DIETETICA (App. II, 1, p. 778; III, 1, p. 483)
Negli ultimi decenni anche la terminologia attinente alla d. si è adeguata alla necessità di esprimere nuovi concetti, di definire ruoli professionali prima inesistenti e di rispecchiare certi contenuti innovatori della moderna organizzazione ospedaliera.
Il termine "dietetica", pur nella sua genericità, rispecchia ancora validamente, in aderenza al suo etimo greco, il principio generale - di ordine igienico e terapeutico - di commisurare dinamicamente gli apporti di sostanze nutritive ai reali fabbisogni dell'organismo in esame.
Tuttavia, col progredire delle acquisizioni inerenti alla scienza dell'alimentazione (o meglio, secondo il modello espressivo in uso nei paesi anglosassoni, alle scienze nutrizionali), lo stesso termine ha man mano assunto una crescente indeterminatezza, donde l'esigenza, o almeno l'utilità, di una più articolata terminologia. La d., infatti, mira a codificare - più o meno rigorosamente, a seconda dei casi - le norme alimentari applicabili sia ai soggetti in ottimo stato di salute (in questo caso richiamandosi ai precetti generali della fisiologia della nutrizione: v. Nutrizione, in questa App.), sia a quelli che - sebbene in condizioni fisiologiche - sono predisposti o esposti a determinate malattie (dietoprofilassi), sia ai malati (dietoterapia o dietetica clinica).
Nel termine "dietetica", quando sia inteso nella sua accezione più restrittiva, è implicita l'assunzione o la somministrazione di alimenti attraverso il canale alimentare, cioè per via fisiologica (ingestione), o mediante sonda introdotta attraverso cavità naturali (bocca-faringe-esofago-stomaco, oppure naso-faringe-esofago-stomaco) o, eccezionalmente, attraverso brecce operatorie (gastrostomie).
In molte condizioni cliniche può rendersi indispensabile - in via alternativa o complementare - la somministrazione di soluzioni nutritive per via venosa (nutrizione parenterale), ora mediante ripetute fleboclisi (utilizzando le vene superficiali), ora per incannulazione della succlavia (quando si debbano somministrare per tempi protratti e in modo pressoché continuativo, tutte le sostanze nutritive necessarie a coprire i fabbisogni individuali: nutrizione parenterale intensiva).
Per designare unitariamente il complesso dei concetti dottrinali e delle modalità tecniche rivolti ad assicurare all'organismo i fabbisogni giornalieri di principi nutritivi - sia per via digestiva, sia per via parenterale - si tende ad adottare una forma espressiva - nutrizione clinica - ormai affermatasi in altri paesi.
Del pari, il sorgere di nuovi ruoli specializzati e l'istituzionalizzazione dei servizi dietetici in seno ai moderni complessi ospedalieri hanno sottolineato l'esigenza di una più diversificata terminologia per designare le figure degli operatori sanitari inseriti o inseribili in tali servizi: in primo luogo il medico specialista in d. o in scienza dell'alimentazione (dietologo o nutrizionista clinico) e il diplomato (dietista) che in sede ospedaliera applica le direttive generali del dietologo, ne controlla l'osservanza da parte degli addetti alla preparazione dei cibi (rispetto delle razioni prescritte; controllo dei requisiti igienici e di appetibilità, ecc.), prende atto degli effettivi consumi alimentari del paziente, della sua tolleranza nei confronti della dieta, ecc.
Naturalmente, il corretto funzionamento dei servizî dietologici degl'istituti di ricerca presuppone l'esistenza di efficienti "cucine dietetiche", di personale addestrato, di congrue apparecchiature, di locali igienici e razionalmente dislocati. L'impostazione e la risoluzione dei problemi igienico-sanitari, organizzativi, tecnici e amministrativi che incombono su tali servizi vengono generalmente designati con la locuzione omnicomprensiva "dietologia ospedaliera".
