Dionigi l'Areopagita (Pseudo)
Neoplatonico greco, che nelle sue opere s'identifica al discepolo di s. Paolo convertito sull'Areopago (Acta XVII 16-34), e attribuisce a un ignoto maestro Ierotéo gl'insegnamenti fondamentali della sua dottrina. La critica più autorevole - superata la leggenda della sua apostolicità (da ciò la dizione ‛ Pseudo-Dionigi ') - tende generalmente a situarlo tra la fine del V e l'inizio del VI secolo. Lontano da dubbi in proposito, come tutti nel Medioevo, D. lo colloca nel cielo del Sole, nella prima ghirlanda luminosa degli spiriti sapienti: Appresso vedi il lume di quel cero / che giù in carne più a dentro vide / l'angelica natura e 'l ministero (Pd X 115-117). È ricordato inoltre in Ep XI 16, insieme agli altri grandi della tradizione patristica, abbandonati in telis aranearum dalla Chiesa del tempo di D., che trovava nel diritto canonico uno strumento di ricchezza e di potere. Il Dionisio Accademico, citato in Cv II XIII 5, con l'Areopagita " non ha niente che fare ", come sottolineava il Nardi fin dalla prima edizione dei Saggi di filosofia dantesca (p. 70): in effetti, nulla di più contrario alla dottrina dionisiana della teoria attribuita al personaggio in questione.
Dionigi è autore di quattro trattati, De Ecclesiastica Hierarchia, De Coelesti Hierarchia, De Mystica Theologia, De Divinis Nominibus. e si presenta come testimone diretto dell'insegnamento dell'apostolo. Ciò conferiva alla sua opera il peso di un'autorità, per alcuni (Scoto Eriugena ad esempio) addirittura pari a quella scritturale. Nel Medioevo, al " divinus Dionysius " saranno ispirati alcuni temi fondamentali del misticismo e della teologia speculativa. La definizione di D. prova l'influenza durevole e profonda di Dionigi sull'angelologia, quale sarà fissata, nelle sue linee fondamentali, da Tommaso d'Aquino.
E. G. Gardner, in D. and the Mystics (Londra 1913) poneva in rapporto passi danteschi (del Paradiso soprattutto), con alcuni passi del De Coel. Hier. e del De Div. Nom. (questi ultimi insieme al commento di Tommaso), affermando un'influenza dionisiana sulla struttura e nella composizione del poema. Tralasciando una minuziosa analisi testuale, va comunque notato che una parte dei passi in questione si riferiscono a un motivo quanto mai comune e diffuso nella tradizione neoplatonica: l'emanazione del molteplice dall'unità, a immagine della luce. In Ep XIII 60 c'è in effetti, su questo tema, un riferimento esplicito a Dionigi, ma significativamente accostato a una citazione del Liber de Causis, entro la problematica della causalità e generazione delle essenze, sostanzialmente estranea al pensiero dionisiano: Propter quod patet quod omnis essentia et virtus procedat a prima, et intelligentiae inferiores recipiant quasi a radiante, et reddant radios superioris ad suum inferius ad modum speculorum. Quod satis aperte tangere videtur Dionysius (cfr. Coel. Hier. III 2). Nello stesso senso Cv III XIV 2-5, Pd XIII 55-60 e XXIX 142-145. Altri accostamenti su questo tema (ad esempio il Nardi propone Pd XXXIII 85-87 e Div. Nom. V 6 ss.) sono possibili, ma implicano la vexata quaestio intorno all'emanatismo di D. (del resto più avicennistico che dionisiano): molto controverso, a sua volta, l'emanatismo dell'Areopagita. Nonostante la presenza di temi dionisiani, fra i più comuni, in D. un'influenza sostanziale è senz'altro da escludere, per due ordini di ragioni.
Rigorosamente ordinata negli schemi platonici e neoplatonici, Dionigi concepisce la processione (πρόοδος) del molteplice dall'Uno (con l'unica frattura fra mondo sensibile e intelligibile) esclusivamente come gerarchia delle intelligenze, impegnate sulla via della divinizzazione progressiva, del ritorno (ἐπιστροφή) all'unità divina; mondo spirituale, che tende a escludere ogni ‛ condizionamento ' cosmologico.
