le ragioni alla base. Si pone in questione lo status della filosofia del diritto – a suo giudizio – solo perché si concede allo storicismo e alla sociologia partita vinta su quanto vi è di più significativo: il concetto di diritto; e si consegna alla teoria generale del diritto il ruolo formale di sostituto della filosofia.
La questione va invece ripensata e posta su basi più adeguate. Il diritto non è un mero fatto o fenomeno, rispetto al quale ovviamente priva di senso sarebbe la prospettiva filosofica (I fondamenti della filosofia del diritto, 19613, p. 34; d’ora in poi FFD). Contro ogni rappresentazione riduzionistica, appagata da una visione fenomenica della realtà, «sta lo spirito (l’uomo appunto, che si contrappone ad essa e la giudica, osservandola, e quindi prevedendone il fatale andare)». Egli non è un fatto, «giacché stare di fronte a una realtà è pensarla; e pensare è un atto, non un fatto» (p. 43).
Se questa è la premessa, lo sguardo di Gentile sul mondo e sull’uomo nel mondo, come si può coerentemente intendere il diritto?
Nel solco della propria interpretazione del Marx critico di Ludwig Andreas Feuerbach, la libertà scaturisce per Gentile dall’unità inscindibile tra la realtà e il soggetto che la pensa; è la piena corrispondenza tra soggetto e oggetto, coincide con l’Io, con l’autocoscienza. La realtà si configura come incompatibile con la sua rappresentazione fattuale. Se la realtà è indivisibile dal soggetto che la pensa, essa non corrisponde al fatto.
E così il diritto; se viene inteso come mero fatto, viene escluso dalla vita dello spirito (p. 43). Il diritto rientra dunque nell’unità spirituale che si realizza come processo entro il quale si palesano sì differenze, ma mai tali da agire da moltiplicatori dell’unità. Esse sono intrinseche, immanenti all’unità, che per loro tramite «si instaura, e integra, e attua» (p. 55). È un processo dialettico, perché dialettica è la realtà dello spirito.
In questa rappresentazione della storia come vita dello spirito, il bene corrisponde al «valore dello spirito nella sua attualità dialettica» (p. 67; cfr. anche Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1946, 1994, p. 52, d’ora in poi GS) tanto che l’atto in quanto momento del processo di realizzazione dello spirito può dirsi morale. E il male – che neppure Kant nella sua grandezza era stato capace di spiegare (FFD, p. 22) – è un momento interno al bene, il «momento negativo della nostra effettiva realtà spirituale»; perché ogni vero nemico è sempre da ricercarsi all’interno (p. 68). Il male è dunque alimento per il bene: in sé non è nulla. Tanto che «tutta la realtà di un’ingiustizia non si manifesta (non vale per quella realtà che essa è, in quanto realtà morale) se non nella coscienza che la valuta» (p. 68). Finanche la guerra si trasfigura in qualcosa di positivo e indispensabile:
la guerra è l’instaurazione della pace, risoluzione di una dualità o pluralità nel volere unico, la cui realizzazione è immanente nel conflitto, e ne rappresenta la vera ragion d’essere e il significato profondo (p. 72; cfr. anche GS, p. 104).
Interrogarsi sul diritto e la sua natura significa, con Gentile, chiedersi cosa divenga il diritto sullo sfondo di questo nuovo idealismo. Se per l’idealismo storicistico di Croce infatti la realtà è storia, per quello attuale di Gentile nulla è reale se non il pensiero in atto. Il diritto implica comunque la comprensione dell’attività giuridica, «che non è più un fatto, bensì il principio produttivo del fatto»; la filosofia del diritto è pertanto inevitabile, anche per coloro che riducono la sfera del diritto alla sfera dei fatti, e coloro che non lo ammettono non possono che «fare della cattiva filosofia» (FFD, p. 45). Ecco allora che la filosofia del diritto – evidente la distanza da Croce – ha un compito essenziale, un compito che Gentile definisce «gnoseologico»: contribuire alla formazione di una coscienza critica della realtà per quanto concerne la comprensione del momento della vita dello spirito che costituisce la scaturigine del fenomeno giuridico (p. 46) e che si sofferma sul carattere sociale dello spirito umano.
