DIAGNOSTICA
In medicina, il termine d. indica il complesso di atti − sia conoscitivi che valutativi − necessari a pervenire alla diagnosi, ossia a identificare il quadro clinico presentato da un paziente con una o più malattie codificate nella nosografia (v. in questa Appendice). Pertanto il termine d. fa riferimento a tutti quegli elementi clinici che − opportunamente e razionalmente organizzati − vengono a costituire il procedimento diagnostico, che è una parte essenziale dell'atto medico.
Almeno in linea teorica, tale identificazione deve precisare il tipo di lesione organica o funzionale (per es., emiplegia destra), l'eventuale natura anatomopatologica della lesione (per es. da focolaio ischemico a livello della capsula interna di sinistra), la genesi della lesione e la sua natura eziologica (per es., per arteriopatia arteriosclerotica), oltre alle eventuali caratteristiche individuali più rilevanti (per es., in soggetto obeso e iperteso). Sovente, tuttavia, non è possibile precisare dettagliatamente tutti questi aspetti della malattia, cosicché la diagnosi potrà risultare alla fine più o meno imprecisa e/o redatta in forma descrittiva (per es., faringotonsillite acuta febbrile, oppure: eczema umido). Allo stesso modo la diagnosi può finire per descrivere non tanto una precisa malattia quanto una sindrome, cioè un insieme di sintomi che si presentano così frequentemente associati tra loro da far presupporre una causa comune ben determinata, ancorché non precisabile al momento (per es. la sindrome di Zollinger-Ellison, originariamente descritta come associazione di ulcere gastroduodenali recidivanti con un adenoma pancreatico e più tardi attribuita a un'eccessiva secrezione di gastrina da parte del tumore pancreatico).
I confini del procedimento diagnostico non sono quindi rigidamente predeterminati, dipendendo strettamente dalle condizioni nelle quali viene a trovarsi il clinico. Si può ammettere in generale che la completezza di una diagnosi può raggiungere tre diversi livelli: il primo, del tutto teorico, è quello della spiegazione di tutti i fenomeni rilevati nel paziente: è il livello di conoscenza cui tende la ricerca scientifica in generale e a cui dovrebbe tendere, quindi, anche la medicina, qualora non fosse una scienza applicata. Gli altri due livelli possono essere indicati, rispettivamente, come livello ottimale di terapia e livello minimale di terapia: il primo è quello che permette l'esecuzione della terapia al maggior grado di completezza e di specificità e coincide con il momento nel quale un ulteriore approfondimento diagnostico non è in grado di apportare ulteriori conoscenze tali da rendere più efficaci i provvedimenti curativi. L'ultimo livello è quello che il medico, per fattori contingenti, è costretto ad accettare − pur nell'interesse del paziente − per non ritardare eccessivamente un provvedimento necessario o urgente o per non esporre il malato a eccessivi rischi diagnostici.
Nel suo procedimento tipico, la d. comprende le seguenti fasi: a) raccolta degli elementi clinici (sintomi e segni); b) formulazione delle ipotesi diagnostiche preliminari; c) controllo, mediante la scelta e l'esecuzione di elementi diagnostici mirati, delle ipotesi diagnostiche preliminari e conseguente scelta della diagnosi definitiva.
La fase c, che rappresenta il nucleo centrale e più qualificato dell'intero procedimento diagnostico, viene indicata anche come d. differenziale e consta di successivi stadi procedurali, e precisamente: 1) individuazione degli elementi diagnostici differenziali (per lo più consistenti in esami strumentali e di laboratorio); 2) precisazione del valore segnaletico dei risultati ottenuti dai suddetti test; 3) valutazione comparativa dell'accettabilità delle diverse possibili conclusioni diagnostiche; 4) individuazione, nell'ipotesi più affidabile, della diagnosi definitiva.
Nonostante che assai spesso − come verrà esposto più oltre − il clinico non segua fedelmente questo procedimento diagnostico tipico, la comprensione delle regole di svolgimento del procedimento diagnostico richiede l'esame dei fini e dei limiti delle fasi ora citate.
