STROCCHI, Dionigi
STROCCHI, Dionigi. – Nacque a Faenza il 6 gennaio 1762 da Carlo, orefice, e da Elisabetta Strocchi (di un ramo diverso della medesima famiglia).
Compì i primi passi nel locale seminario insieme con il fratello Andrea (1767-1860), che vi rimase per consacrarsi al sacerdozio. Il 5 ottobre 1783, trasferitosi a Roma, avviò la formazione legale ascoltando le lezioni di Vincenzo Bartolucci e strinse rapporti di amicizia con Vincenzo Monti ed Ennio Quirino Visconti. Trascurando la carriera giuridica, forse abbandonata prima del conseguimento della laurea, e nutrendo ammirazione per l’antiquaria latina di Vito Maria Giovinazzi e l’erudizione di Visconti, che lo incoraggiò a proseguire gli studi classici e danteschi, seppe guadagnarsi la stima dell’ambiente cittadino mediante le sue prime traduzioni poetiche, dal latino e dal greco, e con alcuni articoli ospitati dall’Antologia romana o dalle Efemeridi letterarie. Divenuto pastore arcade della Lamonia faentina nel 1782 e godendo, a Roma, della benevolenza del cardinale Giovan Francesco Albani, nel 1790 ricevette la nomina al ruolo di scrittore nella segreteria di lettere latine del Sacro Collegio dei porporati: nello stesso anno mandò alle stampe il volgarizzamento metrico di sette Inni a Venere, dedicandolo a Silvia Curtoni Verza.
La prima campagna d’Italia di Napoleone causò in Strocchi un veloce mutamento politico-culturale. Decise di abbandonare Roma, essendo caduto in sospetto di simpatie giacobine e avendo visto nel dicembre del 1796 «indegnamente» registrato il suo nome «nelle tavolette de’ proscritti» (Lettere edite e inedite..., 1868, I, p. 61). Alla fine di maggio del 1797 prese la via di Faenza, occupata per la seconda volta dai francesi il 2 febbraio e annessa il 19 maggio alla Repubblica Cispadana, compiendo in giugno un breve soggiorno a Firenze (vi discusse con l’Alfieri ‘misogallico’) e ponendosi subito dopo al servizio delle istituzioni faentine nei momenti che assistettero alla formazione della prima Repubblica Cisalpina. Ne ricavò incarichi di prestigio, venendo chiamato dai rettori dell’Emilia alla direzione degli studi con i riminesi Michele Rosa e Aurelio Bertola; fu inoltre scelto, con Francesco Conti, come deputato alle biblioteche delle cessate corporazioni religiose, ma ben presto rinunciò all’incarico, che venne conferito a Giambattista Scardovi, perché l’8 novembre 1797, eletto al Consiglio degli iuniori, Strocchi dovette recarsi a Milano, dove ritrovò l’amicizia di Monti e conobbe Ugo Foscolo. Intanto, scelta quale capoluogo del dipartimento del Lamone, nel novembre del 1797, grazie all’abilità di due suoi deputati al Congresso di Milano, l’ex sacerdote Pietro Severoli e il conte Lodovico Laderchi, Faenza poté vantare il diritto di accogliere un liceo, alla cui creazione si adoperarono, senza effetto, tanto Strocchi quanto Monti.
