CARAFA, Diomede
Minore dei figli di Antonio, detto Malizia, alla cui iniziativa nel 1420 si dovette l'intervento di Alfonso d'Aragona nel Regno, e di Caterina Farafalla, nacque nel 1406 o due anni più tardi. Egli era quindi ancora un adolescente, quando nell'autunno del 1423 fu affidato, insieme con il cugino Caraffello, al re d'Aragona, che, commessa al fratello don Pietro la difesa dei suoi diritti nel Regno, partì in aiuto dell'altro fratello, Enrico, tenuto prigioniero dal re di Castiglia. Lasciata Napoli alla volta di Barcellona, l'Aragonese pose in atto una violenta rappresaglia ai danni di Marsiglia. Con ogni probabilità il C. partecipò a questa impresa, come pure alla guerra castigliano-aragonese nel 1429-30 e nel 1432 alla campagna contro l'isola di Gerba.
La morte di Giovanna II (2 febbr. 1435) dette inizio alla lotta per la conquista del Regno fra Alfonso d'Aragona e Renato d'Angiò, che si concluse dopo sette anni con la sconfitta di quest'ultimo. Tutti i biografi del C. sono concordi nel presumere la sua partecipazione, naturalmente dalla parte aragonese, alle vicende belliche e diplomatiche di questa contesa. La vittoria del 2 giugno 1442, con la quale Alfonso acquistava Napoli e con Napoli il Regno, fu sicuramente ottenuta anche per l'azione compiuta da una squadra di circa duecento uomini, che penetrarono nella città attraverso l'acquedotto, gettando lo scompiglio fra i difensori e favorendo l'ingresso del grosso dell'esercito. Mentre alcuni storici sostengono che il C. facesse parte del drappello di uomini che si introdussero nell'acquedotto, altri testimoniano semplicemente la sua presenza nel fatto d'arme. Con ogni probabilità egli, al comando di duecento o di quattrocento uomini, anche se non fra quelli che presero alle spalle i difensori, fu fra i primi che entrarono nella città, rimanendo ferito.
Rientrato in patria dopo quasi due decenni di assenza, il C. rimase ai servizi del re e quale uomo d'arme del sovrano aveva nel 1444-45 il comando di dieci lance. Anche se probabile, non è noto se il C. partecipò alla campagna del re nelle Marche nel 1443, né alla repressione organizzata da Alfonso contro i baroni ribelli (1444-45), né, dopo la morte di Filippo Maria Visconti, alla sfortunata spedizione napoletana in Toscana nel 1448.
Cresciuto alla corte d'Aragona, il C. fu molto vicino a Ferdinando, figlio bastardo del re, che era destinato al trono, e il cui attaccamento e la cui stima nei suoi riguardi si manifestarono pienamente dopo l'ascesa al trono. Nell'anno 1451 il C., che era già scrivano di razione di Ferdinando e precettore dei figli, ne divenne anche amministratore generale dei beni.
Si stava preparando intanto la guerra, che, opponendo Venezia a Francesco Sforza, impadronitosi nel 1450 del ducato di Milano, avrebbe coinvolto i Fiorentini e Renato d'Angiò dalla parte del nuovo duca ed il re di Napoli da quella della Repubblica veneta. Le ostilità si aprirono nel maggio del 1452, appena conclusasi la visita dell'imperatore Federico III in Italia.
Il C. partecipò alla campagna che Ferdinando, alla testa di duemila fanti e seimila cavalli, condusse in Toscana e che non ebbe né svolgimento né esiti molto appariscenti.
Nell'ottobre, mentre Ferdinando era all'assedio di Castellina in Chianti, il C. fu protagonista di un episodio bellico abbastanza importante nel contesto della campagna, benché in sé poco rilevante. Al comando di trecento cavalli e di cinquecento fanti, egli assalì e depredò numerosi villaggi nei pressi di Firenze, facendo un considerevole bottino e riuscendo ad evitare, subito dopo l'azione, lo scontro con i difensori fiorentini inviati a contrastarlo.