La prima fase, quella della raccolta degli elementi clinici, comprende la raccolta dell'anamnesi, cioè della relazione fatta dal malato stesso o dai suoi familiari, e l'esame obiettivo del paziente. Va notato subito come l'anamnesi e l'esame obiettivo possano di volta in volta costituire una parte molto variabile dell'intero procedimento diagnostico. Esistono infatti casi − non infrequenti nella pratica clinica − in cui la diagnosi può essere basata sulla sola anamnesi; talvolta anzi l'anamnesi rappresenta l'unico mezzo per stabilire la diagnosi, come nel caso dell'emicrania o di un episodio di angina pectoris. All'opposto, in altri casi l'anamnesi è quasi inesistente perché il paziente non è in grado di fornirla o di collaborare con il medico, come avviene nell'eventualità di un paziente in coma o comunque incapace o nell'impossibilità di esprimersi. È ben vero che in tali casi notizie anamnestiche possono essere desunte da parenti o da eventuali assistenti all'evento morboso; tuttavia notizie così ottenute non presentano il medesimo carattere d'immediatezza e d'intimità delle notizie che provengono dallo stesso paziente. Pertanto, in tutti questi casi l'esame obiettivo diviene la parte preponderante della raccolta dei rilievi clinici e, qualora non vi sia tempo nemmeno per la raccolta di esami di laboratorio, esso rappresenta la base principale su cui poggeranno la diagnosi e la conseguente terapia.
La sistematicità e la completezza della raccolta dei sintomi nel corso dell'esame clinico sono state grandemente enfatizzate dai clinici del 19° secolo e della prima metà del 20° secolo, come premesse irrinunciabili per garantirsi una diagnosi esattta. Tale atteggiamento − in linea con un programma tipicamente induttivista − raccomandava di raccogliere sistematicamente il maggior numero di dati che è possibile ricavare da un paziente. Questo atteggiamento procedurale è stato ripetutamente criticato anche sulla spinta della concezione ipotetico-deduttivista del metodo scientifico.
Una critica a questa impostazione metodologica verrà sviluppata più avanti a proposito della cosiddetta strategia sistematica della diagnosi. Si può comunque fin d'ora anticipare che la raccolta dei rilievi clinici può essere sistematica solo nel senso che viene estesa a tutte le parti del corpo, agli organi esplorabili, valutando per lo meno il volume, la forma, le più grossolane variazioni delle stesse: in tal modo il medico si avvicina − nei limiti del possibile − al precetto di ''vedere tutto''. Ma è indubbio che il clinico − soprattutto man mano che acquista esperienza − acquisisce la capacità di scegliere precocemente i rilievi più significativi; in altre parole, egli inizia a seguire schemi diretti da ipotesi che − sia pure in forma molto vaga − vanno a formarsi nella sua mente già durante l'esposizione, da parte del malato, dei disturbi che lo hanno portato a ricercare il medico. Pertanto, specie da parte del medico più esperto, la raccolta anamnestica assume i caratteri di una ricerca mirata.
Il passaggio dalla fase di registrazione di notizie anamnestiche a quella d'individuazione dei problemi diagnostici è strettamente connesso con la fase della formulazione delle ipotesi diagnostiche preliminari. Per l'individuazione di tali ipotesi, viene utilizzato il cosiddetto valore segnaletico del sintomo o del complesso di sintomi (detto anche complesso sindromico). Alquanto schematicamente, si può dire che il valore segnaletico è espressione sia della tendenza di un sintomo o di un complesso sindromico a comparire in soggetti ammalati di una malattia (sensibilità del sintomo) sia della tendenza a non manifestarsi nei soggetti non malati della malattia (specificità del sintomo). Così il sintomo ''rigidità nucale'', che compare in quasi tutti i malati affetti da meningite e assai raramente in soggetti sani o con malattie diverse dalla meningite, risulta possedere un elevato valore segnaletico per la condizione meningite.
