DI GENNARO, Giuseppe Aurelio
Nacque a Napoli nel 1701 dall'avvocato Ottavio e da Cecilia De Franco, in una famiglia che faceva parte di quelle élites urbane affermatesi nel secolo precedente nell'ambito dei pubblici uffici e delle professioni forensi. L'educazione e l'istruzione ricevute dal D. furono quelle tipiche degli eredi delle più cospicue famiglie di operatori della giustizia e della pubblica amministrazione. I suoi primi studi furono affidati alla cura dei gesuiti. In seguito seguì i corsi di retorica, grammatica e gli studi di letteratura umanistica sotto la guida dei più noti precettori della città. Infine studiò giurisprudenza all'università di Napoli, nella quale trovavano circolazione sempre più ampia le idee provenienti d'Oltralpe, il razionalismo cartesiano in particolare, da cui il D. fu notevolmente influenzato. Un cursus di studi esemplare lo condusse in giovanissima età (intorno ai venti anni) a patrocinare le prime cause in tribunale. Si distinse immediatamente tra i tantissimi avvocati del foro napoletano per il rigore dottrinario e la vasta erudizione. Si trattava di virtù che contrastavano notevolmente con lo scarso rigore giuridico e con l'oratoria vuota e ridondante di molti degli avvocati del tempo. Non a caso lo stesso D. ebbe modo in varie occasioni di ironizzare sugli "avvocati ignoranti, damerini e sfacciati, onde abbondava il foro napoletano" (M. Schipa, 1923, p. 134). Alcuni suoi interventi nei tribunali, caratterizzati da una chiara impronta anticurialista, ebbero vasta eco e "furono fonti di vivacissime polemiche" (R. Feola, p. 3).
Tra questi è meritevole di menzione l'allegazione Ragioni per la fidelissima, et eccellentissima città di Napoli, colle quali si dimostra la giustitia delle suppliche date a Sua Cesarea et Cattolica Maestà, affinché si impediscano gl'incessanti acquisti de' beni stabili, che si fan dagli ecclesiastici, et le nuove fabbriche non necessarie de' luoghi pii, Napoli 1733, che suscitò le risentite reazioni degli Ordini regolari presenti a Napoli, soprattutto dei gesuiti, cui il D. replicò con la Risposta alla scrittura del sig. d. Octavio Ignazio Vitagliano, intitolata: Ragioni, che si propongono per dimostrare e sostenere il vero e pubblico interesse della fidelissima et eccellentissima città di Napoli, e di tutto il Regno intorno a' nuovi acquisti di beni stabili, che potran fare gli ecclesiastici, e alle nuove fondazioni de' luoghi pii, e specialmente intorno alla fondazione del nuovo collegio dei PP. Gesuiti, ibid. 1734.
Il D. si collocava, così, nel solco del pensiero giannoniano, tra coloro che più aspramente avversavano le ingerenze della Chiesa negli affari dello Stato.
Alla sua formazione professionale e culturale, alla sua impostazione giuridica e politica contribuì, accanto a una profonda conoscenza della pubblicistica giuridica italiana, quella delle opere dei maggiori giuristi europei dell'epoca, soprattutto francesi. Da questa vasta formazione dottrinale e dall'intensa esperienza forense il D. trasse la convinzione dell'urgente necessità di una riforma del sistema giuridico del Regno. In primo luogo egli, fin dalla sua prima opera, Respublica iurisconsultorum (Neapoli 1731), espresse non poche riserve nei confronti della pratica giudiziaria fondata sul diritto comune per tutte le distorsioni di tipo interpretativo che esso comportava.