Ritiratosi subito dopo l'esercito di Ferdinando negli alloggiamenti invernali ad Acquaviva, il C. tornò, probabilmente prima della fine dell'anno, nel Regno. Il duca di Calabria invece fece ritorno a Napoli nei primi mesi del 1455, quando, dopo la pubblicazione nella città partenopea il 27 gennaio della pace di Lodi, avvenuta il 9 aprile dell'anno precedente, Alfonso gli inviò il C., insieme con Francesco Zanoguerra, i quali, oltre a dargli notizia degli ultimi avvenimenti, dovevano comunicargli anche l'ordine di rientro in patria.
I dati biografici finora esposti del C., allora ormai intorno ai cinquanta anni, non danno idea sufficiente del potere che egli s'era andato conquistando presso il futuro re di Napoli. Fu alla morte di Alfonso (27 giugno 1458) infatti che la stella del C. cominciò a brillare in tutta la sua intensità. Egli apparve immediatamente come uno dei più influenti consiglieri del nuovo re e la fama del suo prestigio e del suo credito a corte varcò senza indugio i confini del Regno. I segni della benevolenza reale nei suoi confronti si moltiplicarono in pochi mesi, tanto che ottenne nell'agosto del 1458 il "mero e misto imperio" sul feudo di Casalduni, già concesso alla moglie Maria Caracciolo nell'aprile dell'inno prima, che egli deteneva a nome del figlio, e sull'altro suo feudo, quello di Giugliano; nel settembre fu nominato capitano della grascia e dei passi in Terra di Lavoro e castellano di Castel Capuano a Napoli; nel gennaio dell'anno successivo divenne governatore regio della badia di Montecassino e nel luglio ricevette dal re la concessione di tutti i diritti sulle collette del sale.
Nel frattempo si andavano concretizzando, all'interno ed all'estero, le opposizioni alla successione di Ferdinando al trono. I baroni che lo contrastavano, perduta la speranza di opporgli il cugino principe di Viana, stavano tramando perché Giovanni d'Angiò gli si contrapponesse, come accadde in effetti poco dopo, quale pretendente al Regno. In questa situazione il potente principe di Taranto, Giovanni Antonio Orsini del Balzo, pur non avendo preso una chiara posizione di offesa e di contrasto, pareva impegnato negli intrighi per la successione e conduceva preoccupanti preparativi bellici.
Presso costui nel gennaio del 1459 fu inviato il C., che poco dopo, in occasione della cerimonia dell'incoronazione, avvenuta a Barletta il 7 febbraio, fu dal sovrano creato cavaliere. Quando fu chiaro che il principe di Taranto non avrebbe tenuto fede alla promessa fatta balenare al C. di un abboccamento diretto con il re, si cercò di mantenere l'Orsini per lo meno neutrale, concedendogli le terre, da lui richieste, di Antonio Centelles. Il C. tornò più volte (maggio 1459) dal principe per perfezionare questo accordo, che però naufragò miseramente, quando l'Orsini impedì attivamente al re di impegnarsi con la totalità delle forze nella repressione della rivolta in Calabria. Nel luglio il C. fu quindi inviato di nuovo dal riottoso barone, questa volta però con la richiesta perentoria del re di cessare di contrastarlo. Tuttavia né le minacce formulate dal C. in questa occasione, né l'opera di persuasione esplicata da lui subito dopo, quando nel mese successivo egli effettuò un'altra ambasciata insieme con l'arcivescovo di Ravenna, indussero l'Orsini ad una condotta più leale.
