DIOTISALVI, Diotisalvi
Nacque a Firenze il 3 giugno 1403 da Nerone di Nigi e da Leonarda di Lorenzo Cresci.
La famiglia, già ricca e potente fino dal sec. XIII, accrebbe la sua influenza in seguito all'appoggio incondizionato offerto nel 1434 da Nerone di Nigi a Cosimo de' Medici, ritornato in patria dall'esilio. Sembra anche che Nerone si fosse adoperato personalmente a convincere Rinaldo Albizzi e i suoi a deporre le armi con cui avevano cercato di opporsi a tale ritorno. Per questo motivo e per le sue notevolissime doti personali egli divenne uno dei pilastri del regime cosimiano e fu impiegato in numerosissimi incarichi politici sia in patria sia all'estero.
Il D., cresciuto all'ombra dei Medici, superò ben presto il padre in fama ed influenza politica. In margine agli incarichi pubblici, che lo assorbirono in misura progressivamente maggiore nel periodo 1434-1466, continuò ad esercitare l'attività paterna di lanaiolo e di mercante. Per due volte fu dei Priori e per altrettante fu chiamato alla massima carica della Repubblica fiorentina, quella di gonfaloniere di Giustizia (settembre-ottobre 1449 e maggio-giugno 1454). Fu membro di tutte le Balie create dai Medici fino al 1466, al fine di svuotare di potere le magistrature tradizionali, sovrapponendo loro nuovi organismi decisionali, interamente composti da loro seguaci. Nello stesso periodo il D. rivestì più volte l'incarico di "accoppiatore", con il delicato compito di sottoporre a revisione le liste elettorali. Fece anche parte dei Dieci di balia (o Dieci della guerra), creati nel 1453 per condurre la guerra contro gli Aragonesi di Napoli.
In questo ruolo si recò anche nel Ducato di Milano per invitare Bartolomeo Colleoni ad assumere l'incarico di capitano generale dell'esercito fiorentino. Fu impegnato in numerosissime ambascerie, tutte di grande rilievo politico, acquistando in questo modo dimestichezza con molte corti italiane, tra cui, in modo particolare, quella milanese del duca Francesco Sforza: il D. vi si recò per la prima volta nel 1450, per congratularsi con lui, a nome della Repubblica, per aver assicurato alla sua discendenza il dominio sullo Stato milanese; vi tornò un anno dopo per negoziare un'alleanza decennale tra i due Stati; nel 1453 ritornò a Milano in compagnia di Otto Niccolini; vi ritornò infine nel 1461, durante la malattia dello Sforza, per sorvegliare la situazione. Durante questi periodi di permanenza a Milano egli instaurò rapporti personali con lo Sforza, con il quale rimase in corrispondenza anche al di fuori degli incarichi diplomatici. Per almeno due volte il D. fu inviato come ambasciatore a Venezia: nel 1444 e poi nel 1446-48.
Nel 1450 si recò, sempre come ambasciatore, presso il re di Sicilia, del quale seppe guadagnarsi la stima e l'ammirazione. Nel 1455 il D. fu uno degli emissari fiorentini a trattare una lega con lo stesso re di Sicilia ed il papa.
Nel 1452 aveva fatto parte di un comitato incaricato di ricevere con tutti gli onori l'irnperatore Federico III d'Asburgo di passaggio a Firenze. Nel disbrigo di questi, come di altri incarichi di minor risonanza ma di altrettanto impegno e difficoltà, il D. aveva dato costante prova di grande abilità e prudenza, per cui si era guadagnato la stima incondizionata di Cosimo de' Medici, tanto che questi ne ricercava il consiglio anche al di fuori delle questioni politiche. Si narra anche che il Medici, sentendosi prossimo alla fine, avesse chiesto al D. di rimanere a fianco del figlio Piero, per assisterlo col consiglio e l'esperienza politica. Questo fatto ha indotto alcuni storici ad interpretare la successiva azione politica del D. come un vero e proprio tradimento: in realtà egli aveva già cominciato a prendere le distanze dal sistema mediceo di governo prima ancora della morte di Cosimo. Di questa divergenza la manifestazione più palese si era avuta nel 1454, durante il secondo gonfalonierato del D., quando egli aveva avuto un ruolo determinante nel provocare lo scioglimento della Balia creata nel 1452 e poi prorogata per cinque anni e nel determinare così il ritorno, sia pure temporaneo, ai metodi tradizionali di governo; ciò aveva guadagnato al D. il favore popolare. Il 5 sett. 1458, poi, in una lettera a Francesco Sforza, il D. lamentava che al popolo fiorentino fosse lasciata poca libertà. Questo dissenso non era sfuggito agli osservatori stranieri, tanto che l'oratore milanese giunse a definire il D. come il maggiore e più ambizioso degli avversari dei Medici.