In pratica succedeva che nei tribunali del Regno, a causa da un lato dell'affastellarsi delle prammatiche, numerose e tra di loro spesso contraddittorie, dall'altro delle numerosissime norme attinte dal diritto comune, il campo di discrezionalità dei giudici fosse assai ampio, tale da contravvenire a uno dei postulati fondamentali del diritto romano, la certezza. E al diritto romano il D. guardava come all'ordinamento storicamente esistito, che più di ogni altro rappresentava quell'universalità e immortalità che doveva essere propria delle leggi degli Stati. L'importanza riconosciuta al diritto romano, tuttavia, non comportava affatto un disconoscimento del diritto comune in quanto tale. Infatti, come meglio e più ampiamente farà negli anni della maturità, già allora egli rivendicava il carattere universale e naturale del diritto. La profonda crisi attraversata dal sistema del diritto comune, che pure in quanto tale rispondeva assai bene alle esigenze di tipo giusnaturalistico, era da imputare alle inefficienze del potere centrale e alla gravissima impreparazione culturale della gran parte degli operatori della giustizia. Si trattava di una posizione che riproponeva una visione umanistica e colta del diritto e che faceva del giovane e brillante avvocato uno dei più fini rappresentanti di quella scuola storica del diritto, germogliata a Napoli nei primi decenni del secolo XVIII e che non poca parte ebbe nei fermenti rinnovatori di questi anni. Il D., nel dicembre 1732, inviò copia di quest'opera al Giannone, allora a Vienna, che la apprezzò e la trasmise a Lipsia a Friedrich Mencken, che ne fece una ristampa in quella città (1733: De Giovanni, pp. 483, 530).
La stagione del riformismo carolino vide fin dall'inizio (1734) l'entusiastica adesione del D. al nuovo governo. Le sue posizioni politiche, la riconosciuta sapienza dottrinaria, i numerosi successi ottenuti come avvocato lo condussero lungo le strade di una brillante carriera pubblica. A soli 37 anni, il 24 maggio 1738, fu nominato giudice della Vicaria civile, che, insieme al Sacro Regio Consiglio e alla Reale Camera di S. Chiara, costituiva il vertice della struttura giurisdizionale del Regno.
Nel 1742 entrò a far parte della giunta di giureconsulti nominata dal sovrano allo scopo di varare un codice del Regno. Ed e in questi anni di intensa attività che egli cominciò a lavorare intorno a quella che risulterà la sua maggiore opera, Delle viziose maniere del difendere le cause nel foro, pubblicata a Napoli per la prima volta nel 1744.
In essa il D. tentava "di indicare un sistema di garanzie di legalità e di giustizia da ritrovarsi direttamente nel sistema del diritto comune concepito come espressione di strutture naturali ed immutabili" (R. Feola, p. 7). Era una posizione tesa ad accreditare l'autonomia, il potere e il prestigio delle magistrature del Regno e degli operatori della giustizia in generale, che - secondo il D. - potevano svolgere con sicurezza le loro funzioni se, sorretti da una solida preparazione umanistico-erudita, avessero "mantenuto la ricerca della norma da applicare il più possibile all'interno delle fonti tradizionali, nelle quali soprattutto si presupponeva espresso il diritto naturale" (ibid., p. 12). Sia pure in un'ottica che non era affatto di gretto conservatorismo, essendovi l'esplicito riconoscimento delle distorsioni del vecchio sistema, era confermata la tradizionale diffidenza del ceto forense napoletano verso una legislazione del "principe" di tipo contrattualistico, tale da diminuire sensibilmente gli spazi riservati alle interpretazioni e agli interventi politico-sociali degli operatori del diritto. Le Viziose maniere risentono indubbiamente del clima politico di quegli anni, che videro una notevole crisi del riformismo carolino dopo i primi anni di grande entusiasmo e speranze. Del resto la guerra con l'Austria del 1743-44 aveva messo in pericolo la stessa monarchia borbonica. Ma non minore influenza ebbe sul D. l'opera di L. A. Muratori, Dei difetti della giurisprudenza (Venezia 1742). L'idea che, per il corretto funzionamento della giustizia, non si potesse scindere la teoria (affidata ai professori) e la prassi (affidata agli operatori) giuridiche, ma che i due momenti dovessero essere sintetizzati nell'opera quotidiana di un personale colto e sensibile accumunava i due personaggi. Questa preoccupazione di tipo tardo umanistico trova conferma in una lettera indirizzatagli dal Muratori il 10 giugno 1745 (pubblicata in appendice all'edizione veneziana dell'opera del D. del 1748, p. 173), in cui si mostra un grande apprezzamento per le Viziose maniere. Ma già in occasione di una delle prime edizioni della Respublica iurisconsultorum il Muratori aveva espresso con una lettera di cui non si conosce la data, ma che è molto probabilmente della fine degli anni '30 (in G. F. Soli Muratori, Vita del preposto L. A. Muratori, Napoli 1758, p. 305), grande ammirazione per lo stile letterario dell'opera, paragonato a quello di Plauto e Terenzio. La cura dello stile, il gusto letterario, era una delle cifre della produzione e della personalità del Di Gennaro. Anzi molte delle sue opere presentano una struttura narrativa di tipo letterario classico con personaggi che discutono di problemi giuridici.
