diritti dei minori
Le leggi sulla protezione e la partecipazione dei giovani nella società
I diritti dei minori sono stati riconosciuti solennemente nel 1989 dall'ONU con l'approvazione della Convenzione sui diritti dell'infanzia. Il punto di partenza è stato, nel 18° secolo, la dottrina dei diritti dell'uomo. Si è pensato che attribuire ai minori diritti legali (di protezione, assistenza, partecipazione) fosse il modo migliore per tutelarli, favorirne il benessere, promuoverne la partecipazione e la cittadinanza sociale. Si tratta di obiettivi diversi, a volte difficili da conciliare nella pratica. Una legge non sempre è uno strumento efficace per cambiare davvero la realtà. Tuttavia, l'idea dei diritti si è dimostrata utile per dare rilevanza alle esigenze dei minori nelle società
La Convenzione sui diritti dell'infanzia, approvata dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel 1989 e poi sottoscritta da quasi tutti i paesi del mondo (dall'Italia nel 1991), riguarda i diritti di "ogni essere umano al di sotto del 18° anno di età". È un trattato internazionale con valore di legge e contiene una serie molto ampia, articolata e dettagliata di diritti che riguardano la protezione, l'assistenza e la partecipazione. Possono essere riassunti in diritti generali (vita, libertà di espressione, pensiero, religione, informazione e riservatezza); diritti che riguardano la propria condizione (acquisire una nazionalità, conservare l'identità, stare con i genitori e la famiglia, essere a loro riuniti in caso di separazione forzata, a meno che non sia preferibile una soluzione diversa); diritti che richiedono misure protettive (tutela dallo sfruttamento economico e sessuale, e da altre forme di negligenza e abuso); diritti che riguardano lo sviluppo e il benessere (adeguato livello di vita, salute, sicurezza sociale, istruzione e tempo libero); diritti per minori che si trovano in particolari circostanze (rifugiati, orfani) o con bisogni speciali.
Il linguaggio dei diritti è usato anche per obblighi che ricadono su Stato, servizi e strutture per l'infanzia (scuola, servizio sociale) o su singoli adulti (genitori, tutori). I sostenitori della Convenzione hanno pensato che dotare bambini e adolescenti di diritti li poteva mettere in condizione di soddisfare meglio i propri bisogni, difendersi da pericoli e minacce, promuovere la realizzazione dei loro desideri. Per la prima volta nella storia si riconoscono i minori come esseri umani completi, capaci di partecipare pienamente alla società.
Nella definizione dei diritti dei minori si riscontra un'evoluzione, per certi versi uguale e per altri diversa rispetto alla storia dei diritti umani in generale. Ai bambini e agli adolescenti sono stati riconosciuti i diritti economico-sociali, parte dei diritti civili fondamentali (diritto alla vita), ma non quelli politici (cioè il diritto di voto). Inoltre i loro diritti sono stati per lo più espressi sotto forma di protezione. Solo in anni recenti è stata proposta l'estensione dei diritti civili e l'introduzione di diritti di partecipazione sociale.
Tradizionalmente, i minori, e non solo i più giovani, erano ritenuti incapaci di sostenere i propri diritti, perché 'privi di parola': infanzia deriva infatti dal latino infans, parola composta da in- "non" e fans "parlante", cioè "colui che non sa parlare", e bambino evoca il balbettio del neonato che articola le prime sillabe. L'autorità dei genitori e soprattutto la potestà paterna erano quasi indiscutibili. Ma poi i bambini hanno cominciato a essere tutelati non in quanto 'proprietà' dei genitori, ma in modo autonomo, il che implicava anche l'impegno a proteggerli, se necessario, dai loro stessi familiari (in caso di maltrattamenti, abbandono, abusi).
Le prime carte internazionali sui diritti dei minori hanno messo in grande risalto l'idea di una particolare protezione, da offrire in considerazione della debolezza di bambini e adolescenti rispetto al mondo degli adulti che li circonda. Nel 1924 la Dichiarazione di Ginevra riassumeva la tutela giuridica del minore facendo riferimento a cinque 'principi', corrispondenti ad altrettanti diritti: il diritto a sviluppare il fisico e la mente, a essere nutrito, curato, riportato a una vita normale in caso di difficoltà, aiutato se orfano.
L'importante Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948) dell'ONU riguarda solo marginalmente i minori. Ma nel 1959 viene approvata una Dichiarazione dei diritti del fanciullo, dove compare il riferimento ai diritti del minore a realizzare le proprie potenzialità, tra cui per la prima volta i diritti all'educazione e all'istruzione. È anche introdotto un principio, quello del "superiore interesse del fanciullo", che deve fare da guida per le decisioni e i comportamenti di "coloro che hanno la responsabilità della sua educazione e del suo orientamento".