L'universo dantesco, nel suo insieme, ove struttura e ordine del mondo fisico sono intimamente legati a quello delle intelligenze, nel processo di purificazione e ritorno all'unità divina, non ha alcun reale rapporto con il sistema dionisiano. Il Gardner stesso (p. 100), nel ritrovare un'ispirazione dionisiana in Pd XIII 67-78, deve riconoscere l'estraneità e la " complicazione " del tema delle influenze stellari come cause seconde. Un più preciso esempio di contaminatio mostrerà chiaramente le differenze. In Pd XXVIII 98-135 D. abbandona l'ordine delle gerarchie angeliche di Gregorio Magno (Moral. XXXII 38), adottata in Cv II V 5-11, per seguire quello di Dionigi, considerato ormai la massima ‛ auctoritas ' in materia: lo stesso Gregorio, in cielo, di sé medesmo rise, per essersi allontanato dall'insegnamento di Dionigi che, avendo appreso la verità dall'apostolo, per grazia divina testimone diretto delle realtà celesti, non poteva ingannarsi.
Secondo gli schemi dell'ultimo neoplatonismo (Proclo soprattutto) la gerarchia angelica, che nel sistema dionisiano è a un tempo manifestazione (ἒχφανσις, sinonimo di πρόοδος) dell'Uno inaccessibile, mediazione necessaria a partire dalla Tearchia superessenziale e modello della gerarchia ecclesiastica sottostante, si ripartisce in tre triadi rigorosamente subordinate da un'inderogabile legge divina (ταξιαρχίας θεσμόν, θεσμοθεσία ecc.). I Serafini (" coloro che bruciano " o " che riscaldano ", secondo un'etimologia più o meno fantasiosa), i Cherubini (" massa " o " plenitudine di conoscenza ", " effusione di saggezza ": cfr. Pd XI 37-39 L'un fu tutto serafico in ardore; / l'altro per sapienza in terra fue / di cherubica luce uno splendore) e i Troni formano la prima triade, cui seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà e infine, a formare l'ultima triade, gli ordini dei Principati, degli Arcangeli e degli Angeli.
Se identico risulta l'ordinamento, un punto fondamentale separa inconciliabilmente la concezione dantesca dalla dionisiana. D. attribuisce infatti alla virtù attiva degli angeli un'azione diretta sulla natura passiva dei cieli (Cv II V 18, Pd II 127-138, XXVIII 64-69), identificando spiriti celesti e Intelligenze motrici. Pur se tipica di Dionigi è l'idea del moto circolare, uniforme degli spiriti beati (Div. Nom. IV 8, Coel. Hier. VII 4, XV 4 e 9: cfr. Pd XXVIII 25-45, ove però D. ha presenti anche i principi aristotelici del moto), tale azione sulla natura fisica, pur trattandosi di corpi celesti, è impensabile nel suo sistema dove tutte le intelligenze hanno come unico compito l'assimilazione, per quanto possibile, e l'unione alla divinità (Coel. Hier. III 1-2), l'iniziazione e l'elevazione dei gradi inferiori.
La fondamentale dottrina dionisiana del simbolismo e della teologia negativa è il secondo punto di radicale divergenza con D. (nonostante l'apparente affinità di temi come l'estasi e la visione divina).
Per Dionigi il mondo sensibile e intelligibile si giustificano in quanto immagine (εἰχῴν) di una realtà che trascende senso e intelletto; unico e inadeguato tramite, attraverso cui, al di là dell'immagine, come della più astratta definizione, l'unità divina si manifesta in dono alle creature quasi per grazia sovrabbondante. Tratto di necessità dal mondo sensibile nei suoi aspetti - come la bellezza e la luce - più degni di esprimere la realtà divina, il simbolismo (essenziale all'insegnamento ecclesiastico e scritturale) deve quindi sottoporsi a una continua critica interna che riveli quanto le immagini siano ‛ difformi ', ‛ dissimili ' dal loro oggetto. In tale processo di purificazione progressiva dalla materialità della rappresentazione, in cui consiste l'‛ anagogia ', Dionigi predilige il simbolo ispirato alle realtà più umili (animali, o addirittura mostri, immagini inorganiche), più ‛ difforme ' o ‛ dissimile ' dal suo oggetto, perché evita i rischi di una contemplazione limitata alla bellezza sensibile. Se l'immagine antica della luce esprime ‛ positivamente ' l'idea divina, l'esperienza mistica, vertice cui tende tutta la gnosi dionisiana, si compie nella " tenebra superessenziale ", nella " caligine superlucente ", " in obscurissimo, quod est supermanifestissimum ", come traduce Scoto Eriugena.