Nell’aprile del 1798 gli scrisse l’amico Visconti, console della prima Repubblica Romana, offrendogli il tribunato, ma rifiutò: ricevette invece la nomina a commissario del potere esecutivo sui tribunali di Faenza, dove il 28 luglio si trovò a dirimere un caso delicato di sospetta congiura contro la Repubblica, denunciata alla Municipalità dal marchese Guido Corelli. Riparato a Bologna nei mesi della reazione austro-russa, dopo Marengo tornò con entusiasmo alla vita pubblica nella seconda Cisalpina; ai primi di luglio del 1800, con Francesco Naldi, Clemente Caldesi e uno degli amministratori di Bologna, Antonio Gambara, si presentò al generale Sextius-Alexandre-François de Miollis, comandante delle truppe francesi nella pianura emiliana, consegnandogli una lettera di Conti che descriveva lo stato deprecabile di Faenza e ottenendo l’impegno che entro tre giorni il generale di divisione Jean-Charles Monnier vi avrebbe ristabilito la cessata autorità cisalpina (così accadde il 12 luglio). Assunse quindi per circa un anno la carica di commissario straordinario del governo presso i tribunali del dipartimento del Rubicone, che inglobava ormai anche i territori del soppresso dipartimento del Lamone. Subito dopo fu uno dei deputati dei Comizi di Lione nell’inverno 1801-02; qui venne eletto a scrutinio segreto nel comitato dei Trenta, fu designato nel corpo legislativo della nuova Repubblica italiana e posto fra i quindici membri del collegio degli oratori (il 17 agosto e il 4 settembre 1802 pronunciò due discorsi inerenti alla riforma della pubblica istruzione).
Nel marzo del 1799 si era unito in matrimonio con la ventiseienne marchesa Faustina Ceroni Zappi, imolese, da cui nacquero nel corso degli anni nove figli, solo quattro dei quali sopravvissero: Carlo (1802) e la poetessa Ginevra (1804), più tardi Livia (1811, morta tuttavia quindicenne) e Girolamo (1812). Dalla vecchia abitazione di famiglia, in via del Grano, Strocchi si trasferì dal 1807 al 1815, acquistandolo dalla famiglia Morri, in palazzo Biancoli, dove attorno al 1808 fece affrescare dall’amico pittore Felice Giani lo studiolo del piano nobile con soggetti ispirati ai sette inni di Callimaco, alla traduzione dei quali egli si dedicava.
Il 17 marzo 1803 ottenne l’apertura del liceo nella sua città, nel quale dal 1806 al 1809 (nominato due anni prima, nel 1804-05, vi era stato sostituito da Giovanni Giovannardi e Bernardo Montanari) ricoprì la cattedra di «eloquenza latina e italiana» e l’insegnamento della lingua greca «con qualche esercitazione sopra Anacreonte» (Piano delle lezioni, in Archivio di Stato di Milano, Studi parte moderna, 793), divenendo rettore. Su incarico della municipalità, il 26 maggio 1805 fu presente all’incoronazione milanese di Napoleone re d’Italia, mentre, chiamato nel 1807 al Consiglio generale del dipartimento, nell’agosto dell’anno dopo il suo nome fu incluso, senza successo, nella compagine predisposta da Giuseppe Pallavicini, prefetto del Rubicone, per le candidature senatoriali, ma nel medesimo 1808 egli assunse l’ufficio di viceprefetto del distretto di Faenza, risolvendosi in seguito ad abbandonare la cattedra. Nel 1813 accolse la nomina, rimasta inoperante, di direttore del dicastero degli studi del Regno italico.
Mantenne la viceprefettura nei primi momenti della Restaurazione anglo-austriaca a Faenza e nel 1814 scrisse un sonetto Pel ritorno di Pio VII in Roma; dinanzi all’invasione napoletana delle Romagne nella primavera del 1815 volle invece sostenere quell’iniziativa mediante un Proclama per l’indipendenza d’Italia, il 3 aprile, e un Discorso pronunciato alla Guardia civica di Faenza il 6 aprile. Il 31 marzo ricevette da Gioacchino Murat l’incarico di preparare, con Pellegrino Rossi, la costituzione dell’Italia indipendente, ma, occupata Faenza dal generale Adam Albert von Neipperg, cercò riparo nella Repubblica di San Marino, dove si fece prontamente iscrivere nel registro della locale nobiltà: non bastò, tuttavia, perché fu arrestato il 1° maggio dalla missione austriaca sconfinata in territorio sammarinese e tradotto in carcere a Bologna. In seguito al rientro di Pio VII nei suoi Stati il 7 giugno 1815, ai primi di agosto fu liberato per intercessione del cardinale Agostino Rivarola, amico di gioventù, e su ordine del governatore Carlo Giuseppe Steffanini. Si trattenne però a Bologna e fu assiduo del salotto di Teresa Carniani Malvezzi (amica di Monti e ammirata da Giacomo Leopardi), scegliendo da quel momento di consacrarsi al culto delle lettere in maniera meno occasionale, nella cornice della scuola classica romagnola che egli stesso contribuì a definire. Assunse la carica di presidente e direttore dell’Accademia dei Felsinei nel 1819 (il 1° gennaio vi commemorò il defunto amico Visconti, il 16 febbraio 1823 Giulio Perticari), dopo che già si era potuto fregiare, negli anni napoleonici, dei titoli di membro dell’Istituto nazionale e di cavaliere dell’Ordine della corona ferrea; tra i molti ricevuti, avrebbe avuto poi quello di socio corrispondente dell’Accademia della Crusca (20 febbraio 1835).