Nella Dichiarazione continua a prevalere un'idea 'protettiva' del minore, una prospettiva che verrà criticata come 'paternalistica', rivolta non tanto ai minori quanto agli adulti di volta in volta responsabili: genitori, familiari, insegnanti, assistenti sociali, medici e così via. Questo atteggiamento era causato non da disinteresse nei confronti del benessere dei minori, ma dal fatto che si pensava che questa fosse la via migliore per conseguirlo. Resta il fatto che in un mondo che riconosceva sfere sempre più articolate di diritti umani, i diritti del minore restavano non trattati.
I bisogni e le necessità dei minori (come sono visti dagli adulti) sono stati tradotti e ricostituiti in diritti su base legale con la Convenzione del 1989. Si è trattato di una rivoluzione del modo in cui le leggi guardano ai più giovani. Per capire il senso di questa affermazione, si pensi alla tipica definizione usata in campo giuridico per descrivere bambini e adolescenti: questi vengono chiamati minori, minorenni, parole che esprimono un'idea di subordinazione, incompletezza, immaturità e che implicano minori competenze e mancanza di razionalità adeguata. Queste concezioni sono diverse dalle tesi, più positive, che troviamo esposte nella Convenzione.
L'applicazione effettiva non è stata immediata e diretta, anche perché è tutt'altro che facile rendere concreti principi generali e astratti. Ma i sostenitori della Convenzione possono dirsi ugualmente soddisfatti. Essa infatti ha un forte valore simbolico e, almeno da questo punto di vista, rappresenta davvero un punto di svolta: si vogliono dare diritti a chi non ne aveva e potere a chi ne era privo, affinché ciascuno possa realizzare i propri interessi e soddisfare i propri bisogni.
Nei paesi del mondo occidentale, la cui influenza è decisiva nella definizione di documenti internazionali come appunto questa Convenzione, da tempo si è affermata l'idea che dotare di diritti soggetti appartenenti a categorie sociali sfavorite sia la maniera migliore per proteggerli da ingiustizie e sofferenze.
Il fatto è che non solo nella Convenzione, ma nella società, sono presenti due principi apparentemente contraddittori: il primo garantisce autonomia a bambini e adolescenti, il secondo cerca di tutelarli e di accrescerne il benessere attraverso misure di protezione realizzate da adulti. Si tratta di due punti di vista diversi, entrambi validi, attraverso cui guardare ai minori. La loro stessa diversità si adatta bene alla complicata e ambivalente rappresentazione dell'infanzia propria della nostra epoca.
I diritti con i quali la Convenzione ONU del 1989 cerca di rispondere alle richieste sociali di sostegno dei minori sono riassumibili nella formula delle '3 P', cioè delle iniziali dei termini inglesi protection, provision, participation ("protezione, assistenza, partecipazione"). La prospettiva più innovativa è certamente quella della partecipazione. In questo ambito, infatti, emerge l'obiettivo di dare ai minori la possibilità di essere presenti nel sociale come soggetti capaci di far conoscere agli adulti la propria interpretazione del mondo, di esprimersi liberamente e di ottenere rispetto per le proprie opinioni.
Passando all'applicazione pratica di queste idee, per esempio a proposito della partecipazione giuridica, sorgono però problemi: come individuare nell'amplissimo arco di età tra 0 e 18 anni il momento in cui ritenere il minore capace di intervenire attivamente nelle decisioni che lo riguardano? Età e maturità sono i parametri che bisognerebbe utilizzare per identificare il minore a cui concedere il diritto di essere ascoltato in giudizio: ma sono parametri generici, che lasciano molta discrezionalità.
Più ampio è il quadro delle possibilità a proposito della partecipazione sociale. In questo campo la Convenzione si ispira alla nuova cultura dell'infanzia e dell'adolescenza, volta a favorire la crescita dei minori in tale direzione, nella convinzione che la comunità sociale possa trarre un arricchimento dall'apporto dei non adulti.
È in questo senso che si parla di cittadinanza dei minori. Tuttavia, applicare a bambini e adolescenti il concetto di cittadinanza appare ancora improprio: sul piano legale, infatti, cittadinanza significa piena partecipazione politica alla vita della comunità, mentre diritti e doveri politici restano riservati agli adulti. L'idea dei diritti di cittadinanza dei minori resta quindi ancora prevalentemente una 'parola d'ordine' al fine di sostenere l'obiettivo di una democrazia partecipativa aperta a tutti.
Molti si sono chiesti se puntare sul tema dei diritti sia la strategia giusta per assicurare il benessere dei minori. Certi diritti sembrano in contrasto tra loro: da un lato si proclama l'indipendenza del minore, dall'altro si stabilisce che deve essere protetto, anche da sé stesso (per esempio nel caso di scelte che secondo gli adulti potrebbero rivelarsi pericolose). Proclamare diritti è molto facile, mentre applicarli è difficilissimo.
È stato osservato che la strategia dei diritti spinge a fare sempre più leggi, con il rischio di mettere sotto controllo tutti i rapporti familiari e sociali riguardanti il minore. Non sarebbe, allora, meglio continuare come prima, e parlare di doveri degli adulti più che di diritti dei minori?
