Diniego di giurisdizione
La Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione nei confronti della norma nazionale che, secondo l’interpretazione del Consiglio di Stato, negherebbe la possibilità di tutelare diritti soggettivi in accertata violazione dell’art. 6, co. 1, CEDU.
Nelle precedenti edizioni del Libro dell’anno del Diritto sono state già commentate le vicende interpretative della normativa transitoria recata dall’art. 69, co. 7, del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 per disciplinare il rapporto tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa successivamente alla disposta privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, disegnata dal d.lgs. 3.2.1993, n. 29 ed attuata con il d.lgs. 31.3.1998 n. 801. Le disposizioni transitorie avevano lasciato infatti aperto il problema con riferimento alle controversie inerenti questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro antecedente al 30.6.1998 e sottoposte al giudice dopo il 15.9.2000 e, dopo un primo momento in cui l’orientamento giurisprudenziale si era mostrato favorevole a ricomprendere le controversie in questione nella giurisdizione del giudice ordinario, è successivamente prevalso un diverso orientamento, che ha ricollegato alla scadenza del termine la radicale impossibilità di far valere il diritto dinanzi ad un giudice. Dopo che in tal senso si erano pronunciati gli organi di vertice della giurisdizione ordinaria e amministrativa e la stessa Corte costituzionale, la questione è stata portata all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo la quale, con le sentenze del 4.2.2014 (Mottola ed altri c. Italia, n. 29932/07 e Staibano ed altri c. Italia, n. 29907/07), ha ritenuto tale interpretazione in contrasto con l’art. 6, co. 1, della CEDU, a norma del quale «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un temine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile...». Le pronunce della C. eur. dir. uomo hanno posto il problema di stabilire se e quali rimedi siano esperibili nell’ordinamento interno per rimediare all’acclarata ingiustizia della sentenza del giudice (amministrativo) nazionale. Sono state al riguardo seguite due strade: la prima, è stata quella della introduzione di una nuova ipotesi di revocazione per contrasto con la sopravvenuta pronuncia della Corte sovranazionale che abbia riconosciuto la lesione di un diritto fondamentale; la seconda, quella dell’impugnazione in cassazione, ove ancora possibile, per rifiuto di giurisdizione della sentenza che abbia negato la tutelabilità del diritto in contrasto sempre con la pronuncia della Corte sovranazionale. In tutte e due le occasioni la Corte costituzionale, investita della questione, ha ritenuto di dover lasciare le cose così come stavano.
La prima via è stata tentata dai ricorrenti vittoriosi nei giudizi definiti dalla C. eur. dir. uomo nelle cause Mottola e Staibano, che hanno in tal modo cercato di ottenere la riapertura dei giudizi e rimediare all’acclarata ingiustizia delle sentenze, nel frattempo passate in giudicato. Stante l’impossibilità di ricondurre l’ipotesi di specie nei casi di revocazione ordinaria o di revocazione straordinaria, l’Adunanza Plenaria ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. in relazione agli artt. 117, co. 1, 111 e 24 Cost. nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della C. eur. dir. uomo che abbia riconosciuto la violazione del diritto al giudice o all’equo processo. Con la sentenza n. 123 del 26.5.2017 la Corte costituzionale, dopo aver dichiarato inammissibile per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza la questione sollevata con riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 c.p.a. e degli artt. 395 e 396 c.p.c., sollevata, in riferimento all’art. 117, co.1, Cost. ed alla norma interposta dell’art. 46 CEDU. La Corte ha evitato di prendere esplicitamente posizione sul tema del giusto processo e si è limitata ad affermare che l’obbligo di conformazione alle sentenze della Corte avrebbe un «contenuto variabile» e che le misure ripristinatorie individuali diverse dall’indennizzo sarebbero solo eventuali ed adottabili esclusivamente laddove siano «necessarie» per dare esecuzione alle sentenze stesse; e ha concluso che il riesame del caso o la riapertura del processo, pur apparendo come le misure più appropriate nel caso di violazione delle norme convenzionali sul giusto processo, non rappresentano tuttavia un obbligo incondizionato per lo Stato tenuto ad eseguire la sentenza della C. eur. dir. uomo. La Corte costituzionale ha così ritenuto di non estendere al di fuori della materia del diritto penale il principio per cui sussiste l’obbligo del giudice interno di riaprire il processo che sia stato dichiarato ingiusto dalla C. eur. dir. uomo, escludendo che dalla pronuncia di tale Corte possa di per sé nascere un diritto ad esperire un rimedio processuale di tipo revocatorio nelle materie diverse da quella penale2.