Alla morte di Cosimo, avvenuta il 1° ag. 1464, i dissenzienti si moltiplicarono, anche per i concomitanti effetti di una crisi economica, ed in breve si giunse ad una vera e propria spaccatura nel ceto dirigente fiorentino: da un lato i fedeli a Piero de' Medici, dall'altro coloro che, per tutta una gamma di motivazioni che andavano dalla sincera aspirazione ad un governo più libero e democratico fino all'arrivismo e all'ambizione personale, divennero suoi oppositori. Gli antimedicei, isolati, tenuti a freno e talvolta strumentalizzati dall'abile politica di Cosimo, alla morte di questo si organizzarono in un gruppo che teneva le sue riunioni in palazzo dei Pitti, ai piedi delle colline che chiudono a sud la città di Firenze e per questo motivo fu definito dagli storici contemporanei e posteriori la "fazione del poggio". Questo gruppo, che aveva. il proprio capo riconosciuto in Luca Pitti e di cui il D. era uno dei membri più influenti, se era unito nella polemica antimedicea, non raggiunse mai una grande compattezza nell'azione politica: lo si vide soprattutto durante il gonfalonierato di Niccolò Soderini, anch'egli esponente del "poggio". Sarebbe stato logico attendersi che i suoi amici e compagni di fazione si impegnassero a fondo per l'approvazione e l'attuazione dei progetti di riforme istituzionali da lui formulati; invece la maggior parte di loro, tra cui il D., non operarono affatto in questo senso, forse per il segreto timore che tali riforme nuocessero al loro ceto sociale. e pertanto lasciarono che le proposte soderiniane venissero accantonate.
Il periodo 1465-66 fu uno dei più agitati nella vita politica fiorentina e dei dibattiti e delle diatribe di quegli anni troviamo fedele resoconto nei verbali delle Pratiche, riunite appunto per discutere i vari progetti di riforma delle istituzioni presentati, per la maggior Parte, dai poggeschi. In questo periodo il D. si batté per il ritorno alle elezioni per sorteggio e per l'abolizione delle "borse aperte", sistema che garantiva ai Medici, mediante l'assegnazione a propri fedeli dei posti-chiave dello Stato, l'incontrastato dominio sulla vita politica fiorentina. La sua battaglia fu coronata dal successo e nel settembre 1465 si ritornò ai sistemi tradizionali di elezione. La cittadinanza ne fu soddisfatta, ma il Medici, temendo che questo cambiamento venisse interpretato nel senso di un offuscamento del suo potere, fornì un'interpretazione diversa dei fatti, secondo cui era stato lui stesso a volere il ritorno alle "borse" chiuse per impedire che i suoi avversari, istigati dal D., eleggessero al gonfalonierato il loro capo, Luca Pitti. Una volta tornati alle "borse" chiuse, c'era però il problema di rinnovare le liste elettorali, poiché da quelle esistenti, formate nel 1458, erano state espunte tutte le persone non completamente fidate. Nella Pratica riunita a questo scopo il D. appoggiò la proposta del Soderini di procedere ad un nuovo squittinio, in cui comprendere tutti coloro che fossero stati già compresi in almeno uno degli squittini precedenti, dal 1434 in poi. In questo modo si volevano annullare gli effetti delle epurazioni medicee delle liste elettorali, cui si era ricorsi in misura massiccia, soprattutto dopo il 1458.
