sardi, dialetti
Posta al centro del bacino occidentale del Mediterraneo, la Sardegna trae dalla posizione geografica e dall’accentuata diversificazione interna del territorio i fattori che caratterizzano la sua storia linguistica.
Sulla latinizzazione hanno influito distanza e lateralità rispetto a Roma e probabili rapporti con la latinità africana e col meridione italiano. Gli elementi del sostrato paleosardo (➔ sostrato) collocano l’isola all’incrocio di correnti linguistiche mediterranee che la collegano all’Africa e all’Iberia, oltre che all’area tirrenica settentrionale (Sanna 1957: 143-181). La romanizzazione, avviata nel III secolo a. C., si inserisce su un sostrato punico nel meridione isolano e nelle zone costiere, e sul paleosardo – ancora in gran parte non decifrato – nelle parti interne e settentrionali. L’idioma romanzo sardo attesta fenomeni risalenti a fasi arcaiche della latinità, mantenutisi in particolare nelle aree interne, più conservative e meno esposte a contatti. Inserita nella sfera politica africana durante la dominazione vandalica (V sec. - 534) e la successiva dominazione bizantina, a partire dal IX secolo l’isola si organizzò autonomamente nei quattro giudicati di Cagliari, Logudoro, Arborea e Gallura, una divisione politica che contribuì all’evoluzione differenziata del volgare sardo. L’intervento militare delle forze cristiane a sostegno dei giudici sardi contro gli Arabi segnò l’avvio della politica di penetrazione pisana e genovese, che ebbe riflessi anche sulla lingua, con influssi innovativi che interessarono in particolare il campidanese e il logudorese settentrionale. L’occupazione catalana, cominciata nel XIV secolo, distaccò l’isola dall’area di influenza italiana ma ebbe effetti linguistici soprattutto nel sud; il successivo influsso spagnolo lasciò invece tracce profonde in tutto il sardo.
I rapporti linguistici con la Penisola furono riallacciati in forma stabile solo nel Settecento, attraverso il Piemonte, che avviò il processo di italianizzazione.
Nell’area sarda si distinguono due raggruppamenti dialettali fondamentali: il logudorese nella parte settentrionale e il campidanese in quella meridionale. All’interno del logudorese tratti peculiari distinguono il nuorese dell’area conservativa centro-orientale. Una posizione di rilievo è inoltre riconosciuta alla varietà arborense, nella fascia centrale di transizione fra parlate logudoresi e campidanesi (Sanna 1975: 119-187; Virdis 1988: 904-906).
Caratterizzato da polimorfismo e intreccio di fenomeni diatopicamente connotati, l’arborense è la lingua in cui sono redatti importanti testi medioevali, quali il Condaghe di S. Maria di Bonarcado e la Carta de Logu. Nell’estremo settentrione isolano, si parlano a ovest il dialetto di Sassari (a Sassari, Porto Torres, Sorso e Stintino) e ad est il gallurese (a Tempio e nelle località a nord del Limbara). Il sassarese avrebbe avuto origine nel medioevo, durante la presenza di Pisa nell’area, come lingua di contatto, dall’incontro di volgare pisano e logudorese locale (Sanna 1975: 6-118); la formazione del gallurese sarebbe invece il risultato dell’immigrazione nel XVIII secolo di genti corse, richiamate in Gallura dallo spopolamento che aveva interessato la regione a partire dal XV secolo (Wagner 1943) (fig. 1).
Prosegue ancora il dibattito sul posto da assegnare a queste due varietà dialettali: alle classificazioni che le staccano dal dominio sardo accostandole al gruppo italoromanzo (a partire da Blasco Ferrer 1984: 180-186, 200 e Contini 1987: 1°, 500-503; cfr. Dettori 2002), si oppongono posizioni che le ricollocano al suo interno (Loporcaro 2009: 159-67). Sono presenti inoltre in Sardegna l’isola linguistica catalana di Alghero, che risale al XIV secolo (➔ catalana, comunità), e quella tabarchina di Carloforte e Calasetta, fondata nel XVIII secolo da coloni liguri provenienti da Tabarca (➔ tabarchina, comunità).
