Dinner at Eight
(USA 1933, Pranzo alle otto, bianco e nero, 113m); regia: George Cukor; produzione: David O. Selznick per MGM; soggetto: dall'omonima commedia di Edna Ferber e George S. Kaufman; sceneggiatura: Herman J. Mankiewicz, Frances Marion, Donald O. Stewart; fotografia: William Daniels; scenografia: Hobe Erwin, Fred Hope; musica: D.R. William Axt.
La signora Jordan ha organizzato per la serata una cena in onore d'una coppia di aristocratici inglesi di passaggio a New York. Nel pomeriggio, mentre la moglie dirige i preparativi con spiccata inconcludenza, il signor Jordan, proprietario d'una società di navigazione, deve affrontare il pensiero d'una possibile bancarotta e d'una salute seriamente compromessa. Tra le cause delle sue difficoltà economiche stanno anche le manovre dello speculatore Packard, rozzo parvenu che la signora Jordan ha comunque pensato bene di invitare alla serata insieme alla giovane, vistosa e petulante moglie. Arriva in città per l'occasione Carlotta Vance, ex grande attrice teatrale, amica di famiglia e antica fidanzata di Jordan, con il quale ha infatti un breve, affettuoso e nostalgico incontro negli uffici di lui. Ex grande attore, pure invitato alla cena, è anche Larry Renault: alcolizzato, depresso e senza scritture vive recluso in un albergo che non può più pagare. All'insaputa dei genitori ha una relazione con lui la figlia dei Jordan, Paula, che tuttavia nel corso della giornata viene respinta dall'attore; sapendosi finito Larry si finge, per allontanarla, l'indifferente libertino che ormai da tempo non è più. Il medico di Jordan, amante della signora Packard, giunge nel frattempo a una triste resa dei conti con la moglie; i Packard, nella loro casa d'opulenza pacchiana, litigano sulla possibile carriera politica di lui; duramente offeso dal suo agente, che gli ha offerto una particina di terzo piano, Larry Renault infine si uccide con un colpo di pistola nella sua stanza d'albergo. Ma l'unico cruccio della signora Jordan sono i due nobili inglesi che hanno disdetto un invito forse mai veramente accettato e la obbligano, per far numero intorno alla tavola, a sostituirli con una coppia di cugini poveri. Larry non arriva, e non manda scuse; ma alle otto, puntualmente, tutti entrano nella sala da pranzo, e la signora Jordan chiude le porte dietro di sé.
Commedia amara degli anni di Depressione, commedia persino beckettiana: giocata, in rigorosa unità di tempo, nell'attesa di quel pranzo mondano che infine arriverà, ma da cui saremo esclusi (le porte che si chiudono sul nostro sguardo), e che comunque non arriverà per tutti. Si attenderanno invano gli ospiti d'onore, un lord e una lady britannici, autentici Godot di un'America borghese confusa, ansiosa, per la prima volta e in modi diversi confrontata con l'umiliazione; si attenderà invano John Barrymore, l'ex grande attore ormai solo magnifico ubriacone, l'unico che con quell'umiliazione non sa giungere a patti. George Cukor diresse Dinner at Eight a poco più di trent'anni, a soli tre anni dal debutto hollywoodiano, ma già aveva mostrato la propria predilezione per la commedia incrinata dal dramma. Stavano diventando sue figure d'autore le vecchie glorie che declinano, i sipari che si abbassano, i giovani che rubano la scena e la vita, la fatale consolazione dell'alcol, i suicidi nel fuoricampo: solo un anno prima aveva girato What Price Hollywood? (A che prezzo Hollywood?), storia d'un regista che nessuno più vuole mentre la moglie ex cameriera diventa una star, molti anni più tardi avrebbe diretto la miglior versione di A Star is Born, dove la stessa parabola coniugale giungeva a piena maturazione mélo.
Tra le storie e le vite di tutti i personaggi, che un solo pomeriggio basta a illuminare di luce cruda, scorre un tale senso di fallimento che c'è da chiedersi come mai Dinner at Eight ci appaia, ancora e inequivocabilmente, una commedia. Tocco tagliente del dialogo (dove l'intervento di un sofisticato umorista come Donald O. Stewart, che ancora per Cukor firmerà The Philadelphia Story ‒ Scandalo a Filadelfia, 1940, tonifica la sceneggiatura di Frances Marion e dell'esordiente Herman J. Mankiewicz, futuro coautore di Citizen Kane); chiarore lussuoso degli arredi firmati dal classico Van Nest Polglase; l'abbaglio kitsch dei rasi e delle piume in cui affonda la nuova ricca Jean Harlow, quasi una caricatura dell'astratta eleganza lubitschiana: ma c'è dell'altro. Nella sua diffusa crudeltà, Dinner at Eight resta un racconto corale di sopravvivenza, dove sopravvivere dipende da strategie che hanno a che fare con humour, incoscienza calcolata e buona messinscena di sé stessi (col suo prezioso cast e il suo raffinato montaggio di vicende private su di un orizzonte comune, Dinner at Eight è film d'attori e di un grande, riconosciuto direttore d'attori).
