DIALOGO (gr. διάλογος, da διαλέγομαι "converso")
La letteratura classica. - Naturale ed essenziale strumento d'arte per ogni forma letteraria dei Greci - almeno del buon tempo, che ogni loro intuizione traducevano in mimesi drammatica, in vita sensibile, in fantastica azione di personaggi, nel mito insomma secondo che Aristotele l'intende - il dialogo fiorisce ampiamente in Grecia, prima assai che nella prosa filosofica dove acquista, con la particolar cittadinanza, vita e fisionomia sue, e diviene genere letterario, o nel dramma dov'è in casa sua. Non per nulla, appunto nell'elemento drammatico Aristotele trovò la quintessenza della poesia, e a lui, maestro della critica ellenica, Omero appariva sommo fra gli epici perché drammaticissimo, perché cioè non parla da sé, ma fa parlare i suoi personaggi. In Omero la narrazione è tutta pervasa di ragionamenti a due o più. S'intende come il dialogo in Grecia sia parte notevole fin della lirica, in quanto essa abbia, ed ha per lo più, indole narrativa e mitica: tale il ditirambo e il nomo. Ma lo spirito rappresentativo dei Greci ha la sua più genuina espressione nel dramma, dove quasi scompare il poeta, e, scevro d'ogni legame, il dialogo vive per sé stante. Nelle lettere, dramma e dialogo drammatico si formano a Siracusa e ad Atene: al principio dello sviluppo commedie di Epicarmo e mimi di Sofrone stanno in primo posto per l'importanza delle parti dialogiche. E il dialogo di Sofrone era poi in prosa e riproduceva in scene realistiche istantanee di vita e di tipi umani. Non ancora dialogo propriamente detto, esso costì dall'improvvisazione del momento levandosi alla letteratura, sciolto dal verso, aveva rivelato la sua efficacia a ritrarre la vita d'ogni giorno: si capisce l'interesse e l'ammirazione che per Sofrone ebbe Platone. Contenuto nuovo, più alto, più serio, più profondo, e un intreccio fra creature vive, largamente delineate, ebbe il dialogo dalla tragedia e commedia attica, e con ciò una forma sempre più mossa via via che i due generi si evolvevano. In pari tempo la storia di Erodoto, come pure quella di Tucidide, ama di presentare uomini e cose con sceneggiatura a dramma, né rifugge dal discorso sulle orme della narrazione epica, o pur dall'azione dialogica. Finché il dialogo acquista forma autonoma nel periodo più intellettuale della Grecia e di Atene: non più soltanto mezzo a rilevare l'azione drammatica, animata espressione d'uno spontaneo trasferirsi al di fuori, non più insomma elemento esteriore, ma essenza stessa d'un componimento letterario. Questo avviene quando la riflessione filosofica, insieme col fascino dei grandi problemi umani, si approfondisce e l'uomo in lotta con le vecchie tradizioni sente il travaglio della sua emancipazione. Nei circoli culturali dell'Atene del sec. V-IV sorgono i contrasti dialogici, e concetti opposti sono in tenzone su materia filosofica, religiosa, estetica, politica. Socrate è qui il genio creatore; egli, che nel ragionare ebbe fede e trovò il respiro dell'essere suo, e sempre e in qualunque luogo e con gente d'ogni genere, là dove più pulsava la vita, come in ginnasî o palestre, esercitò la sua mobile e appassionata dialettica. Sotto la forza della sua singolare personalità il dialogo passò dalla realtà alla finzione dell'arte; l'immagine dell'uomo, la filosofia di cui egli aveva gettato i germi attraverso il discutere, non poteva essere ridata o espressa che nella forma del dialogo a lui connaturata. E nacque così la prosa dialogica socratica, dove i personaggi vivono per e con le loro idee come sulla scena, la loro umanità palpita al contatto e sotto il fascino d'un uomo di ricchezza spirituale meravigliosa e quasi miticamente trasfigurato dalla santità eroica del martirio. Tale prosa scrissero, sembra dopo il tentativo d'un Alexameno di Teo, socratico che fosse anch'egli o no nel dialogare, i socratici Antistene, Eschine di Sfetto, Aristippo, Senofonte: Platone solo foggiò il dialogo a vera mimesi drammatica, l'innalzò a quasi poesia, lotta spirituale per un'idea incarnata in figure e anime parlanti, tensione di concetti intensamente vissuti, confutazione e scherno, ironia che si nasconde travestita d'ingenuità o di finta ignoranza, luce speculativa che si accende d'umana passione, finché dal cozzo dei temperamenti e delle idee erompe il vero. Filosofia e poesia s'intrecciano: dagli sfondi di natura alita lo spirito stesso del dialogo: i personaggi di consueto non sono più di tre, come nel dramma classico: il dialogo, quando non sia rappresentato direttamente, non è mai narrato dallo scrittore medesimo, sì da altra persona che agisse drammaticamente, spesso da Socrate: introduzioni in nome proprio, quali saranno poi in Aristotele e in Cicerone, mancano: Platone ne conosce solo dialogiche, né egli apparisce tra gli interlocutori, a togliere il fondamento suo alla mimesi. E tuttavia tale non è sempre nemmeno Platone. Dialogo e dramma si differenziano in ciò, che l'uno di per sé mira sostanzialmente alla dimostrazione logica, l'altro all'azione, alla passione, all'intuito più che alla ragione; onde talora anche nei dialoghi più belli di Platone la facoltà dialettica, l'astrattezza del disputare prende il sopravvento, e il calore ci perde. Con l'andar degli anni poi Platone stesso si sente portato a svolgere il suo pensiero più sistematicamente; al dialogo non rinunzia se non per eccezione, ma l'arte non è più quella, i personaggi secondarî sono di ripiego. Dopo di lui il dialogo in Grecia spiritualmente tramonta, è più o meno avulso dalla vita. In esso, e nel dramma e nell'orazione, che sono azione parlata o discorso detto dinnanzi a un pubblico che ascolta, culmina l'arte attica, la quale è insomma rispecchiamento d'anima collettiva. Aristotele si muove ancora sulle orme del maestro, ma più trova il suo genere nella prosa didattica. I suoi dialoghi erano discorsi contrapposti a discorsi, non nemesi socratica: l'informava tono e intenzione didascalica. Lo scrittore si faceva a dire da sé, e la sua persona metteva innanzi pur nei proemî: parti esterne, così, queste, e solo esteriormente legate all'opera. Il dialogo decade parallelamente e in maniera consimile al dramma: la filosofia non si compiace più oltre di questa forma, che in compenso invade altri dominî. Il poetico se ne va; il dialogo è semplice lustro o degenera nella diatriba; tra cinici e stoici non è più che un nome. Forma degna di rilievo resta il "simposio", riflesso d'abitudini di vita.
A Roma il dialogo, come strumento d'arte, ci apparisce fin dal principio della letteratura, nel dramma; poi si emancipa dall'azione scenica nella satira; e prende praticamente alimento dal contatto intimo coi Greci e dall'interesse che essi suscitarono per i problemi spirituali, e quindi dagli urti della crisi morale, religiosa, politica della rivoluzione. Nella Roma del gran secolo si delinea già netta la tendenza a ripiegarsi dell'uomo in sé, all'esprimersi meno estrinsecamente e più soggettivamente: avvio deciso verso la maniera di sentire moderna. Sul dialogo, che allora fiorisce come forma letteraria, non poteva non riflettersi questa progredita esperienza interiore. Cicerone ci ha dato il dialogo classico dei Romam, bene individuato di fronte al platonico, ed è poi l'unico dell'antichità dove l'anima di Platone riecheggi a fondo e con impronte sue. Il dialogo ciceroniano ridà l'humanitas romanamente concepita in idea e in atto, quale venne fuori nel circolo dì Scipione l'Emiliano: col dialogo platonico ha questo di comune, che entrambi gli autori raccolgono e tramandano, ciascuno secondo lo spirito proprio e dell'età sua, due magnifiche tradizioni, due alti ideali nel momento del loro volgere verso la crisi storica. In Cicerone c'è più vibrazione d'affetti personali, più espansione sentimentale, più lirismo che drammaticità; egli non si nasconde punto, interloquisce anche, e ai personaggi, sempre uomini del suo cuore quando non siano, come di frequente, coetanei e amici, affida o confida la sua anima, il suo pensiero. Sceneggiatura esteriore non manca; teatro d'azione son però ville e solitudini a lui care, luoghi di ritrovo di famigliari, non la pubblicità della polis; interlocutori, un gruppo d'uomini politici, rarissimi i privati, dell'alta società, che parlando tra loro si distanziano, di norma, dalla vivacità dialettica dei socratici come dalla pesantezza degli aristotelici. Costì si rispecchia lo spirito di discussione nato fra i Romani nel periodo più squisito e più travagliato della loro cultura. Sì è innalzati, alle volte, fino alle sublimi sfere platoniche; ma l'atmosfera del dialogo di Platone è più aereata, più libera. Cicerone certamente, pur nella maestria del trattare il dialogo, espresse meglio la sua natura nella maggiore immediatezza dell'orazione o dell'epistola. Così il suo dialogo ha qualcosa di più intimo. In seguito il dialogo va intristendo, e fa posto con crescendo continuo al soliloquio. Prospera, ma entro altre forme letterarie e in limiti più ristretti, e con caratteri diversi che in Grecia, nell'era augustea; è ridotto a un'ombra in Seneca; si rinnova ciceronianamente nell'autore del Dialogo degli oratori; ha bagliori ancora nel mondo greco-romano del sec. I e II, ad opera di Greci quali Dione Crisostomo, Plutarco, Luciano; poi tra i pagani è solo un ludo retorico.