La seconda strada è quella che ha originato la rimessione da parte delle Sezioni Unite della questione che viene decisa dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 6 del 18.1.2018. Tale strada si apre perché si è in presenza di una sentenza del Consiglio di Stato non ancora passata in giudicato e che è pertanto ancora impugnabile con ricorso per cassazione (da parte di altri ricorrenti che vantavano la medesima posizione sostanziale fatta valere dai Mottola e Staibano). L’ingiustizia della sentenza, per contrasto con la successiva sentenza della C. eur. dir. uomo che aveva riconosciuto contrastante con l’art. 6 della CEDU l’interpretazione data all’art. 69, co. 7, del d.lgs. n. 165/2001, è stata pertanto dedotta come motivo di ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 8, Cost. e le Sezioni Unite hanno ritenuto di non poter statuire sulla giurisdizione se non previa rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, co. 7, d.lgs. n. 165/2001. La questione da decidere consiste nel dichiarare se sia costituzionalmente legittima o meno la lettura dell’art. 69, co. 7, d.lgs. n. 165/2001, secondo la quale le controversie attinenti al periodo di lavoro anteriore al 30.6.1998 restano attribuite, in via generale e astratta, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, solo qualora proposte a pena di decadenza entro il 15.9.2000. Lettura, si ripete, ritenuta dalla C. eur. dir. uomo contrastante con l’art. 6 della CEDU nelle decisioni Mottola e Staibano. Difficile dubitare realmente della “rilevanza” della questione, se si considera che il giudizio sulla sussistenza o meno della giurisdizione amministrativa, sulle controversie ante 1998 ma non azionate prima del 2000, dipende dalla dichiarazione o meno d’incostituzionalità in parte qua della norma: innanzi alla Corte di cassazione è stata impugnata una sentenza del Consiglio di Stato che ha declinato la giurisdizione in base alla suddetta lettura; se la norma viene in parte qua dichiarata incostituzionale, non sarebbero dubbie la spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo e la censurabilità dell’avvenuto rifiuto da parte della Corte di cassazione; se la norma non viene dichiarata incostituzionale, il rifiuto non sarebbe censurabile da parte della Corte di cassazione. Né dubbio può seriamente esservi sul fatto che la disposizione dell’art. 69, co. 7, d.lgs. n. 165/2001 rechi una norma sulla giurisdizione e che, per accertare in via generale e astratta, senza pregiudicare le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda ai sensi dell’art. 386 c.p.c., se siano tutelabili come diritti soggettivi situazioni lese anteriormente al 1998 ma azionate dopo il 2000, non v’è bisogno di scomodare interpretazioni evolutive di sorta del concetto di rifiuto di giurisdizione e di trasmodare nell’errore di diritto abnorme. L’errore di diritto riguarderebbe comunque una statuizione in punto di giurisdizione3. Eppure la questione viene ritenuta priva di rilevanza dalla Corte costituzionale, assumendo l’estraneità della questione di giurisdizione al sindacato della Corte di cassazione.
La sentenza della Corte costituzionale n. 6/2018 reca importanti affermazioni di principio sul tema del cd. rifiuto di giurisdizione come possibile motivo di ricorso in cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato ai sensi dell’art. 111, co. 8, Cost.4
Nel momento in cui la sentenza afferma esplicitamente che «la tesi che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, previsto dall’ottavo comma dell’art. 111 Cost. avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, comprenda anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando non può qualificarsi come una interpretazione evolutiva, poiché non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale»; ovvero che «il concetto di controllo di giurisdizione … non ammette soluzioni … come quella pure proposta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze ‘abnormi’ o ‘anomale’ ovvero di uno ‘stravolgimento’, a volte definito radicale, delle ‘norme di riferimento’»; o ancora che nell’«ambito di controllo sui ‘limiti esterni’ alla giurisdizione non è consentita la censura di sentenze con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti una interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda», non può essere messo seriamente in dubbio il fatto che essa rappresenti un punto di arresto dell’interpretazione evolutiva propugnata dalla Corte di cassazione del rifiuto di giurisdizione come motivo attraverso il quale censurare appunto interpretazioni, per quanto abnormi, pur sempre riconducibili nell’ambito dell’errore di diritto.