Giunto a questo punto, il clinico avrà raccolto un certo numero di elementi clinici sufficienti per considerare una più o meno ristretta serie di ipotesi diagnostiche preliminari, che individuano un ventaglio di possibili malattie, tra le quali dovrebbe essere compresa anche quella che ha effettivamente colpito il paziente in esame. Le successive fasi del procedimento diagnostico sono rivolte quindi all'isolamento della diagnosi vera dall'insieme delle diagnosi solo possibili.
Secondo l'orientamento ipotetico induttivista del metodo scientifico, questa operazione dovrebbe venire svolta attraverso successive operazioni di ''confutazione'' di ipotesi, fino a isolare la diagnosi vera: questo procedimento è infatti l'unico che, almeno teoricamente, permette di conseguire conclusioni certe. Tuttavia, non sempre il clinico può procedere per sole confutazioni, poiché tale procedimento (v. oltre la strategia diagnostica per esclusione) risulta spesso essere molto prolungato nel tempo e molto ''costoso'' per il paziente. Pertanto il clinico sfrutta molto frequentemente anche il procedimento di ''corroborazione'' di ipotesi, finendo per ritenere per vera un'ipotesi che abbia ottenuto un sufficiente numero di prove a favore. Quando tale numero sia divenuto sufficiente è lasciato al giudizio del medico, giudizio che verrà emesso in base a un confronto tra il ''costo'' dell'approfondimento della diagnosi e quello che un'eventuale diagnosi sbagliata potrebbe comportare.
Nella scelta delle prove di convalida o di confutazione delle ipotesi, cioè degli esami di laboratorio o strumentali che il paziente dovrà eseguire, il clinico si avvale del cosiddetto valore informativo medio dei test di laboratorio, che può essere definito come l'idoneità del test a escludere alcune ipotesi diagnostiche (e quindi a restringere il campo d'indagine), indipendentemente dal tipo di risposta − negativa o positiva − che potrebbe risultare dal test. Mediante la valutazione del valore informativo dei test, il clinico potrà consigliare i test di laboratorio o strumentali più adatti al particolare caso e organizzare l'indagine clinica secondo una vera e propria 'strategia diagnostica' adatta al singolo paziente e alla singola occasione.
Una volta ottenuti i risultati delle indagini cliniche consigliate al paziente, il clinico deve affrontare la valutazione logica delle conclusioni che possono essere tratte da essi. Qualora avesse operato in condizioni ideali, il clinico dovrebbe aver ottenuto un complesso di dati in completo accordo solo con un'ipotesi diagnostica che permetterebbe la formulazione di una diagnosi certamente esatta. Questa fortunata occasione si verifica in realtà solo quando il clinico si sia imbattutto in un sintomo − o sia stato capace di raccogliere un complesso sindromico − cosiddetto patognomonico. Con questo termine vengono infatti indicati quei sintomi compatibili con una sola malattia (o, con una terminologia più tecnica, che non ammettono falsi positivi, v. oltre) e che quindi sono tali da riconoscere con certezza una data malattia. Per es., la presenza del bacillo di Koch nell'escreato di un portatore di una lesione polmonare è segno patognomico per la malattia ''tubercolosi polmonare'', poiché solo in questi pazienti si riscontra la presenza di quell'agente patogeno.