In campi extra-ospedalieri - per es. in comunità prevalentemente composte da persone sane (collegi, caserme, ospizi, mense aziendali, scuole a tempo pieno, ecc.) o in gruppi di studio impegnati a condurre inchieste alimeritari - si prospetta anche l'impiego di diplomati (economi dietisti) che collaborano alla valutazione delle razioni individuali, alla gestione economale della mensa, alla raccolta dei dati inerenti ai consumi alimentari, e ad altre attività affini.
I progressi della d. traggono origine dalle recenti acquisizioni che derivano, tra l'altro, dalla chimica e dalla tecnologia degli alimenti, dalla fisiologia, fisiopatologia e patologia della nutrizione, dalle ricerche sperimentali, epidemiologiche e cliniche sulle malattie del metabolismo, dell'apparato digerente, del sistema cardiocircolatorio, ecc. Da tali acquisizioni derivano favorevoli prospettive non solo nel campo terapeutico e preventivo, ma anche in quello fisiologico.
Per quanto riguarda l'applicazione dei princìpi di fisiologia della nutrizione a soggetti in condizioni particolari (gravidanza, allattamento) o sottoposti a eventi stressanti reiterati o di lunga durata (fatica muscolare, avversità climatiche, assenza di gravità, ecc.) sono state più consapevolmente elaborate le relative norme dietetiche. Tra l'altro, sono stati affrontati e risolti, dagli esperti di tecnologia alimentare, i più urgenti problemi alimentari connessi alla navigazione spaziale a breve e medio termine (allestimento di razioni preconfezionate prive di scarti, non frammentabili, non deperibili, organoletticamente gradevoli, ecc.).
Anche in campo dietoprofilattico si sono affinate le conoscenze in merito alle malattie di natura carenziale (v. anche malnutrizione, in questa App.), a quelle da alterazioni metaboliche acquisite (o malattie del ricambio: diabete, gotta, obesità, dislipidemie, ecc.) e ad affezioni degenerative a genesi multifattoriale (aterosclerosi, relative sindromi e complicazioni; epatopatie croniche; dislipidemie; calcolosi delle vie urinarie e biliari; osteoporosi, ecc.). In tali affezioni, incongruenze ed errori alimentari protratti nel tempo rappresentano fattori determinanti o concausali di lesioni biochimiche e organiche che incidono più o meno pesantemente sulla morbilità e la mortalità generale delle popolazioni. Mentre il problema delle malattie da carenza affligge soprattutto i paesi e le regioni sottosviluppate, e quindi sottolinea l'urgenza di più impegnativi programmi di solidarietà internazionale, quello delle malattie del ricambio e della patologia degenerativa connessa a eccessi e squilibri alimentari coinvolge soprattutto nazioni a elevato livello economico, e può essere radicalmente affrontato anche e soprattutto attraverso articolati programmi di educazione alimentare, finora intrapresi seriamente solo da pochi paesi tra i più evoluti dal punto di vista sanitario. Tali programmi - realizzabili non solo attraverso le istituzioni ospedaliere e scolastiche, ma anche con il concorso dei mezzi di comunicazione di massa, delle organizzazioni politiche, delle aziende pubbliche, ecc. - oltre a migliorare il comportamento alimentare della popolazione (con tutte le implicazioni positive sullo stato di salute) e a salvaguardare il pubblico da certa disinformazione mistificante che ricorrentemente ripropone irrazionali e pericolosi indirizzi pseudo-dietetici, si ripercuoterebbero favorevolmente perfino sull'economia domestica dei ceti meno abbienti e sulla bilancia commerciale di molte nazioni, come l'Italia.
Più sostanziali sono i progressi che riguardano la dietoterapia e la nutrizione parenterale.
