Diogene (Diogenès)
Il Diogene nominato in If IV 137 (Dïogenès, Anassagora e Tale), abitatore del ‛ nobile castello ', è senz'altro da identificare con il filosofo greco Diogene nato a Sinope sul Ponto (404 c. - 320 c. a.C.), e giunto ad Atene verso il 340, detto il Cinico perché il rappresentante più famoso dell'omonima scuola (cosiddetta da un ginnasio di Atene, il Cinosarge, ove usavano raccogliersi i primi seguaci).
Diogene portò agli estremi le caratteristiche della sua scuola, incarnando il ‛ tipo ' stesso del filosofo cinico, tutto teso alla pratica e quotidiana realizzazione di un ideale di vita e di uomo secondo natura. La tradizione (e la sua fonte principale: Diogene Laerzio De Vita philosoph. VI 2) ci ha lasciato del filosofo l'immagine di un motteggiatore acre e aggressivo, incontinente nel linguaggio e negli atti, eccentrico e sconcertante, dagli atteggiamenti derisori verso gli usi e i valori acquisiti della società e della cultura aristocratica greca, e verso l'artificiosità delle loro convenzioni. Legato più a uno stile di vita che a un insegnamento di scuola, nella linea di Socrate ma ben oltre di lui (un " Socrate ammattito " l'avrebbe definito Platone: Eliano Var. hist. XIV 33), Diogene volse l'ironia in paradosso e in franchezza brutale, la frugalità in stretto ascetismo, la misura razionale in impassibilità, l'indifferenza per le opinioni correnti in impudenza provocatrice. Conforme al súo ideale di vita secondo natura, egli si offre non maestro ma esempio nell'esercizio della più radicale autosufficienza, si afferma cittadino non della ‛ pòlis ' ma del mondo, un nomade senza città, senza patria, soggetto alla sola legge universale, spregiatore dei piaceri, delle ricchezze, dei potenti e dei sapienti consacrati. Tale almeno ci fu consegnato dalla tradizione che disegnò in lui e nei suoi simboli il modello del saggio cinico: con la bisaccia, il bastone e un consunto mantello (cfr. Apuleio Apol. 22, Ausonio Epitaph. 19), abitatore di una botte in spregio ai vani splendori, vagabondo e mendico, con una lampada accesa in pieno giorno nell'inutile ricerca dell'uomo autentico. Egli è la saggezza rivestita di un sordido mantello (Cic. Tusc. III XXIII 56), insensibile sia alle ricchezze che alla cupidigia (Sen. Benef. V 4, Tranq. an. VIII 5), indifferente sia alla morte che alla sepoltura (Cic. Tusc. I XLIII 104; rispetto a Socrate è " durior Diogenes... ut Cynicus asperius ").
Tale appunto fu ripreso dalla tradizione cristiana che se in parte recuperò la sua carica negatrice rivolgendola contro di lui e il mondo pagano (Tertull. Apol. XIV 9 XXXIX 14, Ad Nat. I 10; Girol. Ep. CXXIII 14 e Tertull. Apol. XLVI 10; Latt. Inst. epit. 34; Agost. Civ. XIV 20, Cont. Jul. pelag. IV XV 75 [Patr. Lat. 44, 777]), vide in lui la prefigurazione di alcune fondamentali virtù cristiane, e nel cinismo una valida premessa dell'ascetismo monastico. S. Girolamo aveva dato di lui un ritratto che incontrerà larga eco nel Medioevo (Adv. Jovinian. II 9 e 14 [Patr. Lat. 23, 318A-319A]): " Huius [di Antistene] Diogenes ille famosissimus sectator fuit, potentior rege Alexandro, et naturae victor humanae... palliolo duplici usus sit propter frigus: peram pro cellario habuerit: secumque portavit clavam ob corpusculi fragilitatem... Habitavit autem in portarum vestibulis et porticibus civitatum. Cumque se contorqueret in dolio, volubilem se habere domum jocabatur... Quodam vero tempore habens ad potandum caucum ligneum, vidit puerum manu concava bibere, et elisisse illud fertur ad terram, dicens: Nesciebam quod et natura haberet poculum. Virtutem eius et continentiam mors quoque indicat. Nam cum ad agonem Olympiacum... iam senex pergeret, febri in itinere dicitur apprehensus, accubuisse in crepidine viae: volentibusque eum amicis, aut in jumentum, aut in vehiculum tollere, non acquievit: sed transiens ad arboris umbram locutus est: ‛ Abite, quaeso, et spectatum pergite: haec me nox aut victorem probabit, aut victum. Si febrem vicero, ad agonem veniam: si me vicerit febris, ad inferna descendam '. Ibique per noctem eliso gutture, non tam mori se ait, quam febrem morte excludere. Unius tantum philosophi exemplum posui, ut formosuli nostri et torosuli, et vix summis pedibus adumbrantes vestigia... qui paupertatem apostolorum et crucis duritiam, aut nesciunt, aut contemnunt, imitentur saltem gentilium parcitatem " (cfr. il Fiore e vita di filosafi, IX " Diogene ", che è quasi in tutto una traduzione di questo passo).