Molto più spesso tuttavia il complesso dei rilievi clinici raccolti in un paziente può essere compatibile con due o più malattie o può essere determinato dal concorrere di più di una condizione morbosa contemporaneamente presente nel malato. Così, per es., il complesso sindromico ''tachicardia + dolore toracico + alterazioni elettrocardiografiche della fase di ripolarizzazione'' potrebbe essere attribuito sia a un episodio di embolia polmonare, sia al concorso di una delle molteplici cause di tachicardia (per es., ipertiroidismo) con una mialgia intercostale. In questi casi, nei quali al termine della raccolta dei dati permane un certo grado d'incertezza diagnostica residua, il clinico dovrà optare per una diagnosi che in alternativa alla caratteristica della certezza deduttiva abbia quella dell'affidabilità: in altri termini, una diagnosi che, pur comportando un rischio d'errore, risulti sufficientemente corroborata su base probabilistica, tanto da poter essere accettata come vera. Il giudizio di affidabilità viene eseguito dopo aver confrontato il grado di 'probabilità' o, meglio, di 'verosimiglianza' delle singole ipotesi alternative. Nella terminologia medica, tale grado di verosimiglianza è spesso indicato come valore predittivo del sintomo o del complesso sindromico.
Da quanto detto, si deve concludere che la diagnosi clinica, essendo caratterizzata da un certo grado d'incertezza e quindi esposta a errore, è costituita molto spesso − se non costantemente − da un giudizio probabilistico.
La valutazione probabilistica della diagnosi clinica deve tener conto di più di un valore di probabilità. Molto sinteticamente, la probabilità di verità di una diagnosi (detta probabilità a posteriori o dei clinici) dipende sia dalla probabilità di malattia (probabilità a priori o degli igienisti) sia dalle probabilità di evenienza, in una data malattia, dei sintomi osservati nel paziente (probabilità probative o dei patologi).
Per esemplificare, la probabilità che sia esatta la diagnosi di ipertiroidismo formulata in un paziente con tachicardia dipende sia dalla frequenza della malattia ''ipertiroidismo'' nella popolazione da cui proviene il paziente, sia dalla frequenza del sintomo ''tachicardia'' nella patologia da cui il paziente può essere affetto.
Poiché il problema della valutazione di queste probabilità trova soluzione nella formula proposta nel sec. 18° dal reverendo Th. Bayes per la valutazione della probabilità ''delle cause'', la formulazione di una diagnosi clinica mediante criteri probabilistici è comunemente indicata come ''diagnosi bayesiana'' (per maggiori particolari sulla formula di Bayes, v. metodologia medica, in questa Appendice).
La visione bayesiana o probabilistica della diagnosi clinica contiene in sé − per definizione − il concetto di rischio di errore. In effetti, il clinico può andare incontro a due tipi di errore: quello di considerare affetto da una malattia un soggetto il quale, pur non essendo malato di quella malattia, presenta un complesso sindromico associabile alla malattia stessa: è questo l'errore falso positivo. Il secondo tipo di errore consiste nell'escludere una data malattia in un soggetto, in quanto, pur essendo realmente affetto da quella malattia, non presenta il complesso di sintomi ritenuto probante la malattia stessa: è questo l'errore falso negativo.
La sensibilità e la specificità di un sintomo o di un complesso di sintomi sono esprimibili in termini di frequenza di questi errori diagnostici: la sensibilità è infatti definibile come la caratteristica di comportare un basso numero di falsi negativi, mentre la specificità è la caratteristica di comportare un basso numero di falsi positivi. Nel formulare il suo giudizio diagnostico il clinico dovrebbe cercare di non commettere nessun errore e quindi di mettersi in condizioni tali da annullare il rischio di entrambi questi errori. È dimostrabile, tuttavia, che, pur essendo possibile annullare l'uno o l'altro tipo di errori, risulta impossibile annullarli contemporaneamente entrambi. Pertanto il clinico è costretto a limitarsi a minimizzare l'errore globale, rimanendo conscio della persistenza di un certo rischio che la sua diagnosi possa − alla prova dei fatti (v. oltre) − risultare erronea.
Va inoltre considerato che i costi di un errore falso positivo − costituiti dalle eventuali conseguenze di una terapia non necessaria − e quelli conseguenti a un errore falso negativo − costituiti dalle eventuali conseguenze della mancata instaurazione di una terapia necessaria − possono non essere equivalenti, e anzi quasi sempre variano da caso a caso, potendo essere più gravi i primi (se la terapia è ad alto rischio) oppure i secondi (quando si è in presenza di malattie gravi, rapidamente evolutive); risulta quindi chiaro che il clinico dovrà preoccuparsi di minimizzare non tanto il numero degli errori diagnostici, quanto il loro costo globale.