Per il trattamento di numerose malattie metaboliche congenite, moderno e sempre più folto capitolo della patologia (v. metabolismo, malattie congenite del, in questa App.), sono state messe a punto diete speciali, atte a modificare in modo radicale il decorso di molte affezioni, comprese alcune molto gravi, come la fenilchetonuria e altri quadri morbosi di più recente individuazione (per es. l'omocistinuria, descritta nel 1962), che in passato comportavano irreversibili lesioni delle strutture cerebrali e una severa compromissione dell'attività psichica superiore, fino all'idiozia. Oggi, invece, tali affezioni possono essere efficacemente trattate con misure dietetiche capaci di prevenire ogni danno fisico e psichico; a condizione, però, che la diagnosi sia formulata tempestivamente (addirittura nelle prime settimane di vita, in molti casi).
In merito alle più diffuse malattie metaboliche acquisite, o malattie del ricambio (v. metabolismo: Malattie acquisite, in questa App.), è maturata la consapevolezza dell'insostituibile ruolo del trattamento dietetico che, laddove non costituisca addirittura l'unica misura terapeuticamente valida, rappresenta comunque il cardine fondamentale della cura. Così non soltanto nell'obesità, ma anche nel diabete mellito, nella gotta, nelle dislipidemie (ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, iperbetalipoprotidemia, ecc.). Tra l'altro, nessuna malattia del ricambio può considerarsi adeguatamente curata quando e finché sussiste un eccesso ponderale. Nello stesso diabete, l'eventuale normalizzazione della glicemia con ipoglicemizzanti orali o insulina non sembra migliorare la sopravvivenza se contemporaneamente non viene rispettata la dieta e raggiunta la normalità ponderale.
Inoltre, la moderna dietoterapia di tali affezioni riflette, in modo più netto che in passato, il superamento di certe concezioni piuttosto riduttive e schematiche che focalizzavano l'attenzione solo sul versante metabolico più peculiarmente compromesso (sul metabolismo glicidico nel diabete; sul metabolismo purinico nella gotta; ecc.), e tendevano così a trascurare l'osservanza di un basilare precetto della d., cioè quello dell'equilibrio alimentare, inteso come armonica ripartizione - quantitativa e qualitativa - delle sostanze nutrititive dotate di potere energetico (protidi, glicidi, lipidi). Conseguentemente, ne derivavano regimi restrittivi e disarmonici; per es., nel caso del diabete, diete squilibrate in senso ipoglicidico e iperlipidico, con il rischio, tra l'altro, di un'abnorme produzione endogena di corpi chetonici (chetoacidosi) e di un accumulo nel sangue di colesterolo e di altri lipidi.
Tuttavia, in particolari condizioni patologiche s'impone il ricorso a diete selettivamente restrittive, che comportano, cioè, una più o meno drastica riduzione dell'apporto di un determinato gruppo di insostituibili sostanze nutritive. Una scelta siffatta s'impone, tra l'altro, nell'insufficienza renale cronica in evoluzione uremica, nella quale, a causa della grave compromissione funzionale dei reni, l'eliminazione urinaria di urea e altre scorie azotate è fortemente ridotta. Donde la necessità di stabilire una razione protidica giornaliera (in genere intorno ai 25 grammi), così esigua da risultare appena compatibile con una discreta efficienza fisica e psichica.
Per conciliare la duplice e contrastante esigenza di assicurare all'organismo il fabbisogno giornaliero di amminoacidi essenziali e al tempo stesso di contenere severamente la razione proteica, occorre prescegliere sostanze alimentari di origine animale (latte, uova, ecc.), le cui proteine vantano un elevato valore biologico e, conseguentemente, limitare all'estremo l'apporto di proteine vegetali (più povere di amminoacidi essenziali), il cui contenuto è rilevante anche negli alimenti di più largo consumo, cioè cereali e derivati. Questi, però, possono essere pressoché privati del loro contenuto proteico con appositi procedimenti industriali (pane, pasta e farine aproteici), consentendo cosi un'alimentazione più varia e più consona alle abitudini del paziente. Tuttavia, quando un discreto consumo di questi cereali e loro prodotti non modificati divenga consigliabile per ovviare al rischio di un'eccessiva monotonia della dieta e di un'insidiosa inappetenza, rimane l'alternativa di sopprimere, per brevi periodi, la somministrazione di alimenti di origine animale, e di somministrare per fleboclisi modesti quantitativi di soli amminoacidi essenziali. In ogni caso d'insufficienza renale grave una corretta nutrizione clinica dev'essere guidata da periodici controlli ematochimici, rivolti, tra l'altro, a prevenire o correggere eventuali alterazioni dell'equilibrio elettrolitico del sangue.