La natura dell’uomo è sociale e vive entro le maglie di una «unità dialettica e dinamica d’ogni costruzione sociale». Non nel senso di un’unità organica, ove la concordia annulli inclinazioni e interessi anche opposti da parte degli individui, ma neppure di un’unità come aggregato di singolarità separate e confliggenti. La vera essenza della socialità dell’uomo sta non nel suo relazionarsi esteriore, in una società inter homines, bensì nella comprensione di sé in quanto membro di una società universale, di una società in interiore homine, perché il valore universale dello spirito si può affermare solo attraverso «l’immanente soppressione dell’elemento particolare» (p. 75), concependo gli uomini particolari, sotto il profilo spirituale, come fossero un sol uomo.
È la forza a rendere possibile questa unità: è la forza il principio del diritto. Con ‘forza’ occorre però intendere qualcosa di uguale eppure di diverso dal significato che Baruch Spinoza, da un lato, e Jean-Jacques Rousseau, dall’altro, hanno a essa attribuito. Coglieva nel segno Spinoza nel ritenere che la forza fosse fonte del diritto, ma sbagliava nel ridurre la forza a mera necessità meccanica, all’evidenza che il pesce grosso mangerà il piccolo. Aveva ragione Rousseau nel sostenere che dalla forza non potrà mai discendere il diritto, ma errava nel sottrarle ogni idealità: solo per questo poteva negare siffatta derivazione. La forza, rettamente intesa,
non è perciò una forza naturale, determinata obbiettivamente e senza intrinseca razionalità, ma è libera forza spirituale, la quale può realizzarsi solo attraverso una legge universale, e negando costantemente ogni particolarità (FFD, p. 82).
E così «la forza che è diritto è la forza interiore, l’attività o potenza dello spirito, nella sua intimità» (p. 83). Il diritto ha dunque un volto interno, una coattività interiormente percepita, alla quale corrisponde la coattività esteriore delle norme giuridiche.
Anche per Gentile però la dimensione della coazione esterna non è tratto essenziale del diritto, poiché il diritto si dà ogni qual volta il soggetto si trovi al cospetto di un «voluto» che non è il suo volere attuale (pp. 94-95). La sanzione che ha come sua finalità l’annullamento della volontà contraria a quanto stabilito dalla norma può fallire, ma il diritto resta tale in quanto noi lo percepiamo come coattivo, lo riconosciamo come vincolante, come legge che sovraintende alla nostra volontà. È questo lo snodo che rende evidente il fraintendimento di cui è vittima il giusnaturalismo nella sua «rivendicazione della libertà di coscienza dal potere politico» (p. 95).
Non vi è opposizione tra Stato e cittadino, lo Stato è una società sentita come tale dall’uomo nella sua interiorità. Non vi è una dimensione ideale contrapposta a una fattuale. Non vi è una sfera morale separata da una sfera giuridica. Non vi è un diritto soggettivo che rivendica il proprio riconoscimento in contrapposizione a un diritto oggettivo (p. 92).
Nella storia, dove tutta la vita spirituale si attua, il diritto si libra tra la morale da cui sorge e la morale a cui mette capo: e ogni momento della storia, così nell’individuo come nell’insieme degli uomini, che sono tutti un individuo, è un momento di moralità che risolve una situazione giuridica per farne nascere una nuova (FFD, p. 97).
Posizioni queste ultime che giungeranno al loro pieno compimento negli anni Quaranta con l’ultima opera gentiliana (uscita solo postuma), nella quale Stato, atto, etica verranno a coincidere secondo un riduzionismo totalizzante e liberticida nei confronti delle sacrificabili particolarità individuali (GS, p. 121).