Tra i tratti che caratterizzano il sardo e contrassegnano la specificità della sua storia evolutiva tra le lingue romanze possono essere ricordati:
(a) il sistema vocalico, che mantiene un esito autonomo di ĭ e ŭ latine, senza la confluenza negli esiti di ē e ō del vocalismo romanzo: pike nuorese, pi[ɣ]e logudorese, pi[ʒ]i campidanese «pece»; bucca «bocca»; tratto condiviso col gallurese e col corso meridionale, oltreché con una circoscritta area di confine calabro-lucana;
(b) la metafonesi, che determina l’articolazione in /é/, /ó/ delle vocali medie toniche, quando nella sillaba successiva si trova una vocale alta, /i / e /u/ (originari): Michéli (ma Michèla), cónchinu «testardo» (ma cònca «testa»); il fenomeno è assente nel sassarese e nel gallurese;
(c) l’evoluzione di -ll- in retroflessa (pu[ɖː]u «pollo»), condivisa col sassarese e gallurese, oltre che col corso e con le parlate meridionali italiane;
(d) la formazione dell’articolo determinativo da ipsu (su, sa, plur. logudorese e nuorese sos, sas; campidanese is per i due generi), mentre l’articolo del sassarese e gallurese proviene da illu;
(e) la conservazione di -s nominale del latino e delle uscite consonantiche nella flessione verbale (sos ca[ɖː]os «i cavalli», cantas «canti», cantat «(egli) canta»), consonanti finali non conservate in sassarese e gallurese;
(f) uso di costrutti con essere + gerundio per la resa dell’aspetto durativo: so [ɣ]antande / seu [ɣ]antendi «canto»;
(g) forme perifrastiche con avere o dovere + infinito per il futuro e il condizionale: logudorese lu appo a fà[ɣ]ere, lu deppo fà[ɣ]ere «lo farò», lu dia và[ɣ]ere «lo farei», tia[ð] èsser béllu «sarebbe bello» (di contro alle forme sintetiche di sassarese e gallurese);
(h) l’infinito usato in sostituzione dell’oggettiva con soggetto diverso dalla principale: a kérfi[ð]u a lu và[ɣ]er deo «ha voluto che lo facessi io»;
(i) posposizione del verbo o dell’ausiliare nelle interrogative: logudorese sa mela [ɣ]èrese «vuoi la mela?», ite ses fa[ɣ]inde «cosa fai?» (inversione che non si verifica in sassarese e gallurese);
(j) introduzione con la preposizione a dell’oggetto diretto [+umano], in certe aree anche [+animato]: krama / [ʤ]ama / [ʦ]érria a Maria «chiama Maria»; costrutto condiviso col corso e con l’area italiana centro-meridionale.
Il lessico serba traccia della più antica latinità, in modo più vistoso che nelle altre lingue romanze, in particolare nei dialetti delle aree interne e per i campi semantici relativi alle attività rurali (cfr. Wagner 1997: 97-149). Sono diffuse parole quali maccu «matto» – da cui macchi(ghi)ne e macchiore «pazzia» – che rimanda al maccus delle atellane, domo -u «casa» e suoi vani, àkina (logudorese à[ɣ]ina, campidanese à[ʒ]ina) col valore collettivo di «uva», saltu a designazione dei terreni comunali. Interpedire è conservato con l’originario significato di «impastoiare» (nuorese tropedire, logudorese trobeire, campidanese trobiri); mansio -one continua nelle forme masone -i, in riferimento al gregge di pecore, ma anche al recinto che lo ospita; lorum si mantiene in loru «correggia, anello di cuoio del giogo» (da cui illorare «porre fine alla giornata di lavoro» alla maniera del contadino, che lo faceva infilando la stiva dell’aratro nel loru del giogo). Arbu, oggi sostituito nel lessico dei colori dall’italianismo biancu, è vitale in composti e locuzioni polirematiche: fustiarbu, linnarba «pioppo», arbu dess’ou «albume», arbu dess’okru «sclerotica». La stessa metafora che giustifica il nome della testa in italiano è produttiva anche nel sardo, ma viene resa col continuatore di concha > cònca. Berbu, attestato nell’antico sardo col significato di «parola», nella lingua odierna ha assunto il valore di «proverbio, detto sentenzioso» al singolare, quello di «scongiuri, formule magiche» al plurale.
