Produttività, differenziali di
La produttività misura l'efficienza di un processo produttivo o, in generale, di un intero sistema economico, ed è espressa dal rapporto fra gli output e gli input impiegati per ottenerlo. Si parla di produttività totale dei fattori quando si pongono al denominatore di tale rapporto tutti gli input, o fattori della produzione, impiegati; si parla di produttività di un input o fattore quando si considera il rapporto fra output e quantità impiegata di quello specifico input o fattore. La nozione di produttività di gran lunga più usata è quella di produttività del lavoro. Quest'ultima, a sua volta, può essere misurata dividendo l'output per il numero di ore lavorate (produttività oraria del lavoro) o di lavoratori impiegati (produttività del lavoro per occupato). Tanto più elevata è la produttività di un Paese, tanto maggiore è la sua capacità di produrre beni e servizi. In generale, i Paesi, o aree, che registrano la crescita più rapida della produttività sono quelli che realizzano la crescita più sostenuta della produzione. Quest'ultima, a sua volta, favorisce la crescita della produttività. Esiste, in altre parole, un circolo virtuoso fra questi due tipi di crescita: una crescita sostenuta dell'economia favorisce e facilita l'adozione di quelle tecnologie che determinano significativi aumenti della produttività del lavoro. Infatti, l'adozione di tali tecnologie è possibile e conveniente solo in un contesto dinamico di sviluppo e ampliamento dei mercati. Un'elevata produttività incide positivamente sui costi di produzione e, quindi, rende i beni prodotti meno cari. In un mondo caratterizzato da una crescente internazionalizzazione della sfera economica e da una crescente competizione fra Paesi (o aree) per difendere o accrescere la propria quota di commercio internazionale, la dinamica della produttività acquista un'importanza ancor più decisiva. In generale, i Paesi che riescono a fare crescere e aumentare la produttività più rapidamente accrescono la loro competitività.
Sono necessari pochi dati per illustrare la dinamica della produttività in vari Paesi e aree. Gli anni Settanta e Ottanta furono caratterizzati dal fatto che la produttività negli Stati Uniti cresceva meno rapidamente che nei principali Paesi europei e in Giappone. Negli anni Novanta la produttività statunitense continuò a crescere più lentamente, ma il differenziale si restrinse. Infine, nel periodo 2000-2005 si è verificata una netta inversione: gli Stati Uniti hanno fatto registrare il più elevato aumento di produttività, mentre in Europa tale aumento è sceso a livelli mai toccati nei precedenti decenni. Per quanto riguarda la dinamica della relazione fra produttività e PIL, è facile osservare come il rallentamento della crescita della produttività in Europa si sia accompagnato a quello della produzione (v. tab. 1).
Se all'interno di tale contesto ci si volgesse a considerare la posizione relativa dell'Italia rispetto ad altri Paesi, emergerebbe un quadro negativo, dato che questa è andata peggiorando. Nel quadro del generale rallentamento degli aumenti della produttività in Europa, l'Italia ha fatto registrare quello più accentuato: posta uguale a 100 la produttività oraria del lavoro nell'Unione Europea a 15, nel 1995 quella italiana era pari a 101,9, ma nel 2004 era scesa a 92 (v. tab. 2). In altre parole, a metà degli anni Novanta la produttività italiana era al disopra della media UE; dieci anni dopo era scesa ben al di sotto. Negli anni 2000-2002 la produttività italiana è addirittura diminuita. Come osservato precedentemente, esiste una stretta associazione fra produttività e produzione. Quanto emerge dall'esame della situazione italiana sembra confermarlo: il tasso di crescita del PIL italiano è andato declinando parallelamente a quello della produttività (v. tab. 1).
I dati sulla produttività considerati finora si riferiscono all'intera economia, ma il quadro italiano non muta se si esaminano dati più disaggregati. Uno studio dell'Eurostat (2005), che confronta la produttività del lavoro nel 2003 in tre grandi macrosettori (industria manifatturiera, commercio e altri servizi) in Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna, mostra che in tutti i settori la posizione italiana era decisamente peggiore di quella francese, tedesca e britannica e vicina a quella spagnola. Il valore aggiunto per addetto nel totale dell'industria manifatturiera dei cinque Paesi era pari a 51.200 euro, ma in Italia raggiungeva soltanto i 42.300. Nel commercio, i due valori erano 35.500 e 30.200. Nei servizi, infine, 44.900 e 37.000. Il Paese a più elevata produttività era la Germania (superata dalla Gran Bretagna solo nell'industria manifatturiera), con un differenziale rispetto all'Italia che ammontava a 13.000 euro. Un'ulteriore disaggregazione dei dati settoriali appena menzionati fornisce altre interessanti informazioni.