La differenza tra diritto e morale è solo una differenza riconducibile allo stadio di realizzazione dello spirito. Il diritto è ciò che è voluto, una volta che sia già voluto, una volontà cioè che si è già realizzata. La morale invece è una volontà che si realizza, un volere ancora non voluto.
Questo non deve indurre a pensare che vi sia un legame diacronico tra diritto e morale e che il diritto costituisca un antecedente per la morale. Nella volontà morale il diritto è già presente, è suo momento interno che interagisce secondo una dinamica dialettica, poiché è il volere che rende il voluto già voluto. E ancora, il diritto si distingue dalla morale non solo nel suo carattere di «esser voluto» e non di volontà in atto, ma anche nella sua empirica opposizione alla libertà, nel suo essere «concretezza dell’atto volitivo etico» e nel suo darsi quando due volontà entrano in conflitto, «quando un’autocoscienza, inizialmente, si contrapponga a un’altra autocoscienza» (FFD, p. 99). Ma si tratta sempre di un’opposizione astratta, solo apparente, che occulta il processo dialettico che lega hegelianamente contrapposte volontà.
Nel paragrafo “La dialettica del diritto” dell’8° capitolo, Gentile scende ancora più in profondità nel descrivere la struttura del diritto, il quale si sostanzia allorquando si dà una legge scritta o non scritta, comunque riconosciuta come limitazione della libertà del soggetto. Una volta superata questa rappresentazione della propria volontà come soggetta a tale limite e accolta come propria la condotta d’azione prescritta dalla legge, il diritto scolora (p. 125). In questa volontà che vuole ed è voluta insieme, che limita e viene riconosciuta come limite, consiste il diritto.
Impostata così la questione cruciale del rapporto tra dimensione giuridica e idealità morale, diventa inevitabile chiedersi quale sia la posizione di Gentile nei confronti dell’annoso problema dello status giuridico del diritto ingiusto. E qui la distanza da Croce si rende ancora più palpabile.
Al cospetto della «medesimezza» (p. 100; cfr. anche GS, p. 59) di diritto e morale, per cui sempre si è inclini a giudicare moralmente l’attività giuridica, va precisato che «il diritto esiste come diritto, ma non nasce come diritto» e la legge è originariamente un «atto etico» (FFD, p. 100); per questo «la legge trova sempre innanzi a sé la volontà pronta a giudicarla moralmente» (p. 101). Una legge può dunque essere ingiusta, ma ciò non significa che essa smarrisca il proprio valore giuridico. Il diritto ingiusto «è il caso limite» che continua ad arrogarsi ubbidienza non di per sé, nella sua particolarità, ma in quanto espressione della giuridicità come tale. Si tratta dunque di una legge ingiusta che è però espressione di una superiore legge giusta, di una riformulazione del significato profondo dell’episodio della rinuncia di Socrate alla fuga dalla prigionia narrato nel Critone. In quanto la legge ingiusta è, finché non sia abrogata, volontà di quello Stato, che è immanente nel cittadino, la sua ingiustizia non è tutta ingiustizia, anzi può dirsi una giustizia in fieri, la quale a poco a poco maturerà fino all’abrogazione della legge stessa (p. 102).
L’intreccio tra diritto e morale è intimo e non traducibile secondo una logica strumentale mezzo-fine, né cronologica antecedente-conseguente, né quantitativa parte-tutto. È un intreccio dialettico che rende comprensibile il diritto nella sua essenza, solo se interpretato come momento di quel processo di realizzazione dello spirito che ha valore morale.
Come è facile comprendere, Gentile non affida all’interpretazione giuridica alcuna funzione creativa del diritto e del giusto, e questo non per omaggio al primato del diritto positivo, ma per il convincimento che la realtà di ciò che è giusto non può che rimandare allo spirito in atto. Colui che è chiamato a interpretare la norma generale deve dunque provare devozione per la legge e tendere ad applicarla nella concretezza delle situazioni, riducendo lo scarto tra generale e particolare. Mai egli deve indugiare – caustica la nota di dissenso con Croce – in quella pretesa «libera creatività del diritto» che «gli si è voluta di recente attribuire a sproposito» (p. 101).