La domanda proposta alla Corte di cassazione chiedeva di annullare la sentenza del Consiglio di Stato, che aveva negato la tutelabilità della situazione soggettiva, adducendo come motivo il sopravvenuto accertamento della C. eur. dir. uomo che la privazione della possibilità di ottenere una decisione giudiziaria contrastava con l’art. 6, co. 1, della CEDU. Il Consiglio di Stato aveva negato, in via generale e astratta, la tutelabilità di situazioni di diritto soggettivo dei pubblici dipendenti (sorte anteriormente al 1998 ma azionate successivamente al 2000) e la C. eur. dir. uomo aveva affermato che l’art. 6 della CEDU non consentiva che tali situazioni soggettive potessero rimanere prive di un giudice. Le Sezioni Unite ritengono di non poter risolvere la questione di giurisdizione se non previa rimessione alla Corte costituzionale della questione di costituzionalità della disposizione regolatrice della giurisdizione, affinché la norma venga dichiarata incostituzionale nella parte in cui non consentirebbe di rivolgersi al giudice amministrativo anche successivamente al 2000 per questioni sorte anteriormente al 1998. Accade però che l’ordinanza di rimessione dell’8.4.2016, n. 6891 non si limiti a rappresentare il contrasto dell’art. 69, co. 7, d.lgs. n. 165/2001 con la norma interposta derivante dall’interpretazione della C. eur. dir. uomo. In questi termini, in punto di giurisdizione la decisione della Corte sarebbe stata praticamente vincolata; in quanto, salva l’applicazione di eventuali controlimiti, la (interposta) norma parametro risultava già interpretata dalla C. eur. dir. uomo in maniera tale da escludere la possibilità di privare i ricorrenti del diritto di accedere ad un giudice. Le Sezioni Unite ritengono invece di dover precisare che «la situazione in questione rientra in uno di quei casi estremi in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento del limite esterno»; e che «quanto al confine oltre il quale non può spingersi il sindacato delle Sezioni unite sull’esercizio della giurisdizione da parte del Consiglio di Stato, è andata affermandosi una nozione di ‘limite esterno’ collegato all’evoluzione del concetto di giurisdizione, da intendere in senso dinamico, nel senso dell’effettività della tutela giurisdizionale. Il diritto a tale tutela, secondo tale visione, non è costituito dalla possibilità non solo di accedere in senso formale alla giurisdizione mediante il diritto all’azione, ma anche dalla possibilità di ottenere una concreta tutela giudiziale, esercitata secondo i canoni del giusto processo. In quest’ambito, il giudizio sulla giurisdizione rimesso alle Sezioni unite non è più riconducibile ad una verifica di pura qualificazione della situazione soggettiva dedotta, alla stregua del diritto oggettivo, né è rivolto al semplice accertamento del potere di conoscere date controversie attribuito ai diversi ordini di giudici di cui l’ordinamento è dotato, ma costituisce uno strumento per affermare il diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi. Dunque, ‘è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto a quel potere stabilendo le forme di tutela attraverso le quali esso si estrinseca’...». Sono considerazioni non inedite, già presenti in diverse pronunce delle Sezioni Unite dell’ultimo decennio, ma che sono sempre rimaste, come avviene anche nel caso di specie, puramente incidentali rispetto al percorso logico necessario della decisione. Una siffatta argomentazione, non necessaria per giustificare la decisione in punto di giurisdizione nel caso di specie, finisce però con il fuorviare anche la pronuncia della Corte costituzionale, che ritiene la questione non rilevante ai fini del giudizio a quo perché esclude che nei suddetti termini possa mai configurarsi una questione di giurisdizione.