Al contrario è ben evidente, ci sembra, che gli splendori del cielo di D. - simbolismo " positivo " e " simile " al suo oggetto in un ricorso costante e sistematico a immagini luminose - escludono la dialettica interna affermazione-negazione, centro del sistema dionisiano. Anche se D. riprende la critica del simbolismo antropomorfico della Scrittura (Pd IV 40-48; cfr. Coel. Hier. II 1), nel poema che chiude ogni cantica con la parola stelle le tenebre sono relegate nelle profondità infernali; nonostante la ‛ défaillance ' della memoria e del linguaggio umano (Pd XXXIII 115 ss.), non cessa l'invocazione alla luce etterna (v. 124), nel tentativo supremo di cogliere in un'unica immagine il mistero della Trinità e dell'incarnazione.
Ulteriore divergenza, infine, per l'Areopagita la dialettica negativa investe non solo la ‛ teologia ' simbolica ma anche la ‛ teologia ' come effettiva ‛ scienza ' degli attributi positivi di Dio, dei ‛ nomi divini ', che si esprime attraverso i puri concetti intellettuali, anch'essa tuttavia radicalmente inadeguata a significare l'idea dell'unità ‛ superessenziale '. Ancor più, come s'è visto, la negazione è presente al vertice dell'espressione mistica, ultimo stadio di un processo sia conoscitivo che santificante. Ma la teologia dell'epoca di D. è ben lontana dalla radicale negazione di Dionigi, che neppure risparmia l'idea tanto faticosamente elaborata di divinità e Trinità. Impegnata piuttosto a costruire un edificio razionale sui dati della rivelazione, la teologia del XII secolo, pur affermando l'insufficienza dell'intelletto umano di fronte al mistero divino, cercherà soprattutto di creare un linguaggio capace di assicurare le formulazioni dogmatiche contro l'eresia, come anche contro un processo di critica interna tendente a superare quel linguaggio stesso. In tale prospettiva la beatitudine è visione, nel senso proprio del termine, del vero in che si queta ogne intelletto (Pd XXVIII 108), e non percezione di una realtà che supera ogni intelligenza (sia pure la più perfetta fra le intelligenze angeliche), oltre ogni pur necessario processo conoscitivo. Alla gerarchia angelica dantesca, che ripete esattamente lo schema dionisiano, è concessa una visione ‛ positiva ' della divinità. Essa è oggetto d'amore nella misura in cui è oggetto di conoscenza, nella quale, secondo la tradizione intellettualistica aristotelica, l'intelletto si appaga (vv. 106-111). In definitiva, il problema dei rapporti fra Dionigi e D. implica quello, tuttora aperto, dell'influenza dionisiana sulla teologia dell'epoca (v. anche BIZANTINA, CIVILTÀ).
Bibl. - Pseudo Dionigi, Opera, in Patrol. Gr. III; Denys l'Aréopagite, La Hiérarchie Céleste, ed. G. Heil-M. De Gandillac, Parigi 1958; P. Chevallier, Dionysiaca, 2 voll., ibid. 1937-1950; Ilduino, Passio Sactissimi Dionysii, Patrol. Lat. CVI, 23D-50C; E.G. Gardner, D. and the Mystics, Londra 1913, 77 ss.; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano-Napoli 1936, 70, 115 ss., 237; ID., Nel mondo di D., Roma 1944, 81 ss., 337-350; H.F. Dondaine, Le Corpus Dionysien de l'Université de Paris au XIIIe siècle, Roma 1953; Influence dionysienne en Occident, in Dict. de Spiritualité III (1954) 286-429; R. Roques, L'Univers dionysien. Structure hiérarchique du monde selon le Pseudo-Denys, Parigi 1954 (con bibl. completa); ID., La Hiérarchie Céleste, cit., Introduction, V ss.,; ID., Denys l'Aréopagite (le pseudo-), in Dictionnaire de Spiritualité III (1954) 244-286; B. Nardi, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 78, 106-108, 394 ss.