È il 1933, si sopravvive alla Crisi e alle crisi personali, ai rovesci economici e al passare del tempo, al decadere dei corpi, allo sfaldarsi delle illusioni, all'affronto di non essere più ciò che credevamo, o altri credevano ("Pensavi di essere un grande attore, ed eri solo un grande profilo"). Così sopravvive Marie Dressler, primadonna che faceva girare la testa ai ragazzi ed è ora una matrona dai piedi gonfi, capace di affrontare con ironico autolesionismo le continue allusioni alla sua età ("Vorreste per caso fare due chiacchiere con me sulla Guerra Civile, un giorno o l'altro?"). Ferita nel suo futile orgoglio, sopravvive la padrona di cui i nobili ospiti hanno disdegnato la casa, pronta a rimpiazzarli con due parenti poveri: la Crisi è anche questo, status sociali che scricchiolano e democratizzazione forzata, e il cugino outsider può persino permettersi di recriminare, facendo capire che lui avrebbe molto preferito andare al cinema a vedere Greta Garbo. Sanno ingoiare le lacrime ragazze romantiche e mogli tradite, che già hanno provveduto a raddrizzare con triste realismo la sorte di matrimoni presenti o futuri; e ancora meglio di loro se la cava Jean Harlow, nel pieno fulgore della sua platinatura più insolente e volgarità più infantile, sposata alla fortunosa ricchezza di un truculento Wallace Beery vestito come il gangster d'uno slapstick anni Dieci. Qualcosa, certo, va perduto: non sopravvive, alla crudeltà duramente scandita da un agente teatrale ("Basta che ti guardi allo specchio. Le vedi quelle borse sotto gli occhi, quelle rughe? Ti stai incurvando come una vecchia…"), John Barrymore coi suoi troppi whisky a credito e la sua uscita di scena dalla porta secondaria, in una stanza d'albergo non pagata, senza nemmeno l'ultimo applauso; la crudeltà si raddoppia perché qui Barrymore, "simulacro d'un simulacro" (Edoardo Bruno), sta davvero interpretando i modi della propria ormai non lontana decadenza.
Sulla soglia del pranzo di gala, o di quel che ne resta, il disincanto morale che percorre Dinner at Eight trova sintesi perfetta. Jean Harlow si dice preoccupata, perché ha saputo d'una macchina "che sta per prendere il posto dell'essere umano in tutte le professioni"; la grande, troneggiante Dressler la osserva e la rassicura: "non tema, signorina, per la sua professione non c'è alcun pericolo". Harlow sorride svagata e passa oltre. Sopravvivere è l'arte del rovesciare l'umiliazione in commedia, che sia sorriso, smorfia o fulminante replica; commedia è fingere, e anche fingere di non capire: forse finse di non capire anche la MGM, che tra le tante commedie amabili prodotte in quegli anni fece passare indenne questa splendida unpleasant play.
Interpreti e personaggi: John Barrymore (Larry Renault), Wallace Beery (Dan Packard), Jean Harlow (Kitty Packard), Marie Dressler (Carlotta Vance), Lionel Barrymore (Oliver Jordan), Madge Evans (Paula Jordan), Billie Burke (Millicent Jordan), Lee Tracy (Max Kane), Edmund Lowe (Dr. Wayne Talbot), Karen Morley (Lucy Talbot), Jean Hersholt (Jo Stengel).
P. Lorentz, Dinner at Eight, in "Vanity Fair", October 1933.
G.C. Castello, Riprese di vecchi film, in "Bianco e nero", n. 10, ottobre 1951.
E. Comuzio, George Cukor, Milano 1977.
J. Harvey, Romantic Comedy. From Lubitsch to Sturges, New York 1987.
E. Giacovelli, La commedia del desiderio, Roma 1991.
E. Bruno, Pranzo alle otto, Milano 1994.
J.-L. Bourget, Les invités de huit heures. Théâtre filmé, cinéma pur, in "Positif", n. 397, mars 1994.