La Corte ritiene infatti che il controllo sui limiti esterni della giurisdizione non consente di censurare «sentenze con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti una interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda», anche qualora si tratti di «casi in cui si sia in presenza di sentenze ‘abnormi’ o ‘anomale’ ovvero di uno ‘stravolgimento’, a volte definito radicale, delle ‘norme di riferimento’». Il percorso motivazionale della decisione è volto tutto a confutare la tesi che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione possa comprendere anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando qualificandosi come una interpretazione evolutiva poiché ciò «non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale». Al riguardo la Corte precisa che la disposizione recata dal co. 8, dell’art. 111 Cost. «attinge il suo significato e il suo valore dalla contrapposizione con il precedente comma settimo, che prevede il generale ricorso in cassazione per violazione di legge contro le sentenze degli altri giudici, contrapposizione evidenziata dalla specificazione che il ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso per i ‘soli’ motivi inerenti alla giurisdizione», con la conseguenza che deve ritenersi «inammissibile ogni interpretazione di tali motivi che, sconfinando dal loro ambito tradizionale, comporti una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso». La parificazione dei due rimedi metterebbe in discussione la scelta di fondo dei Costituenti dell’assetto pluralistico delle giurisdizioni, già ribadita, ha osservato sempre la Corte, nella decisione n. 204 del 6.7.2004, nella quale si è sottolineato che l’unità funzionale non implica unità organica delle giurisdizioni e che «la unità non organica, ma funzionale di giurisdizione … non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé». Anche il richiamo di princìpi fondamentali quali la primazia del diritto comunitario, l’effettività della tutela, il giusto processo, al pari dell’unità funzionale della giurisdizione, non varrebbe a fondare la qualificazione della questione come propriamente di giurisdizione, perché, osserva sempre la Corte, «quanto all’effettività della tutela e al giusto processo, non c’è dubbio che essi vadano garantiti, ma a cura degli organi giurisdizionali a ciò deputati dalla Costituzione e non in sede di controllo sulla giurisdizione». Dopo aver precisato anche che l’allargamento del concetto di giurisdizione non può essere giustificato nemmeno dalla presunta eccessiva espansione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, né dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU, poiché in entrambi i casi verrebbe sempre ricondotto al controllo di giurisdizione un motivo di illegittimità, la Corte non può fare comunque a meno di osservare che «rimane il fatto che, specialmente nell’ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all’art. 395 cod. proc. civ., come auspicato da questa Corte con riferimento alle sentenze della Corte EDU (sentenza n. 123 del 2017)».
Certamente, i termini in cui le Sezioni Unite hanno motivato l’ordinanza di rimessione della questione alla Corte costituzionale non hanno aiutato ad impostare la questione nei termini migliori possibili. Rimane il fatto che l’effetto finale, conseguente alla pronuncia d’inammissibilità della Corte costituzionale, è che l’accertata violazione di un diritto fondamentale rimane nell’ordinamento nazionale priva di un giudice che possa dare ad esso tutela. Se le cose stanno così, sembrerebbe proprio che le nostri Corti Supreme siano riuscite a creare un bel pasticcio.
Il primo problema che si pone è senz’altro quello di capire se la pronuncia della Corte costituzionale implica che si debba ritenere definitivamente tramontata la possibilità di far valere il rifiuto di giurisdizione come motivo di ricorso in cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato.
La risposta da dare al riguardo è sicuramente negativa, per la semplice ragione che una cosa è voler censurare l’interpretazione evolutiva della figura, altra negarne l’esistenza in assoluto.