Dopo il Parlamento di guerra tenuto a Napoli il 23 novembre di quell'anno, presente con ogni probabilità il C., Ferdinando, che aveva visto annullato il vantaggio acquisito nel settembre con la vittoria su Antonio Centelles, dallo sbarco nell'ottobre e dai primi successi in Abruzzo di Giovanni d'Angiò, si diresse contro Calvi (Caserta). In questa cittadina, conquistata dopo un lungo assedio nel gennaio del 1459, fu lasciato il C. con l'incarico di fortificarla. Era intento a questa opera quando il 7 febbraio alla testa di quaranta cavalli ebbe un fatto d'arme presso Francolise con le truppe del ribelle Iacopo Montagano.
Dopo la battaglia di Sarno (7 luglio), cui partecipò, il C. continuò a svolgere le sue complesse funzioni di scrivano di razione (che in tempo di guerra consistevano anche nel provvedere a tutti i bisogni dell'esercito), operando nel campo regio, a Napoli ed ovunque fosse necessaria la sua presenza, sempre in contatto ed in accordo con il sovrano, fino a che questi, fallito completamente il tentativo angioino, conseguì la vittoria definitiva sugli oppositori esterni ed interni. La fedeltà del C. ricevette allora dal re molteplici e nobili segni di riconoscenza. Il 18 dic. 1463 ottenne un assegno annuo di 1.000 ducati; il 1º apr. 1464, 50 ducati mensili ed altre concessioni di carattere pecuniario; nel novembre dello stesso anno divenne, vita natural durante, governatore e castellano di Amantea; infine nel febbraio del 1465 ebbe in feudo le terre di Maddaloni, con il titolo di conte. Fregiato del nuovo titolo, nel settembre di quell'anno il C. cavalcò in Napoli, insieme con altri nobili, in occasione dell'arrivo nella città di Ippolita Sforza, sposa del duca di Calabria.
Nei primi mesi dell'anno seguente fu compiuto il palazzo che egli si era fatto erigere in via S. Biagio de' Librai, nel "seggio" di Nido, a Napoli, dove già dal 1458 egli aveva acquistato delle case. Non si conosce l'architetto di questo severo ed imponente edificio, tutto in bugnato, gioiello del Rinascimento napoletano, che il C. dedicò "optimi regi nobilissimi patriae", e dove riunì poi una straordinaria raccolta di opere d'arte, ospitandovi anche molti illustri personaggi, fra cui Sigismondo d'Este, nel 1473, ed Antonio il Bastardo di Borgogna, nel 1475.
Il C., i cui rapporti con Alfonso I d'Aragona furono ottimi e quelli con Ferdinando eccellenti per tutta la vita, godeva anche dell'amicizia e della confidenza di Alfonso, duca di Calabria, fra il quale ed il padre fece spesso da tramite per appianargli difficoltà o per soddisfarne i desideri. Nel 1467, quando era già avvenuta la battaglia della Riccardina (23 luglio), combattutasi fra l'esercito della lega formata da Firenze, Milano e Napoli contro Venezia, Ferdinando inviò il suo primogenito a combattere con le truppe degli alleati. Benché dal viaggio del duca non scaturisse alcuna epica impresa e la pace sopravvenisse nei primi mesi dell'anno successivo, esso diede occasione al C. di stendere il primo (almeno fra quelli datati) dei memoriali noti, per merito dei quali egli ha trovato posto fra i prosatori in volgare del Rinascimento. Il Memoriale ad Alfonso d'Aragona duca di Calabria ci è pervenuto soltanto in un rimaneggiamento edito a Napoli nel 1608, a cura di F. Campanile, con il titolo, Gli ammaestramenti militari del signor Diomede Carafa.
In questo memoriale, contenuto nelle pp. 43-76 della citata edizione, è affastellata piuttosto superficialmente una serie di consigli di carattere militare, di norme morali, di incitamenti ad un comportamento prudente e sagace. Alfonso era invitato a rimettersi in tutto ad Orso Orsini, cui era stato affidato dal padre, ed a fare in modo che in lui si compendiassero e rifulgessero le virtù civili e militari proprie di un principe e di un futuro sovrano.
