CARAFA, Diomede
Del ramo dei Carafa della Stadera, nacque in data imprecisata da Marzio, duca di Maddaloni, e da Maria di Capua Pacheco y Zuñica, figlia del principe di Conca, erede del maggiorascato Pacheco in Spagna, che, in seguito a questo matrimonio, entrò a far parte del patrimonio dei Carafa di Maddaloni. Morto il padre nel 1627, ebbe per tutore il principe di Colubrano; ma nel 1630 prendeva pienamente possesso dei suoi feudi e di tutte le sue prerogative.
Dal padre ereditava un patrimonio feudale la cui rendita assommava a circa 14.000 ducati e che era composto dalle terre di Maddaloni, Arienzo, Cancello e Cerreto in Terra di Lavoro e da Pontelandolfo, Guardia Sanframondi, San Lorenzo Maggiore, Pietraroia e San Lupo nella provincia di Principato Ultra. Sulle terre di Arienzo e Cerreto il C. godeva rispettivamente dei titoli di marchese e di conte.
Le cronache del tempo ci danno di lui l'immagine di un uomo di temperamento rissoso e facile al duello. Il suo carattere altero lo condusse, nel 1646, ad un clamoroso scontro perfino con l'arcivescovo di Napoli, Ascanio Filomarino, al quale, durante una processione, strappò di mano le reliquie di s. Gennaro.
Sposò Antonia Caracciolo, figlia del principe di Avellino, già sposata a Francesco Caracciolo, duca d'Airola. Dal matrimonio nacquero Marzio, Marino, Giovanni, che morì in età giovanile, Margherita, che sposò Fabrizio Carafa, duca di Andria, Anna, Francesca e Maria, tutte monache, dopo la morte del padre, nel monastero della Sapienza. Secondo alcune voci il C. ebbe per amante tale Costantella Fretta, sposata con Decio Favilla, che nel 1644, ottenne, grazie alla mediazione del duca di Maddaloni, il titolo di duca di Presenzano. Dalla relazione del C. con la Fretta sarebbe nato un figlio, di nome Stefano, morto in età infantile. Le stesse voci attribuiscono al C. l'omicidio, per motivi di gelosia, di un tale Dati, mercante, che avrebbe avuto una relazione con la stessa Costantella.
Nel ventennio precedente la rivolta del 1647, periodo di grave crisi politica e finanziaria del Regno, il C. si distinse tra i feudatari di alto rango che "forti di un largo seguito, di numerosa parentela e di grosse e turbolente bande di seguaci... poterono macchiarsi di delitti contro i loro vassalli, e perpetrare abusi inauditi senza essere, di fatto, perseguiti" (Villari, p. 9). Conseguenza, questa, degli ampi poteri che il baronaggio conservava sia nella giurisdizione locale che nella direzione dello Stato. "Fu gran tiranno, amico di banditi, sanguinario, protettore de sicari. È opinione ch'avesse spartito li furti di denari fatti da ladroni di strada da lui protetti", scriveva infatti del C. un contemporaneo (Fuidoro, Giornali, I, p. 62).
In virtù del suo notevole patrimonio il C. faceva parte del gruppo di aristocratici che, tramite Bartolomeo d'Aquino, forniva capitali alla corte. Tra il 1642 e il 1643, ad esempio, acquistò, per 10.000 ducati, rendite fiscali e adoe, realizzando, in interessi, circa 5.600 ducati. Probabilmente l'acquisto dei casali di Nola, nel 1641, dal re di Polonia e la successiva rivendita, nel 1643, al consigliere Giulio Mastrillo, futuro duca di Marigliano, furono una speculazione finanziaria.
Il comportamento politico del C., se pure offuscato da qualche sospetto, fu sostanzialmente di fedeltà alla monarchia spagnola. Non pochi i contributi militari da lui prestati: nel 1625, mentre era ancora in vita il padre, levò a sue spese una compagnia da inviare in Lombardia; nel 1629 ancora un'altra; sotto il governo del conte di Monterey, in seguito all'ordine che i baroni procurassero soldati in numero corrispondente ai propri titoli, il C. armò ventiquattro compagnie, otto come duca di Maddaloni, dieci come marchese d'Arienzo e sei come conte di Cerreto. Infine, nel 1634, "volendosi avanzare all'altri Baroni" (Aldimari, II, pp. 208 s.), soccorse le finanze regie con 6.000 ducati per far leva di soldati da inviare a Milano. Non sempre buoni i suoi rapporti con i viceré. Con il Monterey ebbe ragioni di contrasto in occasione della convocazione del Parlamento del 1635, quando fece parte di una delegazione di protesta contro i tentativi del viceré di imporre un proprio candidato alla carica di sindaco.