Rifiuto di giurisdizione è infatti la formula adoperata per indicare la negazione in astratto della possibilità di tutelare un interesse che l’ordinamento vuole invece protetto. Scarsamente impiegata nel meno recente passato, è stata riscoperta ed enfatizzata a seguito del riconoscimento della risarcibilità degli interessi legittimi e dell’ampliamento dei casi di giurisdizione esclusiva, ma ciò non significa affatto che la figura, di per sé considerata, al pari dell’eccesso di potere giurisdizionale e del conflitto relativo, non sia sempre stata pacificamente compresa tra le possibili ipotesi di ricorso in cassazione per motivi di giurisdizione. Se solo si prende come termine di riferimento la classificazione operata (verrebbe da dire, in tempi non sospetti) da Mario Nigro, si vede come la tipizzazione dei possibili motivi di giurisdizione non solo comprende espressamente la figura, ma apre proprio con essa l’elencazione delle tre possibili ipotesi classiche: «a) rifiuto di esercizio della potestà giurisdizionale sull’erroneo presupposto che la materia non possa essere oggetto, in modo assoluto, di funzione giurisdizionale o che non possa essere oggetto della funzione giurisdizionale propria dell’organo investito della domanda; b) invasione della sfera dell’altrui giurisdizione, cioè di quella attribuita ad altro giudice (giudice ordinario o giudice speciale); c) cd. eccesso di potere giurisdizionale … sconfinamento dell’attività giurisdizionale ordinaria o speciale nel campo dei poteri spettanti ad organi amministrativi o legislativi o costituzionali…»5. Per tradizione consolidata, motivo di giurisdizione è dunque non solo l’ipotesi del conflitto relativo di giurisdizione, reale o virtuale, tra giudice ordinario ed amministrativo; ma anche quella dell’eccesso di potere giurisdizionale, che si configura laddove il giudice amministrativo si sostituisce al legislatore o all’amministrazione tutelando situazioni soggettive che l’ordinamento non considera invece rilevanti come interessi protetti; nonché quella del rifiuto di giurisdizione, che si configura appunto laddove il giudice amministrativo nega in via generale e astratta la possibilità di tutelare un interesse che l’ordinamento vuole invece protetto. Quello che è accaduto nei tempi più recenti non è dunque stata la creazione della figura in sé considerata del rifiuto di giurisdizione, ma solo il fatto che tale figura sia stata in un certo senso riscoperta e valorizzata. Le ragioni del rinnovato interesse per la figura sono note e sono state poc’anzi già richiamate. L’affermazione del principio della risarcibilità degli interessi legittimi e della giurisdizione amministrativa su tali controversie, da un lato, e l’ampliarsi dei casi di giurisdizione esclusiva, dall’altro, hanno avuto l’effetto di travasare dalla giurisdizione ordinaria a quella amministrativa un gran numero di situazioni giuridiche di diritto soggettivo. Ciò ha posto non solo il problema di ridefinire il punto di equilibrio in tema di riparto di giurisdizione, ma anche di capire se e quale possibilità di jus dicere avessero le Sezioni Unite nel caso in cui allo spostamento della tutela della situazioni di diritto soggettivo dall’uno all’altro giudice si fosse accompagnato un mutamento qualitativo della tutela fruibile.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione si sono mosse in entrambe le suddette direzioni. La prima direzione l’ha appunto portata a rivitalizzare la figura del rifiuto di giurisdizione, ritenuta applicabile le volte in cui il giudice amministrativo avesse negato (non la tutela nel concreto di un caso di specie, ma) la tutelabilità in via generale ed astratta di una determinata situazione soggettiva. Il principio di diritto ritenuto al riguardo applicabile viene esplicitamente enunciato da Cass., S.U., 23.12.2008, n. 30254, nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 363 c.p.c., nei seguenti termini: «Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento»6. La sentenza chiude l’annosa querelle sull’autonomia dell’azione risarcitoria nell’ambito del processo amministrativo tenendo comunque fermo che il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 111 Cost., è ammissibile se ed in quanto il diniego di giurisdizione si configuri come aprioristico, e non se la tutela si assuma negata in conseguenza di errori di giudizio che si prospettino commessi in relazione allo specifico caso sottoposto all’esame del giudice. La seconda direzione in cui si muovono le Sezioni Unite è quella di non limitare più il sindacato sulle sentenze del Consiglio di Stato ai soli motivi di