Tale proposta dovette però, a causa della consistente opposizione, essere accantonata, al pari di quella tendente a privare la Signoria e gli Otto di guardia del potere di emettere sentenze in giudizi penali, al di fuori dei tribunali ordinari, di cui si era fatto promotore un altro poggesco, Angelo Acciaiuoli. La morte di Francesco Sforza, avvenuta l'8 marzo 1466, impresse una svolta decisiva agli avvenimenti: essa privò Piero de' Medici del suo più potente alleato e rese più audace l'opposizione interna, la quale intraprese subito una fiera battaglia per impedire che la richiesta di un prestito di 60.000 fiorini avanzata dagli eredi dello Sforza venisse accolta. Nel luglio successivo il D. e gli altri poggeschi cercarono di assestare un colpo decisivo al regime mediceo reclamando l'abolizione del Consiglio dei cento.
Questo Consiglio, creato nel 1458 e riformato poco tempo dopo per opera, tra gli altri, dello stesso D., rappresentava la pietra angolare del regime, avendo la prerogativa di esaminare, prima dell'invio ai Consigli tradizionali per l'approvazione, ogni provvedimento in materia di elezioni, finanze e tributi, assoldamento di truppe, ed era composto, com'è intuibile, di cento membri selezionati tra i più fedeli seguaci dei Medici. Questo tentativo scatenò la crisi finale. Degli avvenimenti che seguirono esistono due versioni contrastanti, in cui il punto controverso è rappresentato dal dubbio se i poggeschi avessero un disegno preciso di sovvertire il regime mediceo ed impadronirsi del potere con l'aiuto di Borso d'Este e di altri alleati o se invece cercassero degli alleati esterni solo quando si sentirono fisicamente minacciati dai preparativi militari di Piero. La versione ufficiale dei fatti fu che essi già da molto tempo tramassero con i nemici di Firenze, anche se di ciò non si poté trovare alcuna prova. Il fatto è che già da molto tempo truppe milanesi erano acquartierate presso Imola, pronte a penetrare nel territorio fiorentino a richiesta del Medici, quando, il 28 ag. 1466, fu eletta una Signoria del tutto favorevole a Piero; il giorno successivo ebbe luogo la riconciliazione di quest'ultimo con Luca Pitti. Tra la costernazione degli antichi compagni, fu proprio il Pitti a chiedere nella Pratica all'uopo convocata di radunare il popolo a "general parlamento" per far approvare la creazione di una Balia con poteri speciali, allo scopo di decidere anche la sorte degli oppositori del regime.
L'11 sett. 1466 tutti i membri della fazione del poggio, ad eccezione di Luca Pitti, furono riconosciuti colpevoli di tradimento e condannati all'interdizione dai pubblici uffici per venti anni e al confino per lo stesso periodo in diversi luoghi d'Italia. Al D., che, al pari di tutti gli altri. escluso suo fratello Francesco, il cui interrogatorio costituisce la fonte principale per questi avvenimenti, si era già messo in salvo con la fuga, fu assegnata la Sicilia. In seguito, grazie all'interessamento di persone amiche rimaste in Firenze, a lui ed ai suoi due fratelli, come lui inquisiti e condannati, fu assegnata come residenza obbligata la città di Novara. Il D. tuttavia non si recò mai in alcuno dei due luoghi, avendo trovato rifugio a Malpaga, nel Bresciano, presso il famoso condottiero Bartolomeo Colleoni, ragione per cui fu dichiarato ribelle dalle' competenti magistrature fiorentine e, come tale, colpito dal bando e confisca dei beni. Ben presto il rifugio del D. divenne centro di attrazione degli esuli fiorentini, allontanati dalla città a partire dal 1434.
Essi, divenuti un gruppo molto numeroso e potente, cominciarono ad esercitare pressioni sulla Signoria veneziana affinché si facesse promotrice di iniziative volte ad estromettere i Medici dal governo di Firenze. Dopo reiterati sforzi, riuscirono nel loro intento, tanto che la Repubblica di Venezia, con l'aiuto di Borso d'Este, mise insieme un esercito che, al comando del Colleoni, mosse contro Firenze. Avvisato di questi preparativi e di chi ne fossero stati i principali ispiratori, il Medici ordinò, per rappresaglia, l'arresto e la carcerazione della moglie del D., Margherita Ginori, da lui sposata il 24 apr. 1429, di tre dei suoi fratelli rimasti a Firenze e di un nipote. Chiese poi aiuti militari ai suoi tradizionali alleati: Milano, Napoli e Urbino. La guerra tra i due schieramenti iniziò nel maggio 1467, ma prese subito un andamento lento ed indeciso e si concluse, in pratica, senza vincitori né vinti; ciò spinse il Medici a cercare un accordo con gli Stati avversari ed in breve esso fu raggiunto a scapito dei fuorusciti che, incapaci di sostenere da soli le spese di guerra, dovettero abbandonare l'impresa.