La letteratura cristiana. - Mentre il dialogo classico si isterilisce in un puro esercizio retorico, la letteratura cristiana, di natura essenzialmente apologetica, fa di esso uno dei suoi caratteristici mezzi d'espressione per la possibilità stessa, insita nel genere, di presentare, attraverso il contrasto dei personaggi, opinioni e idee in lotta. Normalmente le dispute riferite sono fittizie e il dialogo appare per questo retorico e stereotipato; per di più, come è ovvio, lo schema e i procedimenti sono quelli del dialogo platonico e ciceroniano; se un motivo di nuova vitalità trae il dialogo cristiano in confronto di quello classico è nell'esperienza spirituale tuttora incandescente che gli oflre l'argomento e che anima di nuova vita le forme classiche. Raramente il dialogo cristiano, almeno ai suoi inizî, assume l'aspetto d'una serena disputa in cui ci sia possibilità di convivenza fra opinioni disparate: il dialogo mira sempre a convincere il contradditore non cristiano delle nuove idee. Dire "non cristiano" non è dire "pagano", ché anzi, cosa degna d'essere notata - se ne eccettui il mirabile Ottavio di Minucio Felice, cronologicamente forse il primo scritto cristiano latino, in cui il convertendo, Cecilio, è appunto un pagano - nel dialogo, a un cristiano è sempre di fronte un giudeo o un eretico da convincere mai un pagano, un gentile. E prima dì tutti un ebreo: agli albori della letteratura apologetica greca (v. apologetica) troviamo due dialoghi, il primo dei quali quasi completamente perduto, la Disputa di Giasone con l'ebreo Papisco di Aristone di Pella (metà del sec. II) e il prolisso dialogo, di poco posteriore, di Giustino con l'ebreo Trifone. Il motivo non andrò smarrito e ancora alla metà del sec. V sarò ripreso dal prete gallo Evagrio nell'Altercatio legis inter Simonem Iudaeum et Teophilum Christianum. Più spesso la disputa mira a ridurre all'ortodossia un eretico: dal dialogo del prete romano Caio (199-217) col montanista Proclo, al dialogo antimarcionita di Adamanzio, Circa la retta fede in Dio, e ai famosi (e notevolissimi per la storia del manicheismo) Acta Archaelai cum Manete di Egemonio (metà del sec. IV), tutti in greco; dall'antiariana Altercatio Heracliani cum Germinio (366) ai dialoghi di S. Gerolamo contro i pelagiani (415), tutti questi in latino, l'eretico è quasi sempre convinto del proprio errore e spesso passa nelle file ortodosse, qualche volta si ritira confuso. In questo campo riflettono dispute realmente avvenute, se pure non rivestono sempre la forma dialogica, alcune delle opere antimanichee e antidonatiste di S. Agostino (Aecta contra Fortunatum; De actis cum Felice manichaeo, Gesta cum Emerito donatista, e anche, in certo modo, il Breviculus collationis cum donatistis. Non mancano del resto, in forma di dialogo, apologie di correnti ereticali o scismatiche: si ricorda, come più nota, l'Apologia pro vita sua affidata da Nestorio esule al cosiddetto Libro di Eraclide. Di natura totalmente diversa sono il Simposio di Metodio d'Olimpo (fine del sec. III) in cui il più illustre rappresentante del tardo millenarismo greco esalta la castità, e i dialoghi agostiniani Contra Academicos, De vita beata, De ordine (che riflettono collationes realmente avvenute a Cassiciaco), De Magistro e i Soliloquia. Con i Dialoghi di Su̇lpicio Severo (403-4) il genere cambia obiettivo e si trasforma nell'apologia d'un santo attraverso la commossa rievocazione delle sue gesta miracolose: qui l'eroe è Martino di Tours. S. Gregorio Magno riprenderà il motivo nei suoi Dialoghi, i più diffusi fra i dialoghi cristiani, per esaltare, con lo stesso procedimento, l'ascetismo di S. Benedetto.