giurisdizione, ma di estenderlo anche all’errore di diritto le volte in cui si fosse in presenza di decisioni abnormi. Il tentativo è di estendere e dilatare il principio della giurisdizione unica sui diritti soggettivi alle forme e ai modi di concreto esercizio della funzione giurisdizionale7. Si tratta comunque di un tentativo che, a ben guardare, rimane più teorico che concreto; nel senso che la teorizzazione si trova ripetuta in affermazioni che, a partire dalla già ricordata sentenza n. 30254/2008, rimangono quasi sempre incidentali o parentetiche nel percorso motivazionale di decisioni che giustificano pur sempre il sindacato sulla giurisdizione solo e soltanto se vi è aprioristico diniego di tutela, in via generale e astratta, di una situazione giuridica soggettiva8. Tale considerazione ha l’effetto di chiarire che la figura del rifiuto di giurisdizione e la sua evoluzione in termini di abnorme errore di diritto sono cose ben distinte e che lasciare fuori dal campo delle questioni di giurisdizione la seconda non implica l’automatica scomparsa della prima. Ben si comprende allora l’importanza della precisazione che l’intero percorso motivazionale seguito dalla Corte costituzionale è focalizzato sull’interpretazione evolutiva del rifiuto di giurisdizione in termini di abnorme errore di diritto, non già sull’ipotesi classica del rifiuto di giurisdizione ravvisabile laddove vi sia un diniego aprioristico, fatto in via generale e astratta, sulla tutelabilità di una situazione soggettiva. Si può senz’altro convenire sul fatto che l’errore in judicando o in procedendo, per quanto abnorme, non possa essere sindacato come motivo di giurisdizione attesa la distinzione organica delle giurisdizioni.
Altra cosa sarebbe però ritenere definitivamente venuta meno la possibilità di sindacare il rifiuto di giurisdizione nella forma per così dire classica, che ha sempre avuto cittadinanza nell’ambito dei motivi di giurisdizione.
È la stessa Corte costituzionale che sottolinea come «l’eccesso di potere giudiziario, denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici»; ovvero laddove mostra comunque di condividere la giurisprudenza maggioritaria delle Sezioni Unite la quale afferma che «‘il cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione e, tuttavia, nell’esercitarla, applichi regole di giudizio che lo portino a negare tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un errore all’interno di essa’; e che, ‘poiché la distinzione fra la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali ha come implicazione necessaria che ciascuna giurisdizione si eserciti con l’attribuzione all’organo di vertice interno al plesso giurisdizionale del controllo e della statuizione finale sulla correttezza in iure ed in facto di tutte le valutazioni che sono necessarie per decidere sulla controversia, salvo quelle che implichino negazione astratta della tutela giurisdizionale davanti alla giurisdizione speciale ed a qualsiasi giurisdizione (rifiuto) oppure alla negazione della giurisdizione accompagnino l’indicazione di altra giurisdizione (diniego), non è possibile prospettare che, fuori di tali due casi, il modo in cui tale controllo viene esercitato dall’organo di vertice della giurisdizione speciale, se anche si sia risolto in concreto nel negare erroneamente tutele alla situazione giuridica azionata, sia suscettibile di controllo da parte delle Sezioni Unite’». In tal senso sembrerebbe si stiano del resto già orientando le Sezioni Unite successivamente alla sentenza n. 6/2018, laddove hanno affermato che «merita convinta adesione» la giurisprudenza maggioritaria della Corte di cassazione che, pur disattendendo l’impostazione fondata su di un concetto evolutivo o dinamico o funzionale della giurisdizione, nondimeno ritiene sindacabile l’aprioristico diniego di giustizia, soprattutto in caso di violazione di norme sovranazionali con l’esito di preclusione dell’accesso alla tutela giurisdizionale9.
1 Cfr. Francario, F., Revocazione per contrasto con pronuncia di corte di giustizia (Cons. St., A.P., 4.3.2015, n. 2), in Libro dell’anno del Diritto 2016, Roma, 2016, 745 ss.; Id., Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Libro dell’anno del Diritto 2017, Roma, 2017, 708 ss.; Id., Giudicato e revocazione, in Libro dell’anno del Diritto 2018, Roma, 2018, 697 ss.
2 Amplius v. Francario, F., La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza, in federalismi.it, 2017. In tema v. anche Nardocci, C., Esecuzione delle sentenze CEDU e intangibilità del giudicato civile e amministrativo. L’orientamento della Corte costituzionale, ivi, 2018.