Il D. si rifugiò a Ferrara, alla corte di Borso d'Este, da dove continuò incessantemente a promuovere e favorire iniziative antimedicee. Intanto a Firenze era stato rinnovato contro di lui il bando, con confisca dei beni, e istituito un premio di notevole entità per chi lo catturasse vivo o morto.
Nel periodo di massima tensione tra papa Sisto IV ed il nuovo signore di Firenze, Lorenzo de' Medici, il D. si trasferì a Roma, divenuta centro di complotti antimedicei, nella speranza di favorire eventuali iniziative militari contro Firenze. A Roma rimase fino alla morte, avvenuta il 28 luglio 1482.
Fu sepolto nella chiesa romana di S.Maria sopra Minerva e sul luogo della sepoltura i familiari fecero apporre una lapide dalla cui iscrizione risulterebbe come anno di nascita il 1401, anno che corrisponde anche all'età denunciata nella pprtata al Catasto del 1427 (portata di Nerone di Nigi Diotisalvi), che deve considerarsi errata poiché i Libri delle età, conservati nel fondo Tratte dell'Archivio di Stato di Firenze (documenti, si noti, di natura pubblica), portano invece il 1403.
Oltre che come politico, il D. è ricordato anche come uomo di lettere. Sia il Negri sia il Cinelli affermano che egli fu autore di molte composizioni letterarie ma che della sua produzione gli sarebbe sopravvissuta soltanto una epistola diretta a Zanobi Guasconi e poi confluita nella biblioteca del fiorentino Niccolò Gaddi. Il D., comunque, è autore di un Libro di ricordi, oggi conservato presso l'Archivio di Stato di Firenze, Manoscritti, n. 85, che riguarda il periodo 1429-1439 e che fornisce molte notizie sulla sua formazione culturale e sulla sua biblioteca.
La famiglia, a causa delie numerose confische di beni e dell'esilio inflitto ad alcuni dei suoi membri, decadde sia economicamente sia socialmente e non ebbe più alcun ruolo politico, eccettuati i brevi periodi di reggimento popolare succeduti alle due cacciate dei Medici da Firenze, nel 1494 e 1527. Dai primi del 1500 essa aggiunse all'antico cognome quello di Neroni, di solito premesso al primo.
Del D. si conservano un ritratto, opera di Alessio Baldovinetti, nella chiesa fiorentina di S. Trinita, e un busto marmoreo dello scultore Mino da Fiesole, oggi al Louvre.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Tratte, n. 39, c. 130; Ibid., Carte Dei, f. XXXIV, ins. 11; Ibid., Raccolta geneal. Sebregondi, n. 3807; Ibid., Catasto, f. 78, c. 159; Firenze, Bibl. naz., Mss., classe IX, cod. 66: G. Cinelli Calvoli, La Toscana letteraria..., c. 368; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Firenze 1722, p. 149; A. Ademollo, Marietta de' Ricci..., IV, Firenze 1845, p. 2163; A. Municchi, La fazione anti-medicea detta "del Poggio", Firenze 1911, pp. 15, 30, 39, 44, 46, 48 s., 55, 58, 69 s., 73, 75 s., 85 ss., 92, 99, 101, 104; G. Pampaloni, Fermenti di riforme democratiche nella Firenze medicea, in Arch. stor. ital., CXIX (1961), I, pp. 30 ss., 36, 38, 58, 60; N. Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici, Firenze 1971, pp. 27, 40, 115, 136, 152, 161, 172, 173, 175, 178, 182 s., 188 s., 200; L. Ginori Lisci, I palazzi di Firenze, I, Firenze 1972, p. 346.