La deputazione non solo non fu ascoltata dal Monterey, ma fu inviata in Spagna per giustificarsi presso il re. La propaganda contro il viceré, che il C. e gli altri tentarono di svolgere, non ebbe alcun successo, per le potenti protezioni di cui il Monterey, cognato dell'Olivares, godeva a corte. Il C. e i suoi compagni furono allontanati da Madrid e costretti a soggiornare a lungo a Barcellona, da dove partirono solo nel 1637, quando giunse a Napoli il nuovo viceré, duca di Medina de las Torres.
Durante il suo soggiorno in Spagna, nel 1636, un'informazione anonima indicò il C. come il capo di una congiura napoletana contro il governo spagnolo, ma la cosa non ebbe alcun seguito e il C., che nel 1639 fu nominato maestro di campo generale, mantenne, almeno formalmente, un atteggiamento di fedeltà anche durante i moti del 1647-48.
Prima che questi scoppiassero, nel maggio del 1647, il C. era stato arrestato insieme al fratello Giuseppe, poco dopo che nel porto di Napoli era saltata in aria l'ammiraglia della flotta spagnola. Corse voce che tra questo episodio e l'arresto del duca vi fosse relazione e che il C. fosse implicato nella congiura aristocratica che aveva cercato appoggio nel Mazzarino e in Tommaso di Savoia.
In realtà il C. rimase in carcere ben poco tempo dato che, allo scoppio dei moti, il viceré d'Arcos lo mise immediatamente in libertà e lo inviò, insieme al duca di Montesarchi, a parlamentare con il popolo che si sperava di riuscire a calmare mediante l'influenza dei baroni. I suoi tentativi rimasero, tuttavia, vani ed egli fu addirittura arrestato da Masaniello che nutriva per lui, a causa della sua alterigia, un profondo odio. Riuscito a fuggire, si rifugiò a Torella, mentre un gruppo di banditi al suo servizio si riversava in Napoli e, nel tentativo di uccidere Masaniello, si scontrava con la plebe cittadina. Da questo momento iniziò da parte di quest'ultima una vera e propria persecuzione nei confronti del C. e di suo fratello Giuseppe.
Sul capo del C. venne imposta una taglia e da allora fra le richieste avanzate dal popolo, quando non si ritrova quella della sua testa, si ritrova sempre quella del suo allontanamento da Napoli e della sua esclusione da ogni ufficio. La preziosa suppellettile del palazzo del C. venne sottratta dai rivoltosi ai conventi in cui era stata messa al riparo. Anche se una parte di essa venne poi recuperata, le perdite subite furono ritenute ingenti, tanto da far parlare di danni per 900.000 scudi.
Estesasi la rivolta dalla città alle province, nell'ottobre 1647 il viceré rivolse una richiesta di aiuto al baronaggio. Il C. rispose tra i primi e nello stesso mese, alla testa di una parte delle truppe baronali raccoltesi dopo l'appello del viceré, sottomise Capua ed Aversa che si erano sollevate. In tal modo egli taglia la via dei rifornimenti agli insorti napoletani, che passava, appunto, tramite Caserta e Aversa, mentre dirottava a Pozzuoli, rimasta fedele, tutto quanto era necessario al rifornimento delle truppe governative. Al C. si deve anche l'opera di mediazione svolta presso i baroni riuniti ad Aversa, scontenti per la nomina di Vincenzo Tuttavilla a comandante dell'esercito baronale. A quest'ultimo, composto di 1.090 fanti e 1.855 cavalli, il C. aveva contribuito con più di un quarto degli uomini ed oltre un quinto della cavalleria. Tra i possedimenti del C. l'unico a ribellarsi fu Cerreto, mentre Maddaloni e Arienzo si mantennero fedeli.
Non del tutto chiari risultano i rapporti tra il C. e il duca di Guisa. Se il tentativo compiuto da quest'ultimo di attirarlo dalla sua parte rimase privo di risultati, tuttavia non sembra da escludere che il C. avesse manifestato in privato al duca la propria disponibilità. Lo Schipa, che, pure, aderisce alla tesi del lealismo del C., mette in rilievo che il rifiuto opposto da quest'ultimo alle proposte del Guisa non impedì uno scambio di cortesie tra i due e la promessa del francese di punire l'uccisione di Giuseppe Carafa, fratello del C., al quale, peraltro, sembra che il Guisa, in un primo tempo, si fosse affidato per accordarsi con la nobiltà napoletana.
Del resto anche il comportamento successivo del C. lascia qualche perplessità. Allontanatosi da Aversa nel genn. 1648, per compiere una spedizione contro Calvi, non volle farvi ritorno, malgrado ne fosse sollecitato dal Tuttavilla, provocando con ciò, a quanto pare, la caduta della città nelle mani dei rivoltosi. Recatosi dapprima a Gaeta, di lì si spinse, nel marzo 1648 fino a Roma, facendo ritorno a Napoli solo nel novembre. Le molte lettere inviategli in quell'anno dal duca d'Arcos, dal conte d'Oñate, da don Giovanni d'Austria e dallo stesso Filippo IV sembrano, tuttavia, testimoniare che questa sua assenza non fosse dovuta a ragioni di infedeltà. All'indomani dei moti il C. rese pubbliche le lettere, quale dimostrazione dei molti servizi da lui resi alla monarchia, e per smentire i sospetti concepiti nei suoi confronti.