Evidentemente il C. fu soddisfatto di questa sua attività letteraria e fu incoraggiato a continuarla, perché pochi anni più tardi, probabilmente nel 1470, presa occasione dalle lotte che Enrico di Castiglia sosteneva con Alfonso V del Portogallo, scrisse un'altra operetta, dedicata al re Enrico, redatta in nome di re Ferdinando. Anche il [Memoriale] in nome di Ferdinando primo re di Napoli ad Arrigo re di Siviglia e di Toledo è giunto a noi soltanto nel rifacimento cit. (pp. 1-42), basato, con ogni probabilità, anche sulla versione latina che dell'opera eseguì Pietro Gravina, stampata a Bologna nel 1530, con il titolo: Diomedis Caraphe... Epistola Ferdinandi regis nomine ad Henricum Hispalensium qualiter in bello gerere se debeat.
Gli argomenti trattati nel memoriale frutto di una esperienza militare diretta, non sono ovvi e saranno dal C. approfonditi in opere successive: la stima e l'affetto devono essere alla base dei rapporti fra capitano e soldati; la prudenza induca ad evitare gli attacchi; gli alloggiamenti siano ubicati in modo da poter ricevere facilmente i rifornimenti; gli accampamenti siano fortificati e sorvegliati; consigliabile è servirsi di spie ed allettare i soldati con la promessa del bottino; necessario non disperdere l'esercito.
Il 1º nov. 1472 avveniva a Napoli il matrimonio per procura fra Eleonora di Aragona ed Ercole d'Este, successo l'anno prima nel ducato di Ferrara al fratello Borso, che coronava lo sforzo compiuto dalla corte napoletana per operare un riavvicinamento con quella Estense. Per questa principessa, che meritò le lodi degli storici per la saggezza e l'avvedutezza con cui coadiuvò il marito nel governo del ducato, il C. scrisse prima del 1476 il Memoriale sui doveri del principe. Pubblicato nel 1899 da T. Persico nella sua monografia sul C., esso ci è pervenuto mutilo del principio e della fine, alle cc. 1-11 di un manoscritto quattrocentesco, conservato nella Biblioteca della Società di storia patria napoletana (XX. C.26). L'operetta ebbe un'immediata fortuna, tanto che ne furono fatte due traduzioni in latino, una di Colantonio Lentulo (De regimine principum), di cui si conserva nella bibl. del Museo di Stato dell'Ermitage di Leningrado (O.R. N. 26) un esemplare, già propr. Galitzin, scritto in oro ed argento su pergamena purpurea, opera del celebre copista Giovanni Marco Cinico; l'altra, per incarico della stessa duchessa, fu eseguita da Giovanni Battista Guarino (De regis et boni principis officio) e fu edita per la prima volta a Napoli nel 1668.
Il C. in questa, come nelle altre sue operette, non si proponeva intenti letterari, ma pratici. Sintesi fra lingua aulica e dialetto non ancora tocco da influenze toscane, la sua ruvida prosa gli serve soltanto come mezzo per dettare i precetti scaturiti dalla sua esperienza di politico, di amministratore, di uomo di Stato, di ispiratore forse, o solo di assertore, della politica di riforme promossa dai sovrani aragonesi.
Nella prima parte del suo memoriale, di contenuto politico, il C. consiglia al principe di mirare a suscitare l'amore piuttosto che il timore nei sudditi, di porre oculatezza nella scelta dei collaboratori di evitare di ricorrere ai prestiti forzati ed alle ammende, di premunirsi dai disordini curando che i viveri siano abbondanti, di conservare l'efficienza e l'entusiasmo dei soldati con la generosità delle retribuzioni. La seconda parte tratta dell'amministrazione della giustizia; la terza e la quarta di problemi finanziari, economici ed amministrativi. Il C., che con questa operetta precorse molte teorie economiche moderne, si propone di indicare al principe i mezzi materiali, perché egli possa mantenere la prerogativa divina, o se vogliamo, il dovere, conferitogli da Dio, di governare i sudditi. Uno di questi è una buona amministrazione, che si basa sull'ordine, sulla previdenza e sull'esattezza. Inoltre il principe si curerà di favorire l'arricchimento dei sudditi, perché soprattutto questo contribuirà alla solidità dello Stato. Saranno quindi incrementate la mercatura e le industrie, agevolando con vari provvedimenti gli stranieri ed il commercio con l'estero.