Fin qui sono state esaminate le singole fasi di un procedimento diagnostico ''classico''. Ma, come si è già detto, nella realtà il clinico non segue sempre lo stesso cammino logico e operativo. Il suo schema ragionativo anzi spesso varia a seconda delle differenti circostanze. Queste variazioni rispetto allo schema generale descritto riguardano soprattutto il modo e il peso da dare alle singole operazioni e, in particolar modo, l'organizzazione della raccolta degli elementi clinici e il modo di formulazione e valutazione delle ipotesi diagnostiche preliminari. Queste variazioni sono tali da configurare procedimenti alternativi indicati come strategie diagnostiche, le più comuni delle quali sono la sistematica, quella ipotetico-deduttiva, quella per esclusione, quella sequenziale e quella ex adjuvantibus.
La strategia sistematica consiste nel prendere in considerazione ''in modo completo e sistematico'' tutti gli elementi clinici, non solo nella fase preliminare della loro raccolta, ma anche in quella successiva della formulazione e valutazione delle ipotesi diagnostiche.
Nonostante la sua logicità formale, tale strategia risulta praticamente inattuabile e altamente dispendiosa. Il precetto che sta alla base di questa strategia è quello di osservare e registrare tutto senza giudicare aprioristicamente, e di rinviare a un secondo tempo la valutazione del significato dei dati raccolti. In realtà, non essendo umanamente realizzabile registrare tutte le osservazioni possibili che comprenderebbero, per es., anche il numero e la lunghezza dei capelli, il precetto di sistematicità può essere applicato solamente in una fase successiva, quella cioè della formulazione delle ipotesi diagnostiche preliminari: in effetti, l'insieme delle ipotesi cliniche logicamente ammissibili è − a differenza dell'insieme delle possibili osservazioni − un insieme finito, essendo costituito dal sapere codificato della patologia. La strategia in discussione si caratterizza quindi per la sistematicità nella formulazione delle ipotesi diagnostiche più che nella raccolta dei rilievi clinici.
Lo svantaggio principale di questa strategia è rappresentato dall'elevato costo, poiché la successiva operazione di screening di tutte le ipotesi ammesse come possibili, cioè il loro controllo e valutazione, diviene molto faticosa, prolungata e dispendiosa. Ciononostante, a questo tipo di strategia il clinico è talora costretto a ricorrere, in particolare quando altre strategie, di più agile applicazione, non portano a un soddisfacente risultato, come nel caso della diagnosi di malattie molto rare.
La strategia ipotetico-deduttiva può sembrare molto simile alla strategia sistematica; tuttavia, essa se ne diversifica profondamente nella sua parte iniziale (raccolta di rilievi) e presenta anche sostanziali differenze nella fase di formulazione delle ipotesi diagnostiche.
Secondo questa strategia, derivata dalla concezione filosofica di K. Popper, il clinico, invece di eseguire inizialmente estesi rilievi clinici, dovrebbe limitarsi a stabilire qual è il problema del paziente. Una volta stabilito ciò, la diagnosi dovrebbe scaturire da ripetuti tentativi consistenti in formulazione di ipotesi esplicative (di principio anche poco plausibili), studiando nel contempo se esse sono in grado di resistere ai controlli. Qualora l'ipotesi presa in esame risultasse in contrasto con uno di tali controlli, essa dovrebbe essere scartata; il procedimento dovrebbe quindi proseguire considerando nuove ipotesi e ripetendo i controlli fino a trovare la diagnosi capace di resistere a tutte le prove di confutazione.
Tale strategia differisce quindi da quella sistematica sia perché non richiede − e anzi ritiene inadeguata o inutile − un'ampia raccolta di dati preliminari, sia perché non richiede nemmeno la considerazione iniziale di formulare un ampio ventaglio di ipotesi diagnostiche.