3 Cfr. Cannada Bartoli, E., Sui “motivi attinenti alla giurisdizione”, in Foro amm., 1963, 316: «L’erronea valutazione di una data situazione giuridica come diritto o come interesse o, anche, come situazione giuridicamente irrilevante, costituisce violazione o falsa applicazione della norma, o delle norme, cui, secondo i diversi assunti delle parti, si collega quella situazione», risultando con ciò esclusa «in linea di principio l’antitesi tra errores in judicando e motivi attinenti alla giurisdizione».
4 Tra i primi commenti sistematici v. Villata, R., La (almeno per ora) fine di una lunga marcia (e i possibili effetti in tema di ricorso incidentale escludente nonché di interesse legittimo quale figura centrale del processo amministrativo), in Riv. dir. proc., 2018, 325 ss.; Id., Postilla a la (almeno per ora) fine di una lunga marcia, ibidem, 743 ss.; Mazzamuto, M., Motivi inerenti alla giurisdizione. Il giudice delle leggi conferma il pluralismo delle giurisdizioni, in Giur. it., 2018, 704 ss.; Tomaiuoli, P., L’altolà della Corte costituzionale alla giurisdizione dinamica (a margine della sentenza n. 6 del 2018), in consultaonline, 2018.
5 Nigro, M., Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, 197.
6 L’enunciazione del principio nell’interesse della legge, da parte di Cass., S.U. n. 30254/2008, è esplicitamente finalizzata a confermare l’orientamento già espresso nelle ordinanze del 13.6.2006, nn. 13659 e 13660 e del 15.6.2006, n. 13911, con le quali le Sezioni Unite avevano affermato che «Tutela risarcitoria autonoma significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l’illegittimità di tale agire. Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento né il diritto al risarcimento può essere per sé disconosciuto da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovvero la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità. Dunque il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione». Attesi i limiti della presente voce non è possibile ricostruire l’articolato e sterminato dibattito che sul piano dottrinario accompagna tale evoluzione. Per una efficace sintesi si veda, per tutti, Villata, R., Corte di cassazione, Consiglio di stato e cd. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., 2009, 897 ss.
7 I termini del più ampio dibattito in cui s’inscrive l’orientamento delle Sezioni Unite sono efficacemente sintetizzati e riassunti nel Memorandum sulle tre giurisdizioni superiori, in Foro it., V, 57 ss. con interventi di Proto Pisani, A.Scarselli, G., La strana idea di consentire ai giudici amministrativi di comporre i collegi delle sezioni unite; Canzio, G., Le buone ragioni di un memorandum; Proto Pisani, A., Chiosa ad una recente conferenza tenuta a Roma il 18 dicembre 2017 presso il Parlamento in tema di giustizia con la partecipazione di autorevolissime personalità; Carratta, A.Costantino, G.Ruffini, G., Per la salvaguardia delle prerogative costituzionali della Corte di Cassazione; Lamorgese, A., Note in margine al memorandum sulle giurisdizioni; Scoditti, E., Il mutamento costituzionale materiale su diritti soggettivi e giudice amministrativo e il sindacato della Corte di Cassazione; Amoroso, G., Le sezioni unite civili della Corte di cassazione a composizione allargata: considerazioni a margine del memorandum sulle tre giurisdizioni; Patroni Griffi, F., Per un dialogo tra le corti al sevizio del cittadino e non di giudici e giuristi; Luciani, M., Il memorandum delle giurisdizioni superiori e la discussione sulla certezza del diritto; Travi, A., Rapporti tra le giurisdizioni e interpretazione della Costituzione; Consolo, C., La base partecipativa e l’aspirazione alla nomofilachia; Pajno, A., Un memorandum virtuoso; D’Auria, G., Memorandum sulle giurisdizioni e Corte dei Conti; Barone, C.M.Pardolesi, R., Qualche minimale considerazione conclusiva.
8 Cfr. Cass., S.U., 20.1.2012, n. 1013; Id., 4.2.2014, n. 2403; Id., 6.2.2015, n. 2242; Id., 29.12.2017, n. 31226.
9 Cass., S.U., 30.7.2018, nn. 20168 e 20169.