Nel settembre del 1476 la celebrazione del matrimonio fra Beatrice d'Aragona e Mattia Corvino dette al C. l'occasione per la stesura di altri due memoriali, uno diretto alla nuova regina ed uno al giovane fratello di lei, Francesco, che l'accompagnò quando, agli inizi d'ottobre, ella partì da Napoli per raggiungere lo sposo e che rimase in Ungheria otto anni.
Quest'ultima opera ([Memoriale] a Francesco d'Aragona...), nella quale il C. indirizza al giovane principe consigli di carattere militare e politico, è contenuta acefala alle cc. 36-40 del già citato manoscritto napoletano e nelle pp. 77-107 dell'edizione curata da F. Campanile.
Del Memoriale alla serenissima regina de Ungheria (cc. 12-20 del codice della Società di storia patria napoletana), qualche saggio fu stampato a Napoli nel 1790 da Giovanni Antonio Cassitto, a quanto afferma B. Croce, il quale pubblicò il Memoriale nella Rassegna pugliese, XI (1894), pp. 343-348, Colantonio Lentulo ne fece una traduzione in latino, una copia della quale scritta dal Cinico in oro su pergamena purpurea e verde, e miniata da Cola Rapicano, si conserva nella Biblioteca Palatina di Partna (Parm. 1654) e fu pubblicata da G. Csontosi, in Magyar Könyv-szemle, 1890, pp. 65-86.
I consigli impartiti in esso a Beatrice sono estremamente pratici. Le è suggerito il modo in cui deve comportarsi al momento del distacco dai parenti a Napoli e durante il viaggio ed all'arrivo nella nuova patria, con i sudditi, con il marito, con la suocera.
Alcuni argomenti trattati in quest'operetta sono analoghi a quelli di un altro dei memoriali del C.: il Memoriale et recordo de quello have da fare la mulglyere per stare ad bene con suo marito et in che modo se have ab onestare. Senza dedica e scritto per un'occasione a noi sconosciuta, è compreso, alle cc. 21-25, fra quelli del manoscritto napoletano e fu pubblicato nella miscellanea nuziale Per nozze Emilio Nunziante-Eleonora Spinelli, Napoli 1888, alle pp. 5-17.
In esso il C. cerca di ovviare all'inesperienza delle novelle spose, suggerendo loro quali siano le virtù e gli accorgimenti che possono suscitare e conservare l'amore e la stima del marito e mantenere la pace domestica.
Tre anni dopo il matrimonio di Beatrice, un altro fratello di lei, il cardinale Giovanni, si recò in qualità di legato pontificio in Ungheria, rimanendovi un anno. Il memoriale che gli dedicò il C. in quest'occasione è contenuto nelle cc. 67-68 del codice della Società di storia patria napoletana, ma, rimasto inedito, è già da tempo quasi completamente deleto ed illeggibile.
Allorché, dopo il fallimento della congiura dei Pazzi, Sisto IV, d'accordo con Napoli e Siena, decise di muovere guerra a Firenze per sottrarla alla signoria di Lorenzo de' Medici, Ferdinando affidò al suo primogenito il comando dell'esercito regio inviato in Toscana. Questa campagna militare, che si volse presto in favore delle armi pontificie e napoletane, dette occasione al C. di indirizzare al duca di Calabria un altro memoriale, scritto in due tempi, nel 1478 e nel 1479, contenuto alle cc. 49-66 del manoscritto napoletano ed edito da P. Pieri (Il "Governo et exercitio de la militia" di Orso degli Orsini e i "Memoriali" di D. C., in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., XIX [1933], pp. 180-212).