Nell’articolazione interna del sardo, la distinzione fondamentale è quella che delimita l’area settentrionale, comprendente nuorese e logudorese, più conservativa, da quella meridionale, costituita dal campidanese. Tratto caratteristico è la conservazione di -e e -o in nuorese e logudorese (boke / bo[ɣ]e «voce», domo «casa») e il loro passaggio a -i, -u nel campidanese (bo[ʒ]i, domu). L’innalzamento vocalico della finale non modifica la tonica, che si mantiene aperta; ne derivano nel campidanese distinzioni oppositive del tipo c[o]ntu «fiaba, leggenda» ~ c[ɔ]ntu «io racconto», b[e]ni «vieni» ~ b[ε]ni «bene», e un sistema vocalico a sette fonemi, di contro a quello a cinque delle varietà settentrionali. Diversificata è anche la tipologia di prostesi vocalica: i- (+ s + consonante) in area settentrionale (ispika / ispi[ɣ]a ~ spi[ɣ]a «spiga»); a- (+ r) in area meridionale (arru[β]iu ~ ru[β]iu, ruiu «rosso»).
Nel consonantismo, caratteri fondamentali sono il trattamento delle velari latine, conservate a nord (kena, àkina / à[ɣ]ina) e rese in palatale a sud ([ʧ]ena, à[ʒ]ina), e gli esiti variati (qui labializzate, lì ricostruite) della labiovelare latina (logudorese, nuorese abba, limba; campidanese akua, lingua); fenomeni di evoluzione e ricostruzione attribuiti a influsso medievale pisano (cfr. Wagner 1984: 126-127, 227-228).
Sono rilevanti anche le differenze che interessano la flessione verbale, mentre la distribuzione del lessico evidenzia le stratificazioni che hanno colpito le aree dialettali del sardo. Si conserva nel campidanese [ʦ]ìppiri «rosmarino», parola del sostrato punico opposta a quella di derivazione latina romasinu usata nel nuorese e logudorese; anche la resa del concetto di «portare» è affidata nei due dialetti settentrionali a (b)attire, parola di derivazione latina, e all’italianismo portai nel campidanese. Attesta influssi differenziati delle lingue del superstrato iberico la diffusione nel campidanese dei catalanismi leggiu «brutto» e goccius «canti sacri», di contro agli spagnolismi feu e gosos dei dialetti settentrionali.
Logudorese e nuorese a loro volta differiscono per il trattamento delle occlusive sorde in posizione intervocalica: conservate in nuorese, in logudorese (come in campidanese) evolvono nelle corrispondenti fricative sonore: matrike ~ ma[ð]ri[ɣ]e «lievito», nepote ~ ne[β]o[ð]e «nipote». Altri tratti peculiari del nuorese sono l’esito in fricativa dentale sorda di cj e tj, di contro all’esito in occlusiva del logudorese (ca[θ(θ)]ola ~ cattola «ciabatta», pu[θ(θ)]u ~ put(t)u «pozzo») e la caduta di f- in posizione iniziale (i[ʣ]u «figlio», o[ɖː]e «mantice»).
Il lessico fa emergere anche distinzioni culturali: a diverse modalità classificatorie, in relazione alla ‘forma di vita’ dei volatili, rimanda la distribuzione nel nuorese del tipo lessicale ave quale denominazione degli uccelli (ma anche del genere dei rapaci e dell’aquila, con messa in evidenza dell’importanza attribuita al rapace quale tipo-specifico per eccellenza), di contro ai continuatori di pullione diffusi in logudorese e campidanese, pu[ʣ]one, pilloni. Differenti stratificazioni lessicali emergono dalla distribuzione dei nomi del rosolaccio, con la parola di sostrato paleosardo a[θː]anda del nuorese e quella di derivazione latina papàule del logudorese; mentre dei due tipi lessicali che designano l’arnia (casi[ɖː]u e móiu) nel nuorese prevale il secondo.