Medioevo ed età moderna. - Anche addentrandoci nell'età medievale il genere non è dimenticato: dal Dialogus animae conquerentis et rationis consolantis di Isidoro di Siviglia alle pagine incisive di S. Anselmo d'Aosta; dal Dialogus de Rhetorica et Virtutibus di Alcuino alla Disputatio puerorum per interrogationes et responsiones, attribuita al medesimo; dalla Disputatio cuiusdam iusti cum Deo al De conflictu amoris Dei et linguae dolosae dialogus del sec. XII; dal De vanitate mundi di Ugo di S. Vittore, che nella compostezza, nella simmetria, e nella venustà della forma ha qualche cosa dei dialoghi socratici, al chiaro e diritto Dialogus inter Deum et peccatorem di Innocenzo III, si ebbe nel Medioevo una viva e varia fioritura d'arte dialogica, che rivela spesso ricchezza d'anima, dottrina e aderenza pratica alle esigenze della vita spirituale. Il Petrarca diede forma dialogica a opere d'introspezione, quali il Secretum e il De remediis utriusque fortunae. Ebbero ínoltre nel Medioevo forma dialogica non pochi scritti retorici e allegorici, tra i quali hanno tutta una loro storia i Débats o contrasti, e s'avvivarono di forme alternate alcuni canti goliardici, le laudi e devozioni che furono preludio alle rappresentazioni sacre, le ecloghe, e fin anche alcune liriche amorose come il contrasto di Cielo d'Alcamo e la canzone O gemma leziosa di Ciacco dell'Anguillaia. Nello stesso Decameron del Boccaccio le novelle sono introdotte e narrate, per così dire, nel corso di una conversazione, perché in quel tempo il dialogo era considerato tra le forme letterarie più vicine alla vita.
Nell'età moderna il dialogo riflette sia lo studio degli antichi sia le condizioni spirituali dell'Umanesimo. Nel Quattrocento trattarono letterariamente il dialogo Buonaccorso da Montemagno, Poggio, Landino, Platina, Bruni, Collenuccio, Piccolomini, Cortese, Cusano, Palmieri e altri; ma artisticamente tiene il primo posto L. B. Alberti coi quattro libri Della famiglia. Del Cinquecento sono celebri gli Asolani del Bembo, L'arte della guerra e il Dialogo intorno alla lingua del Machiavelli, il dialogo Del reggimento di Firenze del Guicciardini, quello Della repubblica dei Viniziani del Giannotti, i Colloquia di Erasmo di Rotterdam, il Cortegiano del Castiglione, il Castellano del Trissino, l'Ercolano del Varchi, La Circe e I capricci del bottaio del Gelli, ì Dialoghi piacevoli del Franco, i Ragionamenti dell'Aretino, il Raverta del Betussi, i Dialoghi d'amore di Leone Ebreo, il Dialogo dell'infinità d'amore di Tullia d'Aragona, il Dialogo dell'onore del Possevino, il Dialogo dei giuochi di G. Bargagli e quello Delle imprese di suo fratello Scipione, Il Dialogo della Pittura di L. Dolce, i dialoghi del Firenzuola, il Dialogo della musica e il Fronimo di Vincenzo Galilei, i dialoghi dello Speroni, del Baldi e, per tacere d'altri, quelli del Tasso, giudicati dal Foscolo . e dal Monti tra le prose più belle di quel secolo, ma ritenuti poco logic' dal Manzoni.