In esso il C. enuncia una serie di precetti politici e soprattutto militari, frutto della sua multiforme esperienza. Il metodo tattico-strategico che riscuote la sua approvazione è quello sforzesco, in cui le azioni sono lente e studiate. La scelta del terreno è estremamente importante, tanto che se questo elemento fosse molto favorevole si potrebbe arrivare anche ad una battaglia campale, dalla quale peraltro ci si deve quasi sempre astenere. Gli assedi lunghi siano evitati, perché troppo logoranti; ci si avvalga invece degli attacchi di sorpresa, dei tentativi di corruzione, dell'uso delle spie. Nel complesso il C. non ha la presunzione di suggerire al principe nuovi sistemi di guerra, ma piuttosto intende raccomandargli quelli che alla luce della sua esperienza diretta gli sembrano i migliori, sempre nella piena consapevolezza delle condizioni politico-economiche del Regno e dell'esercito regio.Al figlio primogenito, Giovanni Tommaso, il C. dedicò il Trattato dello optimo cortesano, il cui testo ci è tramandato incompleto nel più volte citato codice napoletano, alle cc. 26-35, e per intero in un manoscritto della Biblioteca nazionale di Firenze (Magliab. XXX, 238), sottoscritto da Pietro Molini e datato 10 luglio 1479, terminus ante quem di composizione del testo. Questa è l'unica delle opere del C. di cui si conosca un'edizione fatta lui vivente (Indice gen. degli inc., n. 2508), dedicata a Beatrice d'Aragona dall'editore, il già ricordato Giovanni Marco Cinico, il quale nutriva nei riguardi del C. profondi sentimenti di gratitudine, di affetto e di ammirazione, secondo quanto egli stesso dichiarava nella presentazione dell'edizione. L'opera fu riedita parzialmente alla fine del secolo scorso da M. Barbi (Due curiosità quattrocentiste, in Miscellanea nuziale Rossi-Teiss, Trento 1897, pp. 225-31) e integralmente da E. Mayer (Un opuscolo dedicato a Beatrice d'Aragona, in Studi e doc. italo-ungher., I [1936], pp. 211-238) e da G. Paparelli (Salerno 1971).
Uno dei meriti di quest'operetta è quello di essere un'antesignana dei più noti ed insigni trattati dedicati a questo stesso argomento nel secolo successivo. In essa il C. propone un modello di cortigiano, passivo esecutore della volontà del signore, ben differente dagli inquieti rappresentanti della nobiltà napoletana dell'epoca, il che, oltre a costituire una dichiarazione politica, conferma ed illustrazione di una intera vita di fedeltà alla casa aragonese prova quanto fosse fondata la taccia di "inimicissimo" del Coppola e del Petrucci attribuitagli dal Porzio. Il cortigiano, studiati i gusti ed il carattere del signore, deve uniformarsi in tutto ad essi. Paziente, ossequiente e prudente parli poco ed ascolti molto. Circospetto, discreto, riservato non si attenti a contraddire il signore e si attenga alla sua volontà anche nella vita privata. In complesso, dunque, questo personaggio deve essere dotato soprattutto di qualità negative piuttosto che positive e, già giudicato negativamente da Agostino Nifo (De re aulica, Neapoli 1534, pref. cap. VIII), è certo troppo supinamente dedito a compiacere il proprio signore per possedere il minimo fascino e destare alcun moto di simpatia.
Alle cc. 65-66 del codice napoletano si conserva un brano, danneggiato gravemente, di un memoriale dal titolo e dal destinatario sconosciuti, rimasto ignorato dagli studiosi antichi e da quelli più recenti per la sua frammentarietà.
Un altro memoriale del C. fu scritto nel 1479 e dedicato a Federico d'Aragona in occasione del viaggio da questo compiuto in Francia per impalmare Anna di Savoia, nipote di Luigi XI, nella primavera di quell'anno. Tramandatoci dal solito manoscritto napoletano, cc. 41-483 fu edito a Napoli nel 1953 da A. Altamura, in Testi napoletani del Quattrocento, pp. 35-49, e sempre a Napoli nel 1972, a cura di L. Miele, con il titolo Memoriale a Federico d'Aragona. Esso è un insieme di raccomandazioni già rivolte dal C. di volta in volta ai fratelli del dedicatario nelle altre sue operette.
Il 1º aprile di quello stesso anno era uscita a Napoli, dedicata al C., la seconda edizione della Lectura super constitutionibus Regni di Andrea d'Isernia, pubblicata dallo scrittore-editore Francesco dei Tuppo (Indice gen. degli inc., n. 532), il quale era un protetto del Carafa. Questa non era la prima opera a stampa che gli veniva dedicata. Già nel 1473 circa era stato dedicato al C. il Libellus sindicatus officialium di Paride del Pozzo (ibid., n. 8239) e nel 1478 un Confessionale di s. Antonino (ibid., n. 667), pubblicati ambedue a Napoli rispettivamente da S. Riessinger e Giovanni Adamo Polono. L'ultima di queste dediche, che sono le uniche prove di suoi contatti con il mondo letterario del tempo e tuttavia sembrano testimoniare soprattutto la sua estraneità all'ambiente dotto e colto dell'umanesimo napoletano, è quella di un altro Confessionale di s. Antonino (ibid., n. 684), edito da Mattia Moravo, Giov. Marco Cinico e Pietro Molini, probabilmente poco prima della morte del Carafa.
Nel dicembre dell'anno 1479 giunse a Napoli Lorenzo de' Medici, che con felice e spregiudicata decisione voleva con colloqui diretti ottenere il ristabilimento della pace fra la Repubblica di Firenze ed il Regno. Pare che la felice conclusione delle trattative allora intavolate e che giunsero a buon termine nel marzo dell'anno successivo si possa attribuire anche all'attiva partecipazione del C., legato al Medici da antica amicizia, documentata da uno scambio di corrispondenza e soprattutto da un magnifico dono costituito da una testa di cavallo di bronzo, attribuita a Donatello, ora nel Museo nazionale di Napoli, che il fiorentino gli inviò nel 1471.
Quando, poco dopo la conclusione della pace con Firenze, Ferdinando si trovò ad affrontare i Turchi, che l'8 ag. 1480 si erano impadroniti di Otranto, il C., nonostante l'età ormai tarda, manteneva i suoi pesanti impegni di funzionario regio, anche se aveva ottenuto un coadiutore nel suo ufficio di scrivano di razione nella persona di un suo nipote, Alberico. Inoltre egli curava l'amministrazione del proprio patrimonio, che era andato sempre più ampliando, con l'acquisto di terre in Principato Ultra, in Capitanata e nel Molise e di numerosi immobili in Napoli. Si recarono quindi ad Otranto a tenere alto il nome della famiglia, combattendo contro i Turchi, il succitato nipote Alberico ed il figlio Giovanni Tommaso.
Dopo la conclusione della pace di Bagnolo (7 agosto), che poneva termine alla guerra di Ferrara, ai primi di novembre del 1484 il duca di Calabria fece il suo solenne e, secondo molti, minaccioso rientro in Napoli. Fra gli altri ad accoglierlo c'era il C., suo antico precettore, che in questa occasione pare non fosse un consigliere molto pacato. Comunque, scoppiata la rivolta dei baroni, il C. rimase fedele alla Corona, che si servì di lui anche per alcune trattative con il conte di Sarno. Sovvenne inoltre con un notevole prestito il re, che lo nominò castellano e governatore di Vico Equense e di Massa Lubrense.
Morì il 17 maggio 1487 pochi giorni dopo l'esecuzione di Antonello Petrucci e Francesco Coppola. Fu seppellito nella cappella del Crocifisso in S. Domenico Maggiore a Napoli.
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