Il sardo, riconosciuto come una delle ➔ minoranze linguistiche storiche dalla legge nazionale 482/1999, è tutelato anche dalla legge regionale 26/1997. In applicazione di quest’ultima sono state intraprese iniziative di valorizzazione e diffusione della lingua, indirizzate in particolare all’ambito scolastico e amministrativo, e hanno preso avvio interventi di normalizzazione e standardizzazione. Le due proposte di standard adottate in via sperimentale a più riprese (2001 e 2006) dall’amministrazione regionale, basate su soluzioni di compromesso, hanno incontrato resistenze all’interno della comunità, per i forti legami che vincolano i parlanti alle varietà locali. Il sardo non ha mai avuto una ➔ koinè regionale, ma si sono affermate nel tempo due varietà sovralocali, il logudorese letterario, d’uso consolidato nella poesia, e il campidanese generale, basato sul dialetto di Cagliari. Il prestigio di cui tali varietà godono nelle rispettive aree di riferimento non facilita soluzioni unitarie in materia di standard.
In relazione all’uso, il sardo è in una situazione di bilinguismo instabile, dominata dalla tendenza a sostituire la lingua con l’italiano (➔ bilinguismo e diglossia). Ancora vitale nelle aree rurali e presso le fasce generazionali d’età elevata, è in sensibile regresso nei centri più importanti e presso i giovani. Quanto alle aree urbane, gli spostamenti demografici che le hanno interessate a partire dalla seconda metà del Novecento hanno favorito la diffusione della lingua nazionale, come è avvenuto nelle altre regioni italiane. In un rilevamento della Regione Autonoma (Oppo 2007), su circa 2700 soggetti in tutta l’isola il 68% dei parlanti ha dichiarato di saper parlare una varietà locale (con variazioni da circa l’85% nelle località con meno di 4000 abitanti a circa il 64% nelle località con più di 20.000 abitanti), ma circa il 55% dice di parlare normalmente italiano coi vicini di casa. La conoscenza del sardo diminuisce sensibilmente per i giovani, soprattutto a causa della diffusa tendenza all’interruzione della sua trasmissione familiare come prima lingua. Infatti già da alcuni decenni la famiglia ha dimostrato aperture all’italiano per i figli, generalmente in virtù di scelte linguistiche innovative delle donne.
La presenza dell’italiano nel repertorio della comunità ha favorito il suo uso come lingua veicolare, che trova giustificazione anche nel diffuso sentimento di distanza linguistica fra i gruppi dialettali: al prestigio di lingua ufficiale e di cultura, l’italiano unisce il vantaggio di non mettere in discussione gerarchie linguistiche interne e lealtà locali. I provvedimenti legislativi regionali e nazionali di tutela hanno tuttavia rafforzato il prestigio del sardo e hanno diffuso nuove consapevolezze linguistiche e culturali. Nelle diverse aree il rapporto tra italiano e sardo non è più di contrapposizione; le distinzioni si stemperano nell’uso alternato, con fenomeni di commutazione (➔ commutazione di codice) e mescolanza (➔ mistilinguismo). Le scelte linguistiche muovono dalle esigenze di adeguamento alle diverse situazioni comunicative e si basano sull’uso di tutte le possibilità che il plurilinguismo offre. L’italianizzazione delle parlate locali si accompagna alla diffusione di varietà regionali d’italiano, che, nelle aree urbane e negli usi giovanili, ricoprono ambiti funzionali informali tradizionalmente affidati al sardo.
L’uso letterario del sardo prende avvio con la poesia religiosa. Risalgono rispettivamente al XV e al XVI secolo i brevi poemi agiografici sui martiri Gavino, Proto e Gianuario di Antonio Cano (1400-1470 circa) e di Gerolamo Araolla (1545 - fine XVI sec.), che posero le basi dell’uso poetico del logudorese. Nel corso del Seicento e del Settecento il teatro religioso in sardo ebbe seguito popolare, con sacre rappresentazioni in cui sardo e spagnolo sono usati congiuntamente. A partire dal Settecento, col ritorno nell’area culturale italiana, prende avvio una produzione poetica ispirata all’Arcadia, che annovera poeti quali Gian Pietro Cubeddu, Pietro Pisurzi, Gavino Pes (che compone i suoi versi nel natio gallurese), Paolo Mossa.