Poiché le variazioni di produttività si differenziano da branca a branca, una variazione del dato aggregato può essere il risultato di una variazione del peso relativo delle varie branche. Per es., un rallentamento della dinamica della produttività per quanto riguarda l'intera industria può derivare dal fatto che hanno acquistato più peso (in termini di produzione, occupazione o numero di ore lavorate) comparti meno dinamici per quanto concerne l'andamento della produttività. Secondo l'ISTAT (2006), un fenomeno di questo tipo si è verificato in Italia tra il 2000 e 2003. Il valore aggiunto per ora lavorata in 28 settori dell'economia è rimasto invariato; ciò è stato il risultato di un generale ristagno della dinamica della produttività, ma è dipeso anche dal fatto che nell'aggregato hanno acquistato maggior peso settori a più bassa produttività. Più precisamente, l'ISTAT rileva che tutti i comparti che hanno aumentato il proprio peso in termini di ore lavorate sono comparti con produttività più bassa della media e che hanno fatto registrare una riduzione della loro produttività oraria.
L'andamento della produttività nei diversi settori dipende da vari fattori, uno dei quali è probabilmente la dimensione delle imprese. L'evidenza empirica mostra che la produttività è più elevata nelle imprese di dimensioni più ampie. In molti casi, infatti, solo queste ultime consentono l'adozione di processi produttivi più efficienti; si realizzano, in altre parole, significative economie di scala. La dimensione delle imprese non è determinante soltanto per quanto riguarda la possibilità di adottare o meno tecniche che sono efficienti soltanto per scale di produzione abbastanza ampie, ma anche perché essa è legata alla possibilità e convenienza per l'impresa di effettuare significativi investimenti sia in ricerca sia in sviluppo, che, a loro volta, incidono positivamente sulla produttività. Solo imprese relativamente grandi possono effettuare significativi investimenti di questo tipo.
Anche da questo punto di vista, la situazione italiana non appare positiva. Com'è noto, nel nostro Paese la grandissima maggioranza delle imprese in tutti i settori ha dimensioni piccolissime (nel 2004 quasi il 95% aveva meno di 10 addetti), e, come è stato sottolineato, esiste un'elevata correlazione fra dimensioni delle imprese e produttività: al crescere delle dimensioni cresce anche il valore aggiunto per addetto (v. tab. 3). In Italia la prevalenza schiacciante delle imprese piccolissime si riflette anche sulla dinamica delle spese in ricerca e sviluppo. La scarsa capacità delle piccole e piccolissime imprese di effettuare significativi investimenti in ricerca e sviluppo potrebbe, almeno in parte, essere compensata da un forte impegno del settore pubblico in tale campo, ma in Italia anche la ricerca pubblica è carente, com'è confermato dai dati. La spesa totale italiana in ricerca e sviluppo costituisce una percentuale assai ridotta del PIL: in media, durante gli anni Novanta e i primi anni Duemila, poco più dell'1%, il valore più basso fra tutti quelli dei Paesi comparabili con il nostro, con l'eccezione della Spagna.
Nello stesso periodo, il totale dei Paesi OECD ha speso oltre il 2% e l'Unione Europea l'1,83%, con punte che hanno raggiunto 2,25 e 2,33% in Francia e Germania. Il ridotto impegno del nostro Paese sul fronte della ricerca è confermato anche dai dati relativi al numero di ricercatori impiegati: nel 2002, per ogni 1000 occupati in Italia solo tre erano ricercatori; nello stesso anno il loro numero era pari a 9,6 negli Stati Uniti, a 7,5 in Francia e 6,8 in Germania (OECD 2006).
bibliografia
Eurostat, European business facts and figures: data 1995-2004, Luxembourg 2005; ISTAT, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2005, Roma 2006; OECD, Factbook 2006: economic, environmental and social statistics, Paris 2006.