Gentile lega infine il concetto di diritto al concetto di Stato (p. 110; cfr. anche GS, p. 58), sottratto però alle definizioni del contrattualismo e del liberalismo individualistico. Da queste anguste prospettive occorre riscattarsi, cogliendo la sostanza etica che inerisce allo Stato: condizione di possibilità di attuazione della libertà, non opposizione a essa; come Gentile non mancherà di ribadire nella voce Fascismo. Dottrina dell’Enciclopedia Italiana (14° vol., 1931, p. 847) firmata da Benito Mussolini.
Lo Stato gentiliano costituisce una società politica ove la sovranità conferisce unità agli individui associati, sottoponendoli a una comune legislazione che opera attraverso una pluralità di leggi particolari. Tale autorità implica un’autorevolezza che rinvia a un duplice riconoscimento. Il primo consiste nel riconoscimento della validità della legge delle leggi: «la legge di osservare le leggi (fare il proprio dovere)» (FFD, p. 79); il secondo riguarda il riconoscimento dell’autorità da parte degli individui che a essa sono chiamati a sottostare; mentre «vane logomachie» (p. 77) sono i tentativi dei filosofi di fondare l’autorità su volontà trascendenti. Questa corrispondenza tra diritto e Stato rimanda a quella tra il diritto e quella peculiare forma dello Stato che consente di superare l’individualismo liberale dell’economia, lo Stato corporativo. La concretizzazione migliore del diritto diviene quella che conferisce al diritto il «carattere corporativo»: «un riflesso del carattere più schiettamente morale e politico dello Stato» (p. 132).
È questa, quella corporativa, la forma che meglio corrisponde alla volontà di un popolo che si sente una nazione, che porta alla celebrazione dello Stato in quanto volere in atto, alla sua piena coincidenza con la dimensione politica (p. 128). Ma è anche, questa, una torsione alla quale Gentile sottopone la concezione hegeliana dello Stato etico, abbandonando ogni residua riserva nei confronti del coinvolgimento con il regime fascista. Senza reticenze, esprimerà il proprio duro giudizio Croce, un liberale per tradizione, temperamento e, con gli anni, sempre più per convinzione. Nelle pagine della «Critica» confesserà di non capacitarsi delle tinte assunte dal gentiliano «concetto dello Stato come concreta realtà etica» (recensione a F. Fiorentino, Lo Stato moderno e le polemiche liberali, 1924, «La Critica», 1925, 23, p. 60).
La prossimità all’indirizzo attualistico esibita dal clima culturale in Italia non può non indurre Croce a scorgere proprio nell’ex amico una delle spinte intellettuali più trainanti, uno dei responsabili di tanta progressiva degenerazione. In una sferzante recensione egli smaschera l’asservimento della filosofia gentiliana a «interessi superiori», tali da «a volta a volta imporre doveri al pensiero» (Conversazioni critiche, serie IV, 1932, p. 319), peccato mortale per ogni intellettuale e punto di non ritorno dell’«idealismo attuale» (Osservando il corso delle cose, «La Critica», 1930, 28, p. 320). Il significato ultimo che politica, Stato e diritto giungono ad avere in Gentile è ai suoi occhi tutto strumentale, quello di un «torbido» atto (A proposito di “Filosofia dell’arte”, «La Critica», 1931, 29, p. 159) che per il suo irrazionalismo si rivolge «alla eccitatissima cieca volontà di vivere che agita gran parte della società moderna» (recensione a F. Fiorentino, cit., p. 318), esaltandone le più retrive pulsioni.
Consumati sono adesso per Croce il tradimento del passato ruolo di «semplice e ingenuo studioso» (Conversazioni critiche, serie IV, cit., p. 320) e la trasformazione definitiva in un mero «suo omonimo» del compagno di lavoro di un tempo (Osservando, cit., p. 160).
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