Non c'è dubbio che tale procedimento venga seguito − nei suoi passi fondamentali − da molti clinici; il punto su cui tuttavia nessun clinico può convenire con questa impostazione risiede nella negazione o, per lo meno, nella scarsa considerazione data alla ''plausibilità'' o ''verosimiglianza iniziale'' delle ipotesi diagnostiche. Non è infatti possibile eseguire lavoro diagnostico nel solo intento di escludere un'ipotesi teoricamente possibile ma estremamente improbabile: per es., di fronte a un fatto febbrile, che si verifichi in un paese non endemico per la malaria, attardarsi a ricercare il plasmodio nel sangue, prima ancora di aver preso in considerazione ipotesi più verosimili. In altri termini, il clinico è legato alla necessità e al dovere di considerare, nell'interesse stesso del malato, le cosiddette ''probabilità a priori'' delle singole malattie.
In definitiva, anche se è possibile riconoscere nella strategia ipotetico-deduttiva molti aspetti dell'agire del clinico, una sua stretta osservanza appare più adatta alla ricerca scientifica pura che alle applicazioni cliniche.
La strategia per esclusione, che ha qualche somiglianza con il precedente approccio ipotetico-deduttivo, consiste nel pervenire a una diagnosi mediante l'eliminazione di tutte le ipotesi diagnostiche concorrenti, e viene utilizzata qualora il clinico si trovi a dover affrontare un'ipotesi di malattia che non possa essere facilmente provata direttamente.
Per es., in un malato con vertigini che non possa essere sottoposto a complesse indagini arteriografiche, si giunge spesso alla diagnosi di ischemia cerebrale transitoria, dopo aver escluso la possibilità di una labirintosi, di una lesione cerebrale a focolaio o di una neoplasia mediante l'esecuzione di esami clinici meno traumatizzanti. Va notato che nella maggior parte dei casi in cui si utilizza questo procedimento, tale impossibilità dipende dalle caratteristiche del paziente in esame (che non può essere sottoposto, per es., a un esame diagnostico complesso) o da altre situazioni contingenti, piuttosto che dalle caratteristiche della malattia stessa.
Il procedimento, benché sia effettivamente applicato nella pratica clinica, è chiaramente limitato a poche situazioni cliniche e rappresenta solo un particolare aspetto con cui il medico è costretto a risolvere certi problemi.
La strategia sequenziale o algoritmica consiste in un approccio diagnostico basato sui cosiddetti alberi diagnostici, simili, nella loro formulazione, alle flow-charts dei programmi informatici. In altri termini, con questa strategia vengono prese in considerazione sequenzialmente singole ipotesi o singoli gruppi di ipotesi che costituiscono parti o sotto-insiemi del problema diagnostico generale. Per es., di fronte a un episodio di ipoglicemia potrà essere considerato prima il problema se l'ipoglicemia è di tipo organico o funzionale; nel caso essa risulti di tipo organico, si affronterà il problema se essa è dovuta a un iperinsulinismo o meno, mentre nel caso che l'ipoglicemia risulti di tipo funzionale, si affronterà invece il problema se sia correlata a un rapido svuotamento gastrico o meno, e così via.
Questa strategia riveste particolare importanza pratica anche perché permette, seguendo precise regole derivate dalla teoria dell'informazione, d'indicare algoritmi in grado di minimizzare il numero delle operazioni necessarie per la risoluzione del problema diagnostico. Questo obiettivo sembrerebbe quindi offrire la possibilità di rendere massima l'economia del procedimento clinico; tuttavia tale convenienza è solo teorica, essendo dimostrata la necessità di introdurre nel procedimento diagnostico un certo grado di ridondanza di esami, indispensabile per il controllo interno delle informazioni ottenute.
