direttiva europea
Atto adottato dalle istituzioni europee, avente per destinatari unicamente gli Stati membri, a differenza dei regolamenti (➔ anche regolamento europeo), i quali hanno portata generale. Secondo l’art. 288 del TFUE (2008; ➔ Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la comunità Europea) la d. e. «vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi».
La d. necessita dell’intervento normativo delle autorità nazionali al fine di dispiegare i suoi effetti all’interno dei Paesi membri ed esprime, dunque, un esempio di ripartizione del potere fra la UE e gli Stati, ispirato al principio di sussidiarietà verticale (➔ sussidiarietà, principio di ➔). Le d. possono essere rivolte a tutti i Paesi membri, oppure solamente ad alcuni di essi. Tale distinzione rileva in merito ai requisiti di pubblicità, in quanto, secondo l’art. 297 del TFUE, le prime entrano in vigore il 20° giorno successivo alla loro pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della UE oppure alla data stabilita nella d. stessa, mentre le seconde entrano in vigore solamente al momento della notificazione. In una dichiarazione allegata all’Atto Unico Europeo (➔), la Commissione si era impegnata a ricorrere allo strumento della d. nei casi in cui l’armonizzazione necessaria per la creazione del mercato interno comportasse una modifica delle disposizioni interne degli Stati membri.
Si è fatto ricorso alle d. cosiddette ‘nuovo approccio’ nel quadro della liberalizzazione del mercato interno e, soprattutto all’inizio, nell’ambito della libera circolazione delle merci e poi più recentemente dei servizi (per es., d. sui servizi). Esse sono volte a favorire l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle disposizioni nazionali, secondo quanto stabilito dalla Corte di giustizia nella sentenza ‘Cassis de Dijon’ (➔ mutuo riconoscimento, principio del).
Nonostante il testo del TFUE indichi che la d. dovrebbe concedere agli Stati membri un margine di discrezionalità nelle modalità di attuazione, sovente la prassi va in direzione opposta. Spesso, infatti, il contenuto delle d. è talmente dettagliato da comprimere di fatto la libertà dei Paesi rispetto alla scelta delle modalità di attuazione. Tale prassi è riconosciuta come legittima dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, nei casi in cui una d. dettagliata intervenga nella regolazione di un settore dove sia necessario giungere a una rigorosa identità fra le disposizioni nazionali (‘sentenza Enka’ 1977). Per quanto riguarda la sua applicazione, la d. prevede un termine entro il quale il Paese membro è tenuto a porre in essere tutte le misure necessarie per adempiere agli obblighi che questa pone. Gli Stati sono liberi di determinare se dare attuazione a una d. mediante provvedimenti adottati dalle autorità regionali o locali, ma semplici prassi amministrative, come per es. le circolari, per loro natura suscettibili di essere modificate a discrezione dell’amministrazione, non possono essere considerate come un valido adempimento dell’obbligo derivante dalla direttiva. La Corte di giustizia ha riconosciuto, a partire dalla ‘sentenza van Duyn’ (1974), la possibilità di ricavare effetti diretti dalle d. in relazione all’inadempimento da parte dei Paesi membri. Tuttavia, come risulta chiaramente anche da sentenze successive, le d. sono in grado di produrre effetti diretti solo verticali e non orizzontali. In altre parole, le disposizioni di una d. non attuata possono essere fatte valere dai privati solo nei confronti degli Stati inadempienti e non tra privati.