Il logudorese letterario mantiene intatto il suo prestigio di lingua della poesia fino alla prima metà del Novecento: due importanti poeti barbaricini, Peppino Mereu (1872-1901) e Antioco Giuseppe Casula, meglio noto come «Montanaru» (1878-1957) lo usano nella loro produzione che innova la poesia tradizionale. Nel secondo Novecento il rinnovamento investe anche la lingua, determinando l’uso delle diverse varietà dialettali. Rappresentanti di spicco della poesia moderna sono il campidanese Benvenuto Lobina, il nuorese Antonio Mura, il logudorese Antonio Mura Ena. L’uso poetico del sassarese era già stato avviato da Pompeo Calvia (1857-1919).
La produzione novecentesca annovera anche interessanti esempi di prosa narrativa. Fra gli autori più significativi – che scrivono nelle diverse varietà native – si ricordano Michelangelo Pira, Antonio Cossu, Benvenuto Lobina, Francesco Masala, Bustianu Murgia, Mariangela Dui. Largo seguito popolare incontra la produzione teatrale comica in campidanese, con autori quali Emanuele Pili, Efisio Vincenzo Melis e Antonio Garau.
Negli studi demologici la poesia popolare di tradizione orale è considerata una delle specializzazioni più originali e rappresentative della cultura sarda. Fra le composizioni popolari sono ampiamente attestate attitidos «lamentazioni funebri», anninnias «ninne-nanne», filastrocche e canzoni per l’infanzia. Ma il componimento più rappresentativo è il mutu, considerato esempio locale del canto lirico-monostrofico. Composto di settenari, è diviso in due parti: la prima (istérria o sterrimentu) contiene la proposta delle rime, la seconda (torrada o cobertanza) ha la funzione di chiuderle. Le due parti divergono anche per contenuto, infatti sono tra loro incongruenti. Fra i componimenti brevi vanno ricordate anche le battorinas, costituite da quartine di endecasillabi o di ottonari.
Di particolare importanza è la narrativa popolare, ricca di fiabe di magia, leggende religiose, narrazioni formulari, racconti sugli esseri fantastici della mitologia popolare: gianas «fate», cogas / surtoras / sùrbiles «streghe-vampiro», muska macedda, la terribile mosca custode dei tesori, ammuttadore «l’incubo o folletto» che soffoca, le diverse incarnazioni del diavolo, gli spauracchi. Tali personaggi sono presenti anche nella narrativa contemporanea in italiano, come parte di quel processo di rielaborazione culturale e linguistica affrontata dagli autori locali.
I vocabolari ottocenteschi di Vincenzo Porru (Nou dizionariu universali sardu-italianu, Casteddu 1832) e Giovanni Spano (Vocabolario sardo-italiano e italiano-sardo, Cagliari 1851-1852) hanno costituito il modello ortografico per gli usi scritti, con soluzioni esemplate in genere sull’italiano; Spano introduce anche grafie latineggianti (hòmine, hora). Oscillante è la resa grafica della lenizione delle occlusive in fonosintassi, mentre è stabile l’uso del grafema ‹x› col valore della fricativa palatoalveolare sonora /ʒ/: paxi «pace», cìxiri «cece, ceci», secondo una tradizione grafica attestata fin dal medioevo. Il grafema ‹z› rende le affricate dentali sorda e sonora, ma Porru introduce ‹ç› per la resa della sorda che deriva da palatale italiana: çittadi ← città, deçidiri ← decidere. Con ‹s› viene resa la sibilante sia sorda che sonora, ‹d› trascrive la dentale sonora e la retroflessa, ma Porru segnala la retroflessione accanto alla parola a esponente: «casteddu dd pronuncia inglese “castello”».
Nelle introduzioni ai due vocabolari il diverso grado di apertura delle medie toniche è indicato con le annotazioni pronuncia chiara (Porru) o larga (Spano) per /ε/, /ɔ/, e rispettivamente scura, stretta per /e/, /o/. I problemi di normalizzazione ortografica vengono oggi affrontati all’interno delle politiche di pianificazione linguistica, avviate in applicazione della legislazione regionale e nazionale di tutela della minoranza.
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