Nelle società contemporanee spesso è difficile mettersi d'accordo sui valori, su ciò che è giusto o sbagliato. Un codice morale universale non è oggi una proposta credibile, se mai lo è stata in passato. La cura dell'interesse del minore può condurre a valutazioni e comportamenti molto differenti. Pensiamo alle divergenze sulla libertà di opinione (ci sono individui, gruppi e comunità niente affatto disposti a concederla nemmeno agli adulti!), o sul dovere di obbedienza nei confronti degli adulti (in molte culture sono normali i matrimoni combinati dai genitori). È quindi possibile che non ci si trovi d'accordo sulle pratiche da classificare come valide, normali, sane, e perciò legittime, e quelle che infrangono principi fondamentali. Dobbiamo accettare questa situazione di diversità dei valori, non considerandola un male, bensì una ricchezza della nostra società aperta.
Negli ultimi anni sempre più spesso si invoca l'intervento della legge per sedare le preoccupazioni, in continua crescita, relative alla situazione dei minori. Sono ansie che in certi momenti sembrano tramutarsi in una vera angoscia per la sorte di bambini e adolescenti, percepiti come una specie minacciata in un mondo di adulti che appare indifferente o addirittura impegnato a compiere azioni malvagie, di cui direttamente o indirettamente i minori sarebbero le vittime.
Nelle società occidentali, e quindi in Italia, ha finito per prevalere un'immagine di infanzia violata, negata, maltrattata, abusata, sofferente, perciò bisognosa di protezione e di tutela. Si tratta di una visione parziale, esagerata e per molti aspetti sbagliata, perché in passato la condizione dei minori era certamente peggiore dal punto di vista materiale e, probabilmente, anche morale. Non esistevano i mezzi e le conoscenze di cui oggi disponiamo, e spesso non si era neppure consapevoli dei problemi. Nella nostra epoca è diffusa una maggiore sensibilità (cosa ovviamente positiva), a patto però di non esagerare e trasformare una giusta attenzione in una vera e propria ossessione.
L'idea dei diritti dell'uomo ha una storia. Nel corso del tempo ne è stato esteso il campo di applicazione (fino a includere i bambini o anche gli animali) e lo stesso concetto si è arricchito. Mentre inizialmente (nel 17° e 18° secolo) per diritti si intendevano essenzialmente quelli civili ‒ vale a dire le libertà di coscienza, espressione, religione, associazione, proprietà ‒ successivamente (19° secolo) hanno acquistato sempre maggiore importanza i diritti politici, consistenti nella partecipazione, per esempio col voto, alle decisioni che impegnano una comunità.
Più tardi, nel corso del 20° secolo, sono emersi i diritti economico-sociali: è stato osservato che, per godere davvero dei diritti civili e politici, era necessario che fossero garantiti beni essenziali, quali nutrimento, alloggio, salute, istruzione. Il riconoscimento del diritto a godere di tali beni ha spinto, più in Europa che negli Stati Uniti, a estendere l'intervento statale, qualche volta a spese di alcuni diritti civili (per esempio, con limitazioni del diritto di proprietà).
Ma il movimento dei diritti non si è fermato qui. Mentre i primi tre tipi di diritti (civili, politici e sociali) sono stati legati alla prospettiva di realizzare uno stato di uguaglianza, nell'ultima parte del 20° secolo si è sviluppata una visione opposta, orientata al riconoscimento delle diversità. Sono state così avanzate nuove richieste di diritti, riferite non più a singoli individui, ma a gruppi o categorie sociali ritenuti meritevoli di una speciale considerazione proprio perché diversi per sesso, stato civile, religione, lingua, orientamento sessuale, stato fisico o psichico, età.
Dopo tanto parlare di diritti, forse a qualcuno nasce una curiosità: ma di doveri e di responsabilità non si parla mai? In effetti, mentre nei secoli passati ai minori si parlava moltissimo di doveri e poco o niente di diritti, oggi pare che stia succedendo l'opposto. Nella tabella sono riportati i risultati di un test fatto su Internet nel marzo 2005 usando un motore di ricerca.
Nella colonna a destra è riportato quante volte si incontra la parola diritti per ogni occorrenza della parola doveri. La differenza è enorme: nei dati in italiano, dove il divario è maggiore, per una volta che si parla di doveri del bambino, si parla dei suoi diritti 694 volte.
Eppure, i diritti non possono essere separati dalle nostre responsabilità e dai nostri doveri verso gli altri. La Convenzione delle Nazioni Unite esprime il punto di vista dei diritti, ma non possiamo dimenticare che esiste anche la prospettiva dei doveri. Tutte le relazioni e tutte le comunità, i gruppi e le istituzioni funzionano se ciascuno si comporta in modo responsabile verso gli altri e collabora con il gruppo cui appartiene. Sia che si tratti di relazioni di affetto, di amicizia, o amore, sia che parliamo di una scuola, una squadra sportiva, un'azienda o uno Stato, sempre abbiamo dei doveri verso gli altri e verso il gruppo cui apparteniamo (e viceversa). In un certo senso, possiamo dire che i doveri sono l'altra faccia dei diritti.