Del resto, come era consuetudine tra molti intellettuali. egli si era cimentato in vere e proprie opere poetiche (una sua raccolta di Carmina vide la luce a Napoli nel 1742), accolte con favore nei numerosi circoli filosofico-letterari, che si formavano in questa prima metà del Settecento a Napoli. Nel 1745 fu ammesso, diventandone uno degli esponenti più in vista, nell'influente Accademia, sorta presso il salotto dell'avvocato Girolamo Morano (titolare di uno dei più importanti studi professionali della città) e denominata "Portico della Statera".
Nello stesso anno ebbe dal re la nomina di segretario della Real Camera di S. Chiara. Si trattava di una carica prestigiosa, che lo collocava ai massimi livelli dell'apparato politico-amministrativo del Regno. Infatti la Camera di S. Chiara era preposta alla discussione delle cause attinenti l'amministrazione generale dello Stato. La successiva tappa della sua carriera fu il conferimento, avvenuto il 6 luglio 1747, della carica di regio consigliere.
Nello stesso anno gli fu concessa la cattedra di diritto feudale presso l'università di Napoli, in cui successe a Ferdinando D'Ambrosio. Con il conferimento di questa prestigiosa cattedra iniziò un ulteriore e proficuo periodo della sua vita. La sua attività, oltre che all'insegnamento, fu indirizzata soprattutto allo studio e alla ricerca. Anche in materia feudale molto apprezzata dai contemporanei fu la De iure feudali, oratio in publico Neapolitano Lyceo habita VI Idus Ianuarias a. 1754 (Neapoli 1754), che apparve riprodotta anche nelle Novelle della repubblica letteraria, stampate a Venezia nel 1755 (R. Feola, pp. 7 s.). L'oratio riaffermava, in linea con la tradizione della giurisprudenza feudale del Regno, l'importanza e il ruolo della consuetudine. Gli interessi per il diritto feudale in lui non erano nuovi. Se ne era occupato già negli anni in cui aveva esercitato la professione di avvocato. Nel 1735 aveva, infatti, pubblicato a Bologna Della famiglia Montalto, che costituisce un esempio di erudita e rigorosa ricerca in tema di diritto feudale.
L'ultima grande opera del D., le Feriae autumnales post reditum a republica iurisconsultorum, fu pubblicata a Napoli nel 1752. Si tratta di un'opera che rappresenta assai bene quell'incontro tra valori letterari e rigore scientifico-erudito tipico dell'autore, che egli mostra anche nell'Epistola collectioni dissertationum et opuscolorum iurisprudentiae, quam literaria societas Bernae apud Helvetios meditatur, praefigenda (Neapoli 1759).
Il D., che negli ultimi anni della sua esistenza rimase in disparte dalla vita pubblica, si spense a Napoli il 25 ag. 1761. Alla sua morte rimasero inediti alcuni scritti, tra cui le Institutiones civiles e le Institutiones iurisfeudalis, ora irreperibili, segnalate dal Giustiniani (p. 86).
Fonti e Bibl.: Notizie biografiche sul D. si hanno in: G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, Napoli 1754, II, p. 307; L. A. Muratori, Raccolta delle vite e famiglie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di F. De Fortis, Milano 1755, pp. 16, 20, 37; L. Giustiniani, Memorie istor. degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli 1787, II, pp. 82-88; E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri..., I, Venezia 1834, pp. 655. Per una discussione critica delle posizioni del D.: cfr. M. Schipa, Il Muratori e la coltura napoletana del suo tempo, in Arch. stor. per le province napol., XXVI (1901), pp. 601-605; Id., Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, II, Napoli 1923, pp. 82, 133 ss., 257; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1970, pp. 362, 388 s.; B. De Giovanni, La vita intellettuale a Napoli fra la metà del '600 e la restaurazione del Regno, in Storia di Napoli, VI, Napoli 1970, pp. 451, 483, 499 s., 509, 512, 530, 532 ss.; G. Ricuperati, Napoli e i viceré austriaci, ibid., VII, ibid. 1972, pp. 366, 418; R. Feola, Aspetti della cultura giuridica a Napoli nella prima metà del Settecento, Introd. a G. A. Di Gennaro, Delle viziosemaniere di difender le cause nel foro, Bologna 1978, pp. 1-19 (con ulter. bibliogr.).