Diete ipoprotidiche correttamente condotte consentono non solo di prolungare la vita del paziente ma anche di differire e talvolta perfino evitare il ricorso alla terapia dialitica (v. emodialisi, in questa App.), e al trapianto renale.
Diete orientate in senso opposto, e quindi iperprotidico, sono indicate in condizioni patologiche molto diverse tra loro ma che presentano come carattere comune una protidopenia, cioè una carenza proteica indotta ora da apporto alimentare (anoressie, diete esclusivamente vegetali, ecc.), ora da insufficiente utilizzazione degli alimenti (per insufficienza digestiva o malassorbimento intestinale: v. malnutrizione, in questa App.), ora, infine, da cospicue perdite di materiale proteico (sindromi nefrotiche, ustioni estese, ecc.). Nei casi in cui l'aumento della razione protidica non risulta di per sé sufficiente a colmare il deficit proteico con adeguata rapidità, le misure dietetiche possono essere integrate dalla somministrazione parenterale di amminoacidi.
Tali misure sono però inadeguate, se non addirittura controproducenti, quando l'ipoprotidemia rientra nel quadro clinico della cirrosi epatica conclamata e cioè già in fase ascitica, nella quale s'istaura un drammatico circolo vizioso che continuamente accentua il depauperamento proteico dell'organismo (e comporta non soltanto una diminuzione nel sangue di proteine, ma anche una rallentata sintesi di enzimi, di ormoni a struttura proteica, di fattori antiemorragici, emopoietici, ecc.). In tale condizione, infatti, sussiste un'estrema compromissione della sintesi protidica da parte del fegato, causa prima dell'ipoprotidemia che, a sua volta, crea uno squilibrio osmotico e quindi un trasudamento non solo di acqua e di sali, ma anche di proteine (soprattutto albumine) dai capillari negli spazi extracellulari e segnatamente nella cavità peritoneale (ossia l'ascite). Questa progressiva deplezione proteica può essere corretta soltanto con adeguate somministrazioni endovenose di sieroalbumine umane, da cui possono derivare miglioramenti del quadro clinico in taluni casi sorprendenti (compresa la graduale scomparsa dell'ascite), che si possono protrarre anche per anni.
Nei confronti delle epatopatie in genere (come di molte altre affezioni: gastro-intestinali, colecistiche, vascolari, ecc.), la moderna dietoterapia ha comunque abbandonato schemi irrazionali (diete iperproteiche, diete drasticamente ipolipidiche, ecc.) e catalogazioni troppo perentorie (come certe rigide suddivisioni degli alimenti in "permessi" e "controindicati"), richiamandosi più spesso al precetto dell'equilibrio alimentare, alla valorizzazione dei criteri quantitativi (pur senza trascurare le esigenze qualitative), all'obiettiva valutazione della tolleranza individuale; sempre guidata, però, dalla frequente verifica delle condizioni cliniche e metaboliche, allo scopo di adeguare le misure dietoterapiche alla funzionalità degli organi e allo stato di nutrizione, non trascurando, tuttavia, le reazioni psicologiche del malato e, nei limiti del possibile, le sue abitudini alimentari.
Le possibilità terapeutiche della nutrizione clinica sono in continua espansione e assumono particolare significato nel quadro di un generale ripensamento critico, rivolto a ridimensionare o demolire certi miti terapeutici (come l'utilità degli epatoprotettori nel trattamento delle malattie del fegato) e a contenere i danni di un irrazionale consumismo farmaceutico, responsabile di una crescente diffusione delle malattie jatrogene.