Nel 1655, forse per i danni subiti dal suo palazzo nel quartiere della Stella nel corso dei tumulti, il C. acquistò una nuova dimora nella strada di Toledo, alla quale apportò molti abbellimenti, tanto da farne uno dei più famosi palazzi napoletani. Sembra perciò confermato che le sue sostanze non avessero subito un colpo duro negli anni della rivolta, anzi, secondo il Fuidoro (Giornali, I, p. 62), "accumulò più denari et argenti dopo le passate sollevazioni di questo regno, nelle quali con suo lucro servì bene il suo re". Comunque il patrimonio ereditato dal figlio Marzio, il cui reddito veniva valutato, nel 1663, intorno ai 20.000 ducati, oltre a testimoniare i vantaggi riportati dal C. con le sue attività finanziarie, sta anche ad indicare un'oculata amministrazione dei propri beni.
Anche dopo la repressione attuata dal viceré conte d'Oñate nei confronti dell'aristocrazia, all'indomani dei moti masanielliani, e malgrado il mutamento della situazione politica verificatasi nel Regno durante il suo governo, caratterizzato da una forte ripresa dell'autorità centrale, il C. non smise di tenere un comportamento molto spesso riottoso, che, se era stato tollerato, per lui come per altri esponenti della maggiore feudalità, negli anni precedenti alla rivolta del 1647-48, a causa soprattutto delle difficoltà finanziarie in cui si stava dibattendo la monarchia, non era ormai più compatibile con il nuovo corso politico. È possibile, pertanto, far risalire a ciò le vicende degli ultimi anni della vita del Carafa. Le fonti non ci indicano con precisione quali colpe gli venissero attribuite per istruire a suo carico un processo. Sembra che gli si imputasse anche l'uccisione di un tale Giovanni Angelo Lombardi, eletto dell'Università di Maddaloni, che aveva tentato di opporglisi. Nel 1658, mentre si trovava incarcerato in Castel Sant'Elmo, a Napoli, il C. fu amnistiato, insieme ad altri nobili, in occasione della nascita dell'erede al trono spagnolo. Ma il 5 agosto dello stesso anno egli si imbarcava per la Spagna, dopo che il viceré conte di Castrillo lo aveva fatto arrestare a tradimento mentre si trovava a palazzo reale.
Confinato a Pamplona, morì a Madrid il 5 ott. 1660.
Fonti e Bibl.: Arch. di St. di Napoli, Spoglio d. significatorie d. relevi, II, ff. 157v, 372; Napoli, Soc. napolet. di storia patria, mss. XXII-E-11, f 169; XXIV-D-2, ff. non n.; F. Capecelatro, Annali della città di Napoli, Napoli 1849, pp. 39 s., 72 s., 157; Id., Diario delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-1650, a cura di A. Granito, Napoli 1850-54, ad Indicem; [F. Bucca d'Aragona], Aggionta alli Diurnali di S. Guerra, in Archivio storico per le province napoletane, XXXVII (1912), pp. 143, 287, 289, 292; I. Fuidoro, Successi del governodel conte d'Oñatte (1648-1653), a cura di A. Parente, Napoli 1932, pp. 86 s.; Id., Giornali diNapoli dal 1660 al 1680, I, a cura di F. Schlitzer, Napoli 1934, p. 62; B. Aldimari, Historiageneal. della famiglia Carafa, Napoli 1691, II, pp. 208-22; G. B. Piacente, Le rivoluz. del Regnodi Napoli negli anni 1647-1648, Napoli 1861, pp. 383 s.; G. De Sivo, Storia di Galazia Campana edi Maddaloni, Napoli 1860-65, pp. 102-29; M. Schipa, La cosiddetta rivoluz. di Masaniello, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., II (1916), pp. 312-15, 453-58; Id., La cong. del princ. diMontesarchio,ibid., n.s., V (1919), pp. 197 s.; VI (1920, p. 268; Id., Masaniello, Bari 1925, pp. 87 s.; G. Coniglio, Il viceregno di Napoli nelsec. XVII, Roma 1955, pp. 15, 279; R. Villari, Larivolta antispagnola a Napoli, Bari 1967, pp. 9, 167, 209 ss., 213, 224-26; C. Celano, Notizie del bello,dell'antico e del curioso della città diNapoli, Napoli 1970, p. 865; R. Colapietra, Il governo spagnolo nell'Italia meridionale(Napoli dal 1580 al 1648), in Storia di Napoli, V, Napoli 1972, p. 247.