Così, in una contaminazione di fonti classiche ed elaborazioni medievali, sorge tutta una serie di exempla diogeniani. Egli è il Diogene che, nato libero e venduto come schiavo, mantiene tuttavia la libertà interiore (Sen. Ep. XLVII 12, Gellio II 18, Macrobio Satur. I XI 7, Giovanni di Salisbury Polic. VIII 12, 15; sulla fuga del suo schiavo serenamente accettata: Sen. Tranq. an. IX 8), che divenuto povero conquista la vera ricchezza (Macrobio Satur. VII III 21), la locuples paupertas (Sen. Tranq. an. IX 8, Vincenzo di Beauvais Spec. mor. I III 104 [" De paupertate "], III VII 2 [" De detestatione avaritiae "]; Spec. hist. III 68-69, su Diogene e i cinici, e Spec. doctr. V 63 sulla sua sopportazione del dolore), che, nell'ideale di totale autosufficienza, infrange la sua ciotola vedendo un fanciullo bere nel cavo della mano (Sen. Ep. XC 14, Vincenzo di Beauvais Spec. mor. I III 104, Giov. di Salisbury Polic. V 17, che accosta il suicidio di Diogene a quello di Catone, ecc.). Famosissimo, e continuamente ripreso come segno dell'indifferenza del saggio virtuoso di fronte ai potenti, l'episodio di Alessandro Magno che visitando Diogene e richiestogli cosa volesse, si sentì rispondere di non coprirgli il sole (Cic. Tusc. V XXXII 92, Seneca Benef. V 4, 6 " multo potentior, multo locupletior Alexandro ", Valerio Mass. Fact. et dict. IV III 4, Vincenzo di Beauvais Spec. doctr. IV 104, Brunetto Tresor II CXVIII 9, cfr. LII 104).
Tutto ciò spiega la grande fortuna di Diogene e la ricca fioritura dei suoi detti (Diogene è topico negli esempi di chriæ, cioè di detti memorabili; cfr. Grammatici Latini, ediz. H. Keil, I 310, III 431-432, VI 273). Nel Liber philosophorum moralium antiquorum (ediz. E. Franceschini, pp. 41-46) è il " Diogenes dictus caninus .., sapiencior sui temporis, abhominator mundi et negligens eum "; Gualtiero Burley gli dedica un ampissimo capitolo (Liber de vita et morib. philosoph. c. 50); Giovanni Waleys (Compendil. III II 2-10) ne celebra la " virtus " e la " continentia ", la " constantia " e la " patientia ", riconducendolo però entro i limiti del pagano non illuminato dalla Grazia (" Fuit ergo iste virtuosus eo modo quo potuit esse sine gratia; " " Haec omnia collecta sunt non ob ipsius commendationem, cum nullus sit undique commendandus absque divina gratia perficiente, sed ad excitationem fidelium philosophantium ad ipsum imitandum in praedictis operibus "). Il Fiore e vita di filosafi (c. IX) lo ricordava infine come " de troppo grande virtude e de grande contenenza ".
Di fronte a una così compatta tradizione, è indubbio che in lui va riconosciuto il Diogene dantesco. Né lo dubitarono i primi commentatori che quella tradizione avevano ben presente (cfr. l'ampia dossografia del Boccaccio nelle Esposizioni sopra la Comedia di D., ediz. G. Padoan, 242-244). Puramente congetturale la proposta di Diogene d'Apollonia (un naturalista greco del V secolo a.C.) da parte del Bottagisio (Il Limbo dantesco, Padova 1898, 373-374, rievocata da F. Mazzoni, Il canto IV dell'Inferno, in " Studi d. " XLII [1965] 191), avanzata sulla base di testi aristotelici e dei commenti tomistici (Metaph. I 3 [984a 5], lect. IV, Phys. I lect. II, Gen. et corrupt. I 6 [322b 13], lect. XVIII), ove compare il semplice nome Diogene accanto a quelli di Anassagora Talete ed Empedocle. Anche accettando questi testi come fonti dirette (ma quanto vale, in questo caso, l'ipotesi di una supina dipendenza da Aristotele e Tommaso?) è certo che semmai D. dovette riconoscere qualcuno in quel Diogene, non poté non pensare al filosofo cinico, ben più autorizzato dell'altro a incarnare la virtù antica tra coloro che furono dinanzi al cristianesmo, ricco quant'altri mai di mercedi seppure privo di battesmo (If IV 34-47).