Nel Seicento la forma dialogica fii anche adoperata nelle scritture più diverse: letterarie, storiche, politiche, filosofiche, amene; ma per vigore dialettico e nitore di parola emerge Galileo, il quale coi dialoghi sui Massimi sistemi e sulle Nuove scienze diede i capolavori della prosa scientifica italiana. Tra il finire di quel secolo e il principio del Settecento il dialogo, come forma d'arte, fu tanto gustato che il Fénelon, autore dei Dialogues sur l'éloquence e dei Dialogues des morts, lasciò scritto essere il dialogo "une espèce de combat dont le lecteur est le spectateur et le juge", e il Fontenelle avvivò con la diretta forma parlata i suoi Dialogues des morts e gli Entretiens sur la pluralité des mondes. Non deve dunque stupire che anche nel sec. XVIII gli argomenti più appassionanti riappariscano spesso sotto l'arguta e vivace forma del discorso diretto, come nel Dialogue de Sylla et d'Eucrate del Montesquieu, nei dialoghi del Voltaire, nel dialogo Sur les femmes e nei Dialogues sur le commerce des blés di F. Galiani, nel dialogo Della nobiltà del Parini, nei dialoghi morali di G. Gozzi, in quelli di F. M. Zanotti sulla "forza dei corpi che chiamano viva", in quelli di G. Rosasco sulla lingua toscana e in altri molti.
Anche in Germania, in Inghilterra, in Spagna la forma dialogica fu allora spesso adoperata con gusto e finezza per gli argomenti più varî, dai morali agli scientifici, dai letterarî ai filosofici, dai religiosi a quelli pratici. Prevalse allora 1iei dialoghi la spiritualità illuministica, ed esempio tipico possono essere considerati, in Italia, quelli franceseggianti di Pietro Verri.
Al contrario, nell'Ottocento il dialogo ebbe in genere uno stampo più personale. Basterebbero a provare quanto esso sia stato originale nel sec. XIX i nomi del Leopardi, dello Schelling, del Renan, del Jerome. Ma nella letteratura italiana sono pur degni di nota i dialoghi linguistici del Monti, Le Grazie e Le bellezze della Commedia di Dante del Cesari, il Dialogo dell'invenzione del Manzoni, i Dialoghi di scienza prima del Mamiani, i dialoghi Della istruzione del Lambruschini, Il bel paese dello Stoppani, e, come riproduzione diretta di colloquî, le Stresiane del Bonghi e le conversazioni manzoniane raccolte dal Fabris, dal Tommaseo e da altri. Tra i minori si volsero spesso al dialogo come a forma che può dar facilmente impressione d'immediatezza, G. Grassi, G. B. Giuliani, C. Cantù, P. Fanfani, Mauro Ricci, P. Thouar, il Franceschi, il Cipani, C. Arlia, il Rigutini, P. Coccoluto Ferrigni, Augusto Conti, P. Petrocchi, R. Fornaciari, M. Porena, il Lingueglia e non pochi altri scrittori, specialmente educativi.
Ciò prova che il dialogo può essere in ogni tempo letterariamente vivo, perché esso reca nella sua stessa intonazione "facilità, chiarezza e persuasione".
Bibl.: In generale, v. R. Hirzel, Der Dialog, Lipsia 1895; T. Tasso, Discorso dell'arte del dialogo, in Prose, a cura di C. Guasti, II, Firenze 1858, pp. 239-249; S. Speroni, Apologia dei dialogi, in Opere, Venezia 1740, I, pp. 266-425, importante; Fontanini-Zeno, Dell'eloquenza italiana, Parma 1803-1804; S. Pallavicino, Tratt. dello stile e del dialogo, 2ª ed., Modena 1819; F. Ranalli, Del dialogo, in Degli ammaestr. di lett., III, 3ª ed., Firenze 1863; B. Puoti, Tratt. del dialogo; G. Mestica, Del dialogo, in Istit. di lett., Firenze 1886, I, pp. 557-592.
Sull'elemento drammatico-dialogico nella letteratura greca e romana: A. Rostagni, in Rivista di filologia classica, LV (1927), p. 7 segg.; LVII (1929), p. 305 segg.; G. Funaioli, in Annuario della Università cattolica, 1927-28, p. 47 segg.; M. Valgimigli, in Pégaso, I, 1929, p. 153 segg. Cfr. anche le bibliografie sotto platone, aristotele, cicerone.