Nel 1816 videro così la luce a Bologna e a Firenze gli Inni di Callimaco (dopo i primi esperimenti pubblicati nel 1794, nel 1805 e nel 1808), replicati nel 1824 a Parma «co’ tipi bodoniani», inoltre nel 1820 l’«edizione riveduta» dei Versi, che precedette di dieci anni la raccolta delle Poesie e prose italiane e latine; giunsero alle stampe nel 1831, dopo diffusioni limitate, anche le Georgiche e nel 1834 le Buccoliche di Virgilio, mentre le sue osservazioni dantesche vennero in parte riunite da Giovan Battista Fanelli nella Divina commedia opera patria, sacra-morale, storica-politica (1838). Furono raccolti nel 1840, invece, gli Elogi e discorsi accademici; in seguito comparvero le Poesie greche e latine volgarizzate (1843), mentre ebbe diffusione postuma nel 1856 la traduzione completa delle poesie di Ludwig I von Wittelsbach, preceduta, fra il 1833 e il 1846, da sette edizioni parziali.
Nel 1825 fece ritorno alla sua città e venne ammesso al Consiglio generale; il 29 marzo 1828 acquistò palazzo Ferniani dalla contessa Plautilla Nelli. Nel 1829 Pio VIII lo nominò accademico pensionato dell’Istituto di scienze e lettere a Bologna. Nel febbraio del 1831 non rimase indifferente alla rivoluzione menottiana e negoziò con il governatore pontificio la nascita di una commissione provvisoria a Faenza. La posizione defilata assunta in quei momenti e la sua avvedutezza politica gli valsero il credito sufficiente per vedersi conferire da Gregorio XVI nel 1831 l’ufficio di consultore nella legazione di Ravenna, che tenne fino al 1837, quando ricevette l’incarico di professore di eloquenza presso il Collegio dei nobili nella medesima città (1837-41). Tornò a Faenza nel 1843, ormai ottantenne. Allorché fu eletto Pio IX e l’amnistia del 16 luglio 1846 mandò libero il figlio Girolamo (che poté tornare dal volontario esilio a Lucca e a Viareggio), si rese sostenitore delle iniziative di riforma avviate dal papa, consacrandogli, fra l’altro, un lungo Inno.
Nel 1847 fu nominato all’Alto Consiglio, ma preferì non raggiungere la capitale per l’età ormai avanzata. Il 1° novembre 1848 ebbe la funzione di presidente del circolo popolare di Faenza, da dove fece udire la sua voce propugnando la necessità che la gioventù si disponesse militarmente al riscatto nazionale, mentre nel febbraio del 1849 aderì alla seconda Repubblica Romana, firmando invano il 30 aprile un appello al generale Nicolas-Charles-Victor Oudinot perché la Francia riconoscesse il nuovo Stato.
Si spense la mattina del 15 aprile 1850, presente il fratello Andrea, «munito di tutti i sacramenti e in cognizione piena» (Archivio di Stato di Ravenna. Sezione di Faenza, Acquisti e doni, Carte Strocchi); fu sepolto nella cattedrale cittadina.
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