Altri inconvenienti di questa strategia sono rappresentati dal prolungamento dei tempi diagnostici, determinato dalla necessità di attendere l'esito di un esame prima di decidere il successivo procedimento e dalla frequente necessità di ricorrere a test complessi e costosi. La strategia sequenziale possiede invece il vantaggio di essere altamente predittiva; ma tale predittività è, per forza di cose, limitata a settori alquanto ristretti. Spesso, infatti, è impossibile considerare le ipotesi più rare, quindi tale strategia risulta utile solo alla risoluzione dei casi più comuni.
Un altro approccio talora seguito dal clinico è rappresentato dal cosiddetto criterio ex adjuvantibus, che consiste nello stabilire una diagnosi in base non tanto a elementi probativi diretti, quanto all'osservazione dell'efficacia di una terapia specifica per una data malattia. Il ragionamento logico che sottostà a questo particolare approccio − anch'esso utilizzato in particolari situazioni e non generalizzabile − merita particolare attenzione anche perché, come si vedrà, è il medesimo ragionamento utilizzato nel controllo della diagnosi attuato in base all'osservazione del decorso di malattia.
Esso consiste nell'affermare che se un paziente dimostra di ottenere la guarigione in seguito a una terapia specifica per una data malattia, è ragionevole asserire che il paziente è affetto da tale malattia. Per es., qualora si osservi che un paziente, il quale presenti una lesione polmonare compatibile con la diagnosi o di tumore polmonare o di tubercolosi, viene di fatto guarito da un trattamento con streptomicina (terapia specifica per la tubercolosi e inefficace per il tumore), si ritiene giustificata, in base al criterio ex adjuvantibus, la diagnosi di tubercolosi.
Il ragionamento del clinico è generalizzabile secondo il seguente schema logico:
a) la malattia M implica, qualora sia attuato il trattamento T, la guarigione dei pazienti affetti; b) il paziente P è guarito dopo essere stato trattato con T; c) perciò P era malato di M.
Un'argomentazione di questo genere non è deduttivamente valida, in quanto incorre nella cosiddetta fallacia dell'affermazione della conseguente. Deduttivamente non valido significa che il ragionamento non produce conclusioni sicuramente esatte. In effetti, affinché la conclusione ammessa in base a un ragionamento di questo tipo risulti sicuramente esatta, sarebbe necessario che il trattamento T fosse assolutamente specifico per M, cioè in grado di guarire sempre e solo i pazienti con M. Questa condizione può effettivamente verificarsi nella pratica clinica (si considerino per es. le terapie ormonali sostitutive in caso d'insufficienza endocrina primitiva di una determinata ghiandola): tuttavia tali situazioni rappresentano una parte estremamente ridotta rispetto a tutte le possibili situazioni cliniche.
Tuttavia le conclusioni raggiunte con il procedimento ex adjuvantibus, anche se risultano logicamente valide solo in casi particolari, non devono essere rifiutate come prive di valore, perché rappresentano pur sempre un'ulteriore prova a favore della diagnosi formulata o, se si preferisce, un ulteriore elemento di corroborazione. In altri termini, la diagnosi, dopo questo controllo, diviene ancor più affidabile, pur rimanendo in linea di principio confutabile. Da tali considerazioni è chiaro che anche questa strategia rappresenta solo un aspetto particolare e marginale delle modalità di ragionamento clinico.
Va infine ricordato che nell'ambito della d. devono essere compresi anche alcuni meccanismi di controllo della diagnosi stessa. La riprova dell'esattezza della diagnosi viene di solito dall'osservazione del decorso morboso e dei risultati terapeutici che dovrebbero essere conformi a quelli prevedibili per la malattia che è stata diagnosticata. Per es., la mancata tendenza alla guarigione di un'artropatia acuta dopo adeguato trattamento con colchicina rimette in discussione un'eventuale diagnosi di artropatia gottosa. Questo tipo di ragionamento è del tutto sovrapponibile a quello appena discusso a proposito dell'approccio diagnostico ex adjuvantibus